Geopolitica
Che fare della Via della Seta? Qualche idea per non farci troppo male
Con il ripristino del volo diretto Milano-Shanghai, dopo quello su Pechino, si chiude il cerchio e la Cina ridiventa connessa in modo diretto con la capitale finanziaria e industriale d’Italia dopo tre anni di hiatus. L’ufficio visti del Consolato cinese a Milano è in sovraccarico di lavoro e così anche gli uffici della nostra ambasciata e consolati in Cina. Tempi di attesa di un mese per un appuntamento sono la norma.
Sembra quindi che entro pochi mesi si tornerà ad una parvenza di normalità sia per i flussi di affari che per quelli turistici. Il che lascia l’Italia con un dilemma: cosa fare del famoso (o famigerato a seconda di come la si guarda) Memorandum sulle Vie della Seta firmato nel 2019 dal governo Conte I e che entro breve dovrà essere rinnovato.
Le prime avvisaglie da una recente intervista del Ministro degli Esteri al Sole 24 Ore non offrono chiarezza: si dice che “si sta valutando” e che “abbiamo relazioni buone e tante forme di collaborazione anche commerciali” e che “comunque in quell’area (sic) il nostro partner strategico sta diventando l’India”.
Cominciamo dall’ultima affermazione: dire che in quell’area il partner strategico è l’India – una novità per l’Italia visto che non è mai stato uno dei nostri maggiori partner commerciali – sarebbe come dire che ignoro il Giappone perché il mio partner “in quell’area” è l’Australia. Forse sfugge la geografia, tra Pechino e Delhi ci sono 3500 km, e sfuggono le dimensioni caratteristiche e potenzialità dei due mercati. Mentre l’India è probabilmente un mercato importante per la nostra meccanica strumentale (almeno finché gli indiani non si faranno le macchine da soli) la Cina resta un mercato molto più ampio per i beni di consumo, che noi pure esportiamo. Ed ha una presenza capillare anche nell’altra area a forte crescita che invece ignoriamo abbastanza: l’Asean.
Passiamo poi alla seconda affermazione: “abbiamo altre forme di collaborazione anche commerciali con la Cina”. Vero, ma in base alle competenze del Trattato di Lisbona, la UE è responsabile per negoziare e concludere accordi commerciali e di investimenti con la Cina. L’accordo sulla protezione delle indicazioni geografiche che beneficia anche i prodotti italiani l’ha concluso la UE. E l’accordo sugli investimenti del 2020, poi bloccato dal Parlamento Europeo, che mirava a quella “reciprocità” nel trattamento delle aziende europee (e anche italiane) in Cina l’ha concluso di nuovo la Commissione. Per il resto, è vero che ci sono piccoli accordi bilaterali su questioni specifiche per esempio le misure fitosanitarie per l’importazione di alcuni prodotti agricoli italiani (le famose arance siciliane) ma incidono poco sul volume degli scambi e soprattutto sugli investimenti italiani in Cina.
E veniamo alla fine al punto “stiamo valutando, abbiamo rapporti buoni”. È sempre bene riflettere sulle questioni importanti che non si possono riassumere in uno slogan, ma esattamente su cosa si dovrebbe riflettere? Lo scopo del Memorandum era diverso a seconda di chi ne parlava. Per i 5 Stelle era un modo di spingere l’export verso il paese (niente di più fuorviante visto che Germania e Francia senza memorandum ci doppiano se non triplicano). Per altri era un modo per agevolare la partecipazione di aziende italiane come fornitori ai progetti infrastrutturali cinesi della Via della Seta in Africa (questo già aveva più senso). Per i cinesi era invece un segnale politico importante; memorandum del genere li avevano firmati con un centinaio di paesi inclusi 12 in Europa, ma mai con un paese fondatore della UE e membro del G7. Quindi era un segnale politico di apertura su molti fronti alla Cina. Non sono certo che il governo Conte I avesse percepito il valore politico del documento, è probabile che sia stato sottovalutato o che sia prevalso il desiderio di far vedere alla vituperata Brussels che facevamo da soli. Resta il fatto che, complice anche l’arrivo del Covid 8 mesi dopo con il blocco di fatto dei viaggi d’affari nelle due direzioni, il Memorandum non ha dato i frutti sperati qualsiasi essi fossero. La tentazione di abbandonarlo quindi è comprensibile, se non per il fatto che farlo darebbe un segnale politico molto negativo al nostro interlocutore. Il simbolismo di un mancato rinnovo inoltre peserebbe non tanto in termini di vantaggi già acquisiti che vengono persi, ma in termini di posizionamento sfavorevole nei rapporti commerciali e d’investimenti con quella che resta (che lo vogliamo o no) la seconda economia al mondo nei confronti proprio di Germania Francia e anche Spagna. I quali, non avendo firmato alcun Memorandum, non hanno nulla da rinnegare.
Forse gestirlo in maniera “cinese” – cioè salvando le apparenze – sarebbe la soluzione giusta.
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