Geopolitica

Yemen: se l’ISIS attacca i sauditi

8 Dicembre 2015

Il 6 dicembre scorso, il presidente del governatorato yemenita dell’Aden, Jafar Saad, è rimasto vittima di un attentato terroristico, prontamente rivendicato dallo Stato Islamico. Un evento di assoluta rilevanza, soprattutto alla luce della sanguinosa guerra che sta via via sgretolando la regione.

Il conflitto nello Yemen esemplifica difatti ormai da mesi i crudi paradossi dello scacchiere politico mediorientale: soprattutto da quando in primavera si è costituita una lega militare in risposta al tentativo dei ribelli sciiti Houthi di prendere il controllo della penisola. Una lega che vede tra i suoi maggiori promotori nomi di spicco dell’universo sunnita, dall’Arabia Saudita all’Egitto: una lega che nelle sue varie componenti (dalle più radicali alle più moderate) sembra aver trovato come proprio collante primario una strenua opposizione religiosa allo sciismo. Se a questo poi aggiungiamo il fatto che Teheran finanzi alacremente gli Houthi, si comprende allora come gli sforzi militari di Riad e del Cairo – al di là di sbandierate velleità da guerra santa – celino un’intenzione geopolitica chiaramente anti-iraniana.

Ebbene, in questo quadro così complicato, la rivendicazione dell’uccisione di Saad da parte dell’ISIS rappresenta un elemento quantomeno curioso. Saad era difatti un generale dell’esercito yemenita, particolarmente vicino alle forze militari saudite (che rivestono un peso preponderante in seno alla coalizione anti-Houthi). Tanto che proprio Riad era riuscita a nominarlo lo scorso ottobre presidente della provincia dell’Aden. Un atto che – come riporta Mohammed Al-Kibsi sul Wall Street Journal – non solo (ovviamente) ha determinato l’ira degli Houthi ma anche (e soprattutto) quella dello Stato Islamico: che nell’ultimo mese si è letteralmente scatenato in una serie di attentati all’interno della città di Aden, in cui sono rimasti uccisi ben quindici soldati. Risultato notevole, se si tiene conto del fatto che attualmente in Yemen le cellule dello Stato Islamico risultino particolarmente deboli (soprattutto rispetto a quelle di Al Qaeda, con cui è in spietata concorrenza).

L’ISIS colpisce quindi l’Arabia Saudita. E lo fa in un territorio dove il regime di Riad si sta giocando molto: non solo perché coinvolto in prima persona nel conflitto ma anche perché è nello Yemen che sta al momento portando avanti la partita più pericolosa contro l’Iran, suo storico rivale sciita. Perché attenzione: che il fronte sunnita sia frastagliato e articolato in numerose correnti (talvolta in conflitto reciproco) non è di certo una novità. Ma la notizia qui è che l’ISIS stavolta non sta attaccando l’Egitto di Al Sisi (un sunnita che ha sempre dichiarato guerra al fondamentalismo) o la Giordania (il cui sunnismo moderato l’ha addirittura caratterizzata come baluardo occidentale contro lo Stato Islamico).

No: questa volta sembra essere l’Arabia Saudita il nemico del redivivo Califfato. Quella stessa Arabia Saudita che sul versante religioso si è sempre mostrata vicina a posizioni radicali di matrice wahhabita. Un fondamentalismo che – soprattutto in Occidente – ha più volte originato polemiche non soltanto sulle questioni sociali e umanitarie (a partire dalla condizione femminile) ma anche geopolitiche: essendo stato più volte accusato (con qualche evidenza) di fare il doppio gioco, proponendosi da una parte come baluardo occidentale in Medio Oriente, per poi finanziare sottobanco il terrorismo islamista di segno sunnita (ISIS incluso).

In quest’ottica allora emerge con ancora maggior forza il problema del ruolo saudita in seno allo scacchiere internazionale. E questo soprattutto per gli Stati Uniti, la cui politica estera – a partire dalla presidenza di Barack Obama – sta lentamente virando verso l’Iran, a netto discapito di Riad. In tal senso va d’altronde letta la recente apertura di Washington a Teheran attraverso il nuclear deal: cercare di sganciarsi da un’Arabia Saudita ambigua e tentare di costruire una nuova alleanza (con l’Iran, per l’appunto). Una strategia che ciononostante il presidente americano sta facendo fatica ad attuare, essendo rimasto in mezzo al guado (e difatti in Yemen appoggia contraddittoriamente la coalizione anti-Houthi). Sennonché il prezzo da pagare per questa scelta filo-sciita potrebbe essere alto. Aprire all’Iran significherebbe non solo (come d’altronde già avvenuto) alienarsi le simpatie di Israele. Ma anche chiudere sostanzialmente le porte alla totalità dell’universo sunnita (anche quello moderato), per abbracciare un mondo sciita (sostanzialmente khomeinista) che ha sempre visto negli Stati Uniti un nemico da abbattere.

In questo quadro, il ruolo di Riad diventa chiaramente cruciale. L’attentato del 6 dicembre potrebbe aiutare i sauditi a fugare i sospetti sulle loro relazioni con Al Baghdadi. Ma questo potrebbe non bastare a creare autentica fiducia. Ed è pur vero che la credibilità di uno Stato passa anche dalle proprie scelte in politica interna: e in questo momento storico la monarchia saudita non ha condotto una sola riforma che la avvicini – anche solo lontanamente – ai princìpi occidentali.

Sennonché, in questo ennesimo gioco al massacro tra fanatismi contrapposti, il problema non sarà individuare il bene. Ma il male minore.

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