Geopolitica
Viaggio al confine con Gaza, dove tra funerali e soldati è ancora il 7 ottobre
AMITAI, CONFINE CON GAZA – Nel sud d’Israele c’è sempre il sole. L’estate torrida del deserto del Negev è da sempre anticipata e seguita da lunghissime mezze stagioni, che di quell’estate sono solo la versione ammorbidita e allungata, tanto più in tempi di cambiamento climatico. Quello che qui non cambia mai, almeno fino a quando non cambierà qualcosa davvero, è la vicinanza con la Striscia di Gaza, incubo ultradecennale di chi ci vive e incubatrice di guerra per chi coltiva campi di patate e avocado, mantenendo vivo il mito originario dei pionieri, quelli che trasformarono il deserto in una fioriera. Alcuni Kibbutz della zona sono tra gli ultimi a conservare lo spirito delle origini, mantengono l’impronta socialista, sono dediti ad agricoltura e allevamento, ospitano comunità di ragazzi disabili provenienti da tutto il paese. Naturalmente, essendo cellule comunitarie al servizio della collettività, oggi sono al servizio dei bisogni più impellenti dello Stato ebraico della zona: celebrare gli ultimi funerali delle vittime dell’attentato del 7 ottobre, quelle che sono state identificate solo ora, e fare da base logistica per la guerra a Gaza. Lungo le strade semivuote attorno a Beer Sheva, un’area del paese già poco popolosa di solito, è un continuo viavai di camionette dell’esercito di ogni tipo. Fuori da uno di questi Kibbutz, mi aspetta una giovane portavoce dell’esercito, che mi guida su strade sperdute fino a dove Israele confina da un lato con l’Egitto e dall’altro, appunto, con Gaza. Tamar mi racconta che ha deciso di fermarsi sotto le armi oltre la leva obbligatoria e di diventare ufficiale. “Questa brigata è molto particolare, è una delle poche di specialisti nell’utilizzo di carrarmati in cui soldati uomini e soldati donne lavorano insieme, e svolgono le stesse mansioni. E poi lavorando come portavoce ho l’opportunità di fare cose interessanti, di avere contatti coi giornalisti, di sviluppare competenze e capacità che un domani potrebbero essere molto apprezzate, sia nel campo dei media sia in quello della comunicazione istituzionale”. Del resto in Israele è così da sempre: i galloni conquistati nell’esercito sono un pezzo del curriculum sul quale i datori di lavoro locali gettano sguardi particolarmente attenti.
Alla fine della strada, mentre tutto attorno ci sono solo campi coltivati e segni di carreggiata militare, ci aspetta Shemer. Colonnello dell’esercito israeliano, responsabile di brigata, è in servizio al confine egiziano da quattro mesi. “Siamo forti, siamo ottimisti, stiamo facendo la cosa che dobbiamo fare, chiederà tempo ma ce la faremo”. Dopo la dichiarazione di rito, le sue parole tornano subito al “primo giorno”, quel 7 ottobre che ha visto morire in un colpo oltre mille israeliani, ha portato duecento civili a essere ostaggi nelle mani di Hamas, e ha aperto la strada all’ennesima campagna militare d’Israele a Gaza, con 12 mila morti, per maggioranza minorenni e donne. Con le mani indica i movimenti dei terroristi di Hamas, da dove sono entrati, dove sono stati fronteggiati, dove sono stati respinti.
“In un piccolo villaggio, di nome Yated, c’erano 50 terroristi, siamo arrivati, li abbiamo fronteggiati e riespinti, e abbiamo perso sul campo due uomini”. Il racconto della guerra fresco, vivido, normale: come anche da queste parti non si sentiva da un po’. “Poi siamo andati a Holit, altro piccolo villaggio agricolo della zona, e c’erano già venti terroristi dentro, che stavano massacrando i nostri concittadini. Li abbiamo trovato corpi di bambini e donne già morte, e case già bruciate. Abbiamo combattuto anche lì, e li abbiamo fermati evitando che andassero altrove”. “Ventiquattrore” risponde, quando gli chiedo quanto è durata la prima battaglia. E quanti eravamo il giorno prima, a presidiare un territorio così a rischio? “Della mia unità non c’era nessuno, a presidiare l’area, poi sono arrivati rinforzi, e il giorno dell’attacco però eravamo duecento, con i due carrarmati”. E adesso, chiedo, cosa state facendo? Tamar mi guarda e mi chiede: “Vuoi già spostarti a oggi? Possiamo raccontarti ancora tantissimo di quel che è successo il 7 ottobre”.
Shemer prosegue raccontando che tra le prime cose da fare, finita la prima fase di battaglia, è stato necessario portare i civili residenti nella zona in aree più sicure, nei kibbutz meno vicini a Gaza, dove potevano stare tranquilli, e poi sono stati sfollati in Eilat e in altre zone con alberghi pronti ad accoglierli”. Poi Shemer torna alla questione di prima. All’insufficienza del presidio militare che ha reso possibile il più grande attacco terroristico mai subito da Israele. “Eravamo pochi pensavamo, sbagliando, facendo un enorme sbaglio, che Gaza volesse vivere in pace con noi, sfruttando tutte le opportunità di lavoro che stavamo dando ai palestinesi di Gaza. Non pensavamo volessero autodistruggersi. Eravamo naif, non lo saremo più”. In Israele e in Palestina, con toni diversi, ma poi forse neanche tanto, la frase che sento ripetere più spesso in questi giorni è “ancora non riesco a credere che il 7 ottobre sia successo”, che sia stato così facile raggiungere zone piuttosto lontane da Gaza, e compiere industriati un massacro di quelle proporzioni. Di chi è la colpa? Com’è potuto succede, appunto? “È nostra, un enorme errore”, dice Shemer, indicando le mostrine militari sulle spalle. Un errore enorme di Israele? “Un errore dell’esercito israeliano, il più grave della nostra storia, perfino più grande di quello che rese possibile la guerra del Kippur, quando Egitto e Siria ci attaccarono congiuntamente. Abbiamo sbagliato, non sbaglieremo più. Per questo stiamo facendo quel che stiamo facendo a Gaza: perchè non siamo più ingenui”. Nessun accenno a responsabilità politiche, ovviamente, di cui pure in Israele si discute molto: solo una fortissima presa in carico come ufficiale dell’esercito di mancanza di prevenzione e di comprensione del rischio strategico. Ma con quali obiettivi siete entrati a Gaza? “Il nostro obiettivo è distruggere Hamas, una volta per tutte, ora che abbiamo capito che con loro non si può convivere. Noi non ci arrendiamo. Noi li vogliamo prendere tutti, uno a uno, da sotto terra, ovunque si nascondano”. È realistico immaginare di prenderli tutti? “Ci vorrà tempo ma ce la faremo”. Ma Hamas non è solo un’organizzazione terroristica, militare o politica. È anche, e probabilmente soprattutto, un’idea, che affonda le sue radici in una situazione sociale e storica precisa. Se la distruggete senza rimuovere le cause, risorgerà. “Anche in Germania erano tutti nazisti, eppure dopo aver visto a quale sconfitta e disastro li ha condotti l’essere nazisti, non lo sono stati più. Io sono entrato nelle scuole di Gaza nelle operazioni del 2014, ho visto coi miei occhi le mura tapezzate delle fotografie della mosche di Al Aqsa a Gerusalemme, e le immagini che inneggiano alla distruzione di Israele.E ho capito come lavorino sulle menti delle persone fin da quando sono bambini, fin dalla scuola”. Ma, appunto per questo, perché questa volta dovrebbe funzionare? Con Hamas non ha mai funzionato sconfiggerli militarmente, o far subire alla popolazione palestinese le conseguenze della guerra. Quell’idea non muore, anzi semmai si rafforza dopo migliaia di vittime civili e nuova distruzione, e altra miseria generata dagli attacchi militari. Perché questa volta dovrebbe essere diverso, visto che i morti civili tra i palestinesi si contano a migliaia e migliaia? “A noi dispiace molto, davvero, per le vittime civili, ma la colpa è di Hamas che li usa come scudi umani in scuole e ospedali. Noi non bombardiamo scuole e ospedali, e Hamas lo sa. Ed è per questo che loro si nascondono lì dentro. Questa volta però sradicheremo il problema. Ci vorrà tempo, ma ce la faremo, ci sono esempi storici di successo. Poi lo so, fin da bambino ho imparato che chi vince la guerra è solo il secondo perdente: in guerra non ci sono vincitori”. A proposito di esempi storici, il parallelo con la Germania nazista ci ricorda un contesto nel quale, ai tedeschi che avevano sostenuto il nazismo più o meno di buon grado, è stata subito dopo offerta un’altra possibilità, un’alternativa democraticamente eletta da loro. Senza di essa, distruggere Berlino e Dresda non sarebbe comunque servito. Che alternativa avranno i Gazawi? “Noi vogliamo vivere in pace con loro, e dare loro lavoro e prosperità, in una situazione simile a quella di Giudea e Samaria”, i nomi biblici della Cisgiordania, quelli con i quali chiamaono il west-bank i coloni nazionalreligiosi che ispirano il loro diritto a stare là su base puramente biblica. La terra oggi occupata da Israele e sotto il flebile controllo dell’autorità palestinese di Abu Mazen. Non proprio un esempio di autonomia né di pace stabile. “Niente è semplice, nessuna soluzione è facile, ma nessuna soluzione può esistere con Hamas”.
Tornando verso i Kibbutz, ci fermiamo al “parcheggio” dei due carrarmati da guerra a disposizione della brigata. Un gruppo di soldatesse mangiano, sono giovanissime. Una di loro sta seduta in disparte, lo sguardo serio, quasi triste, mentre chatta sul proprio smartphone. Mi viene in mente di quando una volta, mille anni fa, assistetti a un comizio in occasione di un anniversario bellico al museo del Carrarmato, proprio nel centro d’Israele. C’era l’allora primo ministro, e pluridecorato generale d’Israele Ariel Sharon, che celebrava il suo amore per il carrarmato. Proprio lui, l’uomo processato per aver permesso l’eccidio di Sabra e Shatila, avrebbe di lì a poco deciso la fine dell’occupazione di Gaza, lo smantellamento delle colonie, all’inizio di un processo che sembrava destinato a far rinascere qualche barlume di speranza e di pace. Altri tempi, altre occasioni perdute.
Le illusioni che furono si vedono bene guardando alla Gaza di oggi, nuovamente assediata dopo aver liberato una violenza inaccettabile, e insieme evidentemente prevedibile, inevitabile. La vedo altrettanto bene quando torno nel bel kibbutz chiamato Revivim, che dopo la distruzione del vicino villaggio di Reim – uno di quelli attaccati e distrutti il 7 ottobre – è diventato il luogo in cui si sono celebrati tutti i funerali. Nelle prime settimane, si sono celebrati anche 6 o 7 riti funebri ogni giorno. Oggi, 40 giorni dopo, si celebra uno degli ultimi. Sono l’esequie di una ragazzina di 12 anni e di sua zia, che sono state arse dai terroristi. Di loro sono rimasti brandelli, che hanno portato al riconoscimento grazie all’esame del DNA. Quel che è stato sepolto è quel che resta di due vite e di due corpi, che finiranno in una nuova ala del cimitero, tutta dedicata alle vittime della strage che non erano nemmeno residenti lì. Un nuovo campo del sangue che irrorerà una memoria già piena di dolori e lutti. A pochi chilometri da qui, la campagna contro Hamas farà altrettanto. Mentre torno a Gerusalemme, a sera, continuo a ripensare alla battuta con cui mi ha salutato il colonnello Shemer. Quando gli ho chiesto quanto durerà l’assedio di Gaza, ha sorriso. “Ai miei soldati dico: “Ce ne andremo prima di Hannukah”, l’importante è non specificare di quale anno…”. La prossima festa di Hannukah, la Festa delle Luci, cade attorno a Natale, come del resto ogni anno. L’importante, appunto, è non specificare di quale anno.
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