Geopolitica
Vent’anni di Cina nel WTO. Un lavoro incompiuto
L’11 dicembre di 20 anni fa, al termine di negoziati durati più di 10 anni e conclusisi con la firma di un protocollo d’accesso lunghissimo, la Cina faceva il suo ingresso ufficiale nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
Fare un bilancio di questi vent’anni in poche righe è complesso perché specie in questa fase di “colpevolizzazione” del paese sotto qualsiasi aspetto, ragioni di schieramento politico finiscono per prevalere su analisi economiche. E’ utile quindi guardare qualche dato: dal 2001 l’export cinese è aumentato 8 volte e mezzo, ma anche l’import non è stato da poco con un aumento di 7 volte e mezzo. I dazi all’import cinese sono scesi dalla media del 15,3% nel 2001 al 7.4% nel 2020 e come sa chiunque frequenta il paese prodotti stranieri introvabili prima del 2001 si trovano da tempo in Cina. La Cina è diventata allo stesso tempo il primo mercato al mondo per una serie lunghissima di prodotti, il primo partner commerciale di più di 120 paesi, superando gli USA in questa categoria. L’adesione al WTO per il paese ha prodotto unatrasformazione epocale: la Cina ha dovuto adottare centinaia di leggi e decreti a riforma del suo sistema legale, in settori come ildiritto commerciale, la tutela della proprietà intellettuale, la concorrenza e la disciplina sul lavoro. Paese ancora molto poveroall’inizio degli anni 90, l’economia cinese oggi è undici volte piùgrande di quanto non fosse nel 2001 ed il PIL procapite – sebbene ancora indietro a quello dei paesi dell’Europa dell’Est per esempio – è stato in costante crescita. Oggi la Cina è responsabile per il30% della crescita globale annua.
Dal lato delle potenze commerciali del 2001, USA e UE soprattutto che avevano guidato i negoziati per l’accesso, l’ingresso della Cina ha avuto impatto diverso a seconda dei paesie dei settori industriali. Le stime dei posti di lavoro “persi” fluttuano e non tengono conto a volte dei lavori invece “creati” dall’export verso il paese. E’ un dato di fatto però che la deindustrializzazione degli USA e di alcune aree in Europaoccidentale (fenomeno che, bada bene, avveniva già dall’inizio degli anni 90) sia stata anche facilitata dall’accesso più facile al mercato per le merci cinesi e anche alla maggior convenienza, post WTO, di posizionare pezzi importanti della catena del valorein Cina. Allo stesso tempo, la tumultuosa crescita economica ha portato ad un aumento dei salari cinesi che negli ultimi anni ha finito per rendere meno conveniente produrre in Cina beni a basso costo per l’export, mentre resta e anzi aumenta la capacità produttiva chi punta al mercato locale. Germania e Giappone, ma anche Francia e gli stessi USA hanno presidiato a lungo settori importanti dell’ economia locale come quello dell’automobile. Impensabile che ciò avvenisse prima del 2001.
L’export cinese anche si è diversificato molto: da una prevalenza di prodotti a basso costo o molto labor-intensive, che hanno reso difficile la vita a non poche PMI italiane, la Cina ormai esporta prodotti anche molto avanzati ed è all’avanguardia in alcuni settori tecnologici. La Cina ha anche concluso numerosi accordi preferenziali bilaterali o a livello regionale come da ultimo l’importante RCEP con l’ASEAN, Giappone, Corea, Australia e Nuova Zelanda.
La questione del rispetto delle regole del WTO è più complessa: basandosi solo sul numero di azioni intentate da altri paesi contro la Cina in sede di WTO, il paese è stato sul banco degli imputati 47 volte fino al 2020, mentre ha avviato azioni contro altri per 22 volte, soprattutto contro gli USA. Detto questo, la Cina ha perso una buona parte dei casi che gli erano stati mossi contro. Tra le sue vittorie recenti più degne di nota, quella del settembre 2020 contro una parte dei dazi di Trump sulle merci cinesi, dichiarati illegali dal Panel deputato del WTO.
Il numero relativamente modesto di controversie secondo alcuni significa che le regole esistenti del WTO sono inadeguate a disciplinare comportamenti che non erano previsti o prevedibili al momento della stesura delle stesse e che nemmeno il protocollo d’accesso firmato dalla Cina riesce ad inquadrare bene.
In verità ci sono questioni, soprattutto quella spinosa dei sussidi statali all’industria, dove è ormai inevitabile rimettere le mani ai trattati per tenere conto di una situazione in cui uno dei principali attori mondiali ha un settore statale ancora molto presente nell’economia e nel commercio. Anche se non è l’unico ad averlo: la questione dei sussidi infatti ha investito anche due economie di mercato come gli USA e la UE che si sono sfidate sul terreno di quelli all’industria dell’aviazione, per non parlare poi di paesi come quelli del Golfo che hanno un settore statale molto forte.
Il WTO inoltre non regolamenta tutto il settore degli investimenti diretti e su questo tema ci sono state prassi adottate spesso da controparti cinesi che limitavano l’accesso al mercato cinese o imponevano condizioni (come la licenza di tecnologia) inique. Il famoso trattato sugli investimenti tra UE e Cina concluso nel dicembre scorso e ora bloccato dal Parlamento Europeo serviva a risolvere una parte di questi problemi. La Cina poi – come però anche altri paesi membri – continua a restare fuori dal GovernmentProcurement Agreement che regola l’accesso agli appalti pubblici.
E’ inevitabile quindi che il futuro dei rapporti commerciali con la Cina passi anche per una riforma del WTO, di cui tutti parlano, ma che fa fatica a spiccare il volo. Attenzione però: non possiamo presumere che questa volta le regole, a suo tempo scritte di fatto da USA e Europa, potranno essere scritte di nuovo da “noi”, ignorando i desiderata di paesi come Cina, India, Russia e Brasile. Conviene quindi lasciare tutto com’è?
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