Geopolitica

Viaggio nei Balcani: destinazione Kosovo, l’ultimo Stato d’Europa

13 Ottobre 2017

Un gruppo di 25 ragazzi e ragazze in giro per il Kosovo, un viaggio dentro una terra che è anche un viaggio dentro l’anima di quei luoghi e dei popoli che se ne contendono il controllo da anni. Una scoperta di come gli attori internazionali si relazionano e si sono relazionati con il Kosovo e con i kosovari, di come questi rapporti si sono sviluppati nel tempo e di quale spazio c’è ancora per un supporto internazionale ad un Paese che ormai diventa Stato autonomo ogni giorno di più.

 

Twenty Prishtina, Forty Gjakovë”.

All’arrivo in Kosovo non sai cosa aspettarti. Come sarà mai questa regione del mondo, questa terra che non ha mai smesso di essere contesa tra i popoli?

Le uniche direttive che avevo ricevuto, arrivando con un giorno di ritardo rispetto al gruppo, erano state più o meno queste: “trova un tassista, chiedi di portarti alla stazione dei bus anche se lui ti offrirà un passaggio direttamente per Gjakovë, da lì prendi un bus per la tua destinazione a 4 euro”.

Un ragazzo europeo, uno dei millennials, oggi, non è più abituato a confrontarsi con persone che parlano una lingua così diversa dalla sua. Non ricorda più com’è stato il primo viaggio studio in un paese europeo, in cui parlava due parole in croce della lingua straniera, inglese, francese o tedesco che fosse. Quei giorni sono ben lontani perché, dopo il liceo e durante l’università, quel ragazzo è diventato un ragazzo europeo, che si è sempre ritrovato con una lingua in comune con l’interlocutore di fronte, con amici in giro per l’Europa, capace di adattarsi ad ogni paese europeo, luoghi che sa di poter chiamare in un certo modo casa.

In Kosovo, invece, dopo tanti anni, mi sono trovato con un taxista che non mi capiva. Non un tassista spagnolo con cui puoi buttar lì un po’ di italiano e farti comprendere, o un autista tedesco che sa sempre un po’ di inglese. Questo taxista sapeva solo impastare alla buona la frase “twenty Prishtina, forty Gjakovë”. Non conoscendo nulla se non “grazie” in albanese, ho provato a spiegarmi. “Bus for Gjakovë in Prishtina”. Lì lui pianta il freno e mi fa capire che mi può portare alla mia destinazione per 40 euro e che lui è la scelta migliore, non il bus. Ha ripetuto per tutti i 10 minuti del tragitto fino alla stazione dei bus quel “forty Gjakovë” come fosse un mantra. Ed io nel sedile posteriore provavo un grande fermento ed eccitazione, per la situazione tragicomica, attraversando quel paesaggio cittadino dal sapore post-sovietico, con insegne americane forse più vecchie di me.

La stazione dei bus mi ha rimandato subito alla mente alle vecchie stazioni di bus nell’entroterra siciliano, quando ero piccolo e fuori dalla grande città i trasgressori del divieto di fumo in luoghi pubblici erano ancora tanti. Affamato, vedo intorno negozietti poco attraenti e tra le incomprensibili offerte di cibo opto per degli snack industriali, acquistabili anche solo a gesti e dal contenuto più comprensibile rispetto al cibo di strada kosovaro, di cui non sapevo nulla. Bruschette al gusto italiano, made in Bulgaria. E nell’ora d’attesa mi sorge qualche interrogativo un po’ nazionalistico, ma quasi forzato “questi maledetti italiani che non riescono a far proprio il mercato dei prodotti al gusto italiano…”.

 

Una nuova casa in Europa.

Sopra i cieli dei Balcani mi metto subito a lavoro, a fissare pensieri e parole sull’esperienza appena vissuta in Kosovo. Un viaggio in cui il timore di fissare i momenti è più intenso, un viaggio di cui voglio immagazzinare con dettagli netti anche i momenti più effimeri. Perché il Kosovo è uno di quei posti che ti resta dentro, che lascia un segno: prima di capire il Kosovo devi infatti addentrarti nel sentimento kosovaro, comprendere i perché di quella dichiarazione d’indipendenza e, nel farlo, piano piano quella terra diventa anche un po’ la tua terra, un’Arcadia da cui ti sei sempre sentito chiamare e che nemmeno sapevi fosse lì, a pochi chilometri dall’altro lato del mare Adriatico. Il Kosovo è diventato, in pochi giorni, una casa per tutto il gruppo, un posto da difendere dalle angherie degli estremismi nel mondo. L’ultimo Stato d’Europa, un grande esperimento di democrazia.

Non si parla più del Kosovo. I giornali italiani sembra quasi non abbiano mai avuto un grande interesse per quest’area geografica, quasi a rispecchiare quell’immagine geografica per cui l’Italia sembri dare le spalle ai Balcani. Il confronto con l’Italia è, infatti, stato costante, non solo per me ma per tutto il gruppo in viaggio, composto da ragazzi italiani o residenti in Italia da tempo. L’associazione con cui sono partito è l’italiana Associazione Diplomatici e quest’anno ha per la prima volta organizzato il viaggio studio in Kosovo. Mentore e guida del viaggio è stata la professoressa Stefania Paradisi, la cui esperienza sul campo è stato nettare di cui tutti i 25 ragazzi ci siamo costantemente nutriti durante la settimana insieme. Nostri accompagnatori su e giù per il Kosovo sono stati i Carabinieri, alla guida di due camionette, gentilmente concessi da MSU, l’Unità Multinazionale Specializzata dei Carabinieri presente in Kosovo dal 1998, di cui dirò meglio dopo.

L’esperienza, a dir di tutti, è stata sicuramente arricchita dalla forza del gruppo che, nonostante i diversi background di provenienza – non solo universitaria ma talvolta anche culturale-, è sempre stato aperto al confronto, preparato agli incontri e pronto a fare domande esplorative durante i vari incontri istituzionali. Non solo, ma alla conclusione del viaggio, si è insieme realizzato che la percezione individuale di ognuno di noi rispetto alle esperienze condivise hanno portato a riflessioni e conclusioni simili, soprattutto dopo lunghi e appassionati confronti. Uno sguardo moltiplicato per 25, che mi ha permesso di vivere nel modo migliore questo ignoto paese così vicino all’Italia, alle porte dell’Europa. Un paese che, proprio grazie all’organizzazione del viaggio, ho imparato a conoscere partendo dal luogo in cui si sono concentrati gli scontri più efferati tra le due etnie che abitano il Kosovo, dove la spinta indipendentista ha preso piede e raccolto più forze, dove il sentimento kosovaro e albanese è radicato da più tempo. Alloggiavamo, infatti, a Gjakovë/Đakovica (doppia nomenclatura in albanese e serbo, ndr), luogo che durante la guerra per l’indipendenza ha sofferto la distruzione della sua parte più caratteristica, costruita interamente in legno, ma oggi finalmente ricostruita – fatto di cui gli abitanti del luogo sono felici oltremisura, grati di poter rivedere la propria amata città di nuovo bella e non più cumuli di macerie.

Ma come descriverei il Kosovo, come descriverei questa terra? Per i due anni di guerra civile in Kosovo sulle nostre televisioni sono solo apparse città abbattute e scene di morte. Nulla riguardo a questa splendida terra. Il Kosovo ha le dimensioni del nostro Abruzzo ma io ed i miei compagni di viaggio continuavamo a far paragoni con la Toscana o con le Marche, più bucolico e rurale certamente, a tratti molto kitsch, per i palazzi sparsi con quel pacchiano stile hollywoodiano, già visto in diverse parti dell’Europa al di là della cortina di ferro. Al mio arrivo a Gjakovë faccio un giro per la città. Case distrutte ovunque, segno degli investimenti a singhiozzo, della costruzione per anni avvenuta senza piani urbanistici, con l’evidente bisogno di mettere un tetto sulla propria testa in fretta dopo che la propria casa era stata annientata dalla guerra. Noto, però, un poliziotto a guardia di un edificio protetto da mura e con uno splendido giardino, proprio in mezzo alla desolazione. Una piccola residenza degli ultimi tre serbi rimasti a Gjakovë, due vecchiette ed una guardia. Il mio primo impatto con l’intenso scontro culturale che il Kosovo vive, tra incanto e distruzione, tra Serbi e Albanesi.

Da lì è partita l’avventura di tutti noi, compresa la mia. Grazie al confronto costante con persone aperte ed interessanti, sono riuscito ad arricchire la mia conoscenza poco dettagliata della storia di quel Paese e dell’area in generale. Uno studio che è stato sicuramente ispirato e facilitato dal toccare con mano i luoghi bombardati, i memoriali, i monumenti agli eroi albanesi, i luoghi sacri ai serbi. Questo è stato il viaggio, un continuo assorbire cultura, una continua pressione sulle porte della mente per aprirla alle varietà del mondo ed al modo in cui le persone vivono il territorio, al modo in cui le persone arrivano a chiamare alcuni luoghi casa, tanto da lottare per difenderlo. Perché questo è il Kosovo. Il Kosovo è una casa, una bellissima casa che si è tentato di difendere dall’invasore sulla base dell’assunto che “questa è solo casa mia”.

La guerra d’indipendenza del Kosovo risale agli anni ‘80, con l’omicidio in Germania di due fratelli kosovari indipendentisti. Nel corso degli anni ‘90, durante il processo di dissoluzione della Jugoslavia, personaggio di spicco è Ibrahim Rugova, noto come “Gandhi dei Balcani” ma anche come il “Padre della Nazione”, ha guidato la resistenza non violenta e fondato il partito indipendentista in seguito alla strenua resistenza di Belgrado alle richieste del popolo kosovaro. Uno scontro che si è poi risolto in guerriglia, rastrellamenti, stragi, stupri perpetrati principalmente da parte dei serbi contro la maggioranza albanese, a cui ha posto fine soltanto l’intervento delle truppe NATO nel 1999 con raffiche di bombardamenti in territorio serbo. Un conflitto che ha ucciso circa 12.000 civili ed oltre 6.000 combattenti albanesi, oltre 3.000 serbi, stuprato 2.000 donne e distrutto gran parte delle città, delle infrastrutture, delle moschee. Un’immensa ferita nei cuori degli abitanti di quel Paese. Un Paese che con la risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza (atto di fondamentale importanza anche per il diritto internazionale) veniva posto sotto l’amministrazione provvisoria dell’ONU denominata UNMIK ed il controllo armato della missione KFOR della NATO per prevenire ulteriori violenze. Un Paese che, nonostante questi serrati controlli, non è riuscito comunque a contenere lo sfogo violento di albanesi contro i serbi nel 2004, che ha portato alla distruzione di trenta chiese e monasteri cristiani molto cari ai serbi in Kosovo, nonché la morte di 20 persone. Fatti di cui i kosovari hanno molta difficoltà a parlare ancora oggi.

Il Kosovo è stato teatro di una feroce guerra civile, avvenuta proprio sotto gli occhi delle organizzazioni internazionali che avevano da poco assistito al fallimento delle trattative in Bosnia e al genocidio di Srebenica nel luglio ‘95. Una guerra tra vicini di casa ed amici del giorno prima, è stata spesso definita dai kosovari con cui ho parlato. Una guerra per la quale a breve si aprirà un tribunale internazionale con l’arduo compito di dipanare l’intricato groviglio tra storia, mito e politica che in pochi decenni si è sviluppato intorno agli eventi e le personalità di spicco di quegli anni. Una confusione, quest’ultima, in cui ho visto gli stessi orrori e gli stessi errori che sono stati commessi in Italia riguardo la nostra di guerra civile e che mi auguro questo tribunale riuscirà ad evitare, pronunciando quelle verità che in Italia sono state insabbiate e condannando quegli atti che in Italia sono stati giustificati, condonati, dimenticati.

Un incontro che senza ombra di dubbio ha marchiato i cuori di tutti i presenti è quello con l’associazione “Thirrjet e Nenave”, Grida delle Madri. Sette donne sedute in fondo alla stanza ad aspettare che ci radunassimo. Sette donne che riempivano la stanza, con cui ci si scambiava sguardi, perché noi sapevamo solo da libri e internet cosa è stata la loro guerra, mentre loro l’hanno vista, l’hanno subita sulla loro pelle, sui loro corpi, sui loro cari. La presidente di questa associazione è Nesrete Kumnova, una donna che sta portando avanti un opera eccezionale con questo gruppo: da anni lavorano alla ricerca di notizie sugli albanesi scomparsi e da ultimo hanno prodotto una raccolta, Monograph for persons kidnapped and disappeared during the war in kosovo gjakove 24 March-12 June 1999, che la presidente sta presentando anche fuori dal Kosovo, fino a Bruxelles. La raccolta – che è stata donata alla nostra guida – contiene per ogni missing person, per ogni uomo, marito, figlio che è stato strappato alla vita durante quella guerra, la sua storia, i documenti degli enti internazionali per la richiesta della salma alle autorità serbe e, cosa più raccapricciante, tutti i documenti sul recupero eo ritrovamento di parti delle salme.
Quasi la totalità delle donne rappresentate da questa associazione, infatti, non ha visto consegnarsi interi i corpi dei propri cari dai serbi, ma hanno ottenuto anno dopo anno, richiesta dopo richiesta, parti del corpo, razionate come se fossero un prodotto divisibile, come atto di ulteriore e becera demarcazione di potere. Altre donne, invece, non hanno mai avuto un corpo da seppellire. Ognuna di loro si è alzata e ci ha raccontato la storia della sua guerra, della sua famiglia. Un crescendo di empatia verso le istanti, una immedesimazione emotiva per quel dolore protratto e ripetuto nel tempo anche dai soprusi sui corpi dei cari. Siamo poi saliti, insieme, su un colle sopra la cittadina di Gjakovë con i mezzi dei Carabinieri ed in auto la signora Kumnova, raccontava come il memoriale è stato volutamente posto lì perché quello era il luogo preferito dai ragazzi per giocare al pallone. In quel luogo in alto, quasi come a rivivere il dolore lungo il cammino, le madri ci hanno mostrato le tombe dei loro cari ed abbiamo assistito ai loro modi di elaborazione del lutto. Una madre, la più silenziosa, si è accesa una sigaretta accanto la tomba, un’altra, la più vecchina, che è esplosa in un pianto che ha provato a trattenere per tutte le ore di racconti, altre che ci guidavano e ci raccontavano come hanno fatto per rendere più belle le lapidi, chi con i fiori, chi scegliendo una foto speciale. Stavamo vivendo il vero dolore, quello di chi sopravvive ai figli, quello di chi resta dopo le atrocità della guerra. E non si riusciva assolutamente a pensare ad altro.

Questa associazione, questo monumento sono simboli, necessari per affrontare il dolore, capirne la dimensione e ripartire da esso. Dopo un’immersione così profonda, infatti, posso sicuramente ammettere che in Kosovo c’è speranza e adesso vedremo perché.

 

Tanti attori, una speranza condivisa.

Innanzitutto, il lavoro delle organizzazioni internazionali. Nonostante gli errori e le ricadute, loro hanno portato avanti un lavoro di ricostruzione strutturato e capillare, frutto delle esperienze in situazioni analoghe come quelle in Ruanda ed in Bosnia. I soggetti internazionali presenti sul territorio hanno una missione ben chiara: far prosperare il Paese al fine di favorire la maggiore integrazione e tolleranza tra i gruppi etnici. I serbi rimasti in Kosovo oggi, infatti, vivono in dei villaggi che ricordano piccoli paesi del sud Italia ad inizio ‘900, case dismesse e nonnine sedute al sole ad aspettare. Tra questi, l’OSCE, l’organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa, è l’ente che in Kosovo ha la presenza più capillare e che da anni ha successo nel portare avanti progetti di integrazione e di mediazione culturale. Il nostro incontro con i loro uffici di Mitrovica Sud si è rivelato essere quello che mi ha lasciato più immagini di vita quotidiana, quello che mi ha spiegato come ogni giorno i funzionari OSCE operano sul territorio e come affrontano grandi problemi affrontandone di piccoli ogni giorno: per esempio, la guida costante nell’uso della doppia lingua in tutti gli atti amministrativi.

Abbiamo preso parte anche incontri, più formali e istituzionali, con gli uffici dell’Unione Europea, con la missione Nato KFOR, con il capo di stato maggiore di MSU, con l’ambasciatore italiano. Le forze dei Carabinieri sono presenti in Kosovo in quanto unica forza statale in Europa che unisce la funzione militare, legittimando quindi una loro presenza all’estero, e la funzione di polizia, utile e necessaria per l’addestramento della polizia kosovara, del tutto estranea, ad esempio, a tecniche di risposta non violenta. Il lavoro delle forze armate in Kosovo, infatti ha avuto una duplice funzione che è stata vitale per la nascita di questo Paese: da un lato cuscinetto per gli scontri, dall’altro di facilitazione per l’integrazione. Soprattutto in Prishtina, dove si trovano le basi e le sedi centrali di tutto ciò che ha uffici in Kosovo, il continuo ricambio di gente internazionale ha di gran lunga aiutato l’approccio all’altro, allo straniero.

 

Il ruolo dei carabinieri italiani affianca la missione EULEX, missione tutta europea che ha l’obiettivo di instaurare il rule of law nel nascente Stato. Con questi incontri, infatti, abbiamo toccato con mano come il Kosovo è un grande esperimento anche per il suo peculiare processo di transizione democratica: diventato indipendente sotto l’amministrazione della UNMIK, l’amministrazione ONU decisa con la nota risoluzione 1244,  adesso lentamente avviene il passaggio di consegne all’Unione Europea (che, quindi, si vede in questo modo confermato il suo ruolo di attore internazionale nell’area) per poi definitivamente passare alle autorità kosovare. Per quanto riguarda la risposta ai problemi di sicurezza, ad esempio, questo passaggio è già avvenuto: la gerarchia adesso è data dalla polizia kosovara come first responder, le forze europee come second e le forze NATO soltanto come third. Un’evoluzione significativa anche in senso simbolico, in quanto adesso è la polizia kosovara (tra l’altro, a composizione mista serba e albanese) presente in maniera massiccia sul territorio. Dieci anni fa, invece, tutti i presidi erano delle forze NATO.

L’Europa in Kosovo ha un obiettivo ben chiaro davanti: garantire la libertà di movimento. Questa è infatti, nella visione europea, la chiave per la transizione democratica. La chiave per lo sviluppo del settore industriale e del terziario, così come, in modo indiretto, la chiave per l’integrazione. Perché sia la ricchezza che la possibilità di viaggiare e di conoscere fanno sì che un paese diventi più accogliente con le diverse etnie. E lo stesso Kosovo ne contiene già la prova. Prizren, la nostra ultima tappa, è una deliziosa città nel sud del Kosovo. Attraversata da un fiume, in una vallata tra alte montagne, è meta turistica in inverno per turisti albanesi ma anche serbi o russi per gli impianti sciistici, in primavera ed estate per i paesaggi e per l’aria fresca e accogliente, ma anche per gli svariati luoghi di interesse: moschee storiche, chiese ortodosse molto antiche, i resti di una fortezza ed un centro storico ben tenuto. Un posto che è prova del fatto che l’integrazione è possibile. Lo è stata e lo sarà di nuovo. Oggi nel post-guerra ci si ritrova, però, ad affrontare una situazione che ai nostri occhi potrebbe avere dell’assurdo: il Kosovo è in tutta l’Europa il Paese con il più alto tasso di giovani nella popolazione e, al contempo, l’unico paese nei Balcani in cui i giovani viaggiano meno dei loro coetanei (non viaggiano affatto), mentre i loro genitori hanno potuto viaggiare per tutta la Jugoslavia ed anche in Europa, ai tempi della Repubblica socialista jugloslava.

Infine, la mia speranza la ripongo nelle persone. Ho conosciuto realtà come Kosovo 2.0, giovani kosovari che scrivono sul Kosovo per il Kosovo, con un approccio e con uno stile che altri tabloid occidentali possono solo invidiare. Ho avuto la possibilità di parlare nelle varie chiese con dei padri spirituali serbi. Uomini aggrappati al senso di appartenenza territoriale e alla sponsorizzazione di quei luoghi come luoghi serbi e che si sforzano di trasmetterne il valore artistico-culturale anche in altre lingue, soprattutto a così rari turisti quali noi eravamo. Anche se covano nel loro cuore un ritorno alla grande madre Serbia, sono convinto che molti di loro si stanno rassegnando all’idea che questo Kosovo non è poi così male, che le tradizioni verranno protette e che la presa in questo gioco della fune può essere allentata. Lo stesso posso dire degli albanesi che ho incontrato. I miti, le storie ed il senso di appartenenza alla Grande Albania è radicato in molti di loro, ma ho sentito parlare qualcuno di quanto preferisce essere kosovaro. Un barista mi ha detto “L’Albania è buona per il mare e le spiagge, ma io qui in Kosovo ho tutto”.

L’ultima sera in Kosovo, il figlio del proprietario dell’albergo ci ha portato a fare un giro in un delizioso luogo vicino Gjakovë, dove un alto ponte stradale sovrasta un’area altrimenti bucolica, con un largo fiume ed un verde rigoglioso. Qui il ragazzo ci fa notare che il ponte è di una azienda italiana e chiama a raccolta due anziani che abitano lì vicino per raccontarci una storia mitologica con sua arrancata ma estremamente simpatica traduzione simultanea. Questa storia racconta di donne che portano del cibo agli uomini che lavorano al ponte e che per qualche strana maledizione muoiono lì. Tornati in albergo racconto l’esperienza alla nostra guida che con un sorriso smorza il mio entusiasmo, convinto di aver avuto raccolto una testimonianza irripetibile ed unica: “Questa storia la sentirete ripetere attraverso tutti i Balcani, ad ogni ponte sopra un fiume. È una storia che lega tutti questi luoghi e che nel tempo ha forse anche perso contatto con il suo luogo di origine. Negli anni ho incontrato tantissimi anziani che mi raccontavano quella storia come autoctona ed unica. Ma questo è proprio il bello di storie come queste: sono una prova costante di come tutti questi popoli siano più simili di quanto vogliano credere”.
Gli esseri umani difendiamo per istinto casa nostra, ciecamente, tirando colpi a destra e a manca. Quando poi, però, la polvere della rissa si dirada e guardiamo dall’altro lato, ci rendiamo conto che c’è un altro essere umano uguale a noi, che combatte per le stesse ragioni, con le stesse paure. Sono convinto che questo è ciò che sta lentamente accadendo in Kosovo e che questo Paese potrà essere esempio per i Paesi occidentali che ancora lottano su inutili repressioni di minoranze o immotivate indipendenze, per le voci contro il migrante perché diverso, per gli altri Paesi ancora in conflitto nel mondo.

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