Geopolitica
Ucraina: meglio un negoziato… sull’Africa
L’obiettivo del presente lavoro è quello di fare il punto della situazione a poco più di un anno dall’inizio delle ostilità tra la Federazione Russa e l’Ucraina: un punto della situazione quanto più possibilmente oggettivo che consenta al lettore di farsi un’idea dei possibili sviluppi di una situazione potenzialmente alquanto rischiosa per quello che riguarda le conseguenze di un eventuale allargamento del conflitto, una eventualità a mio avviso tutt’altro che remota.
La consapevolezza dei rischi connessi a tale eventualità ha determinato tutta una serie di iniziative a vario titolo rigettate in quanto ritenute premature se non proprio inopportune, come quella dell’ex Premier Israeliano, ovvero determinate da esigenze difficilmente conciliabili con gli obiettivi dichiarati e non delle parti a vario titolo coinvolte nel conflitto. Tra tutti i sedicenti tentativi l’ultimo in ordine di tempo è stato quello posto in essere a sorpresa dal Governo Cinese.
Pechino, dopo mesi di tentennamenti, ha infatti recentemente presentato un sedicente piano di pace rivelatosi, nella sostanza, a dir poco ridicolo per forma e contenuti che hanno fatto poco onore alla plaudente e speranzosa attesa franco-tedesca, ma restituito serenità ad una Casa Bianca per certi versi sicuramente infastidita non poco –fino all’ultimo minuto– presumibilmente a causa non tanto del timore che una tregua tra Mosca e Kiev le imponesse di smetterla di soffiare sul fuoco, quanto piuttosto a causa della paura della perdita del proprio ruolo centrale in una vicenda che sino a quel momento l’ha vista arbitro indiscusso dell’intera situazione.
Questa per molti versi è una guerra strana iniziata, a detta di diversi analisti, molto tempo fa e che in Febbraio dello scorso anno ha visto andare in scena l’ultimo, per ora, atto: un atto preparato con cura da Putin, un Putin che è impensabile non abbia tenuto in debito conto che il suo attacco, ancorché risolutivo in tempi brevi, non avrebbe mutato la condizione di accerchiamento da parte della NATO. Occupare l’intera Ucraina ed insediarvi un proprio Governo ‘amico’ non avrebbe mutato i rapporti di forza, non avrebbe indebolito la NATO, non avrebbe sortito il benché minimo risultato se i suoi obiettivi ed il suo bersaglio fossero stati quelli dichiarati, a maggior ragione se tutto fosse avvenuto in tempi rapidi in quanto questo non avrebbe certamente determinato quella situazione di costante instabilità da cui sono progressivamente discesi quei danni economici sul cui effetto nel tempo ha puntato non poco tutta la strategia moscovita.
A mio avviso, infatti, l’ho affermato e scritto pressoché dall’inizio, Putin ha puntato alla NATO, il suo obiettivo è stato da subito la NATO sicché nella trappola non è caduto lui, ma Biden con l’intero Occidente. L’attacco, ne era perfettamente consapevole, avrebbe scatenato delle sanzioni pesanti verso il suo Paese, e credo che proprio a queste puntasse in quanto proprio queste sanzioni gli avrebbero permesso di assumere il controllo interno e di tacitare la lobby oligarchica a lui non favorevole, quella, tanto per intenderci, nata dal riciclaggio della vecchia intellighenzia all’indomani dell’implosione dell’URSS, quella che già Eltsin aveva cercato di togliere di mezzo allorché provò a candidarsi come partner NATO per evitare che tutto ritornasse come prima.
Purtroppo l’Occidente, Stati Uniti in testa, non capirono l’importanza della cosa sicché la Russia progressivamente prese ad arretrare cedendo progressivamente il passo non solo di fronte agli Stati Uniti ma, ora, pure dinanzi alla Cina ed all’India: ridursi ed essere una Potenza regionale non era ciò che Eltsin e Putin potevano volere ed accettare senza colpo ferire.
Le sanzioni, come previsto, non si sono fatte attendere e con esse le contromosse del Cremlino che ha prontamente ribattuto colpo su colpo in modo a tal segno rapido ed efficace da mettere ben presto in crisi l’intera coalizione nella speranza che quanto prima si innescasse un effetto domino a partire dal cedimento di uno degli alleati: il primo papabile dei quali sarebbe potuta essere proprio la Germania, tanto papabile da rendere necessario eliminare la ‘tentazione’ rappresentata dal Nord Stream.
Lo scontro con l’Ucraina è stato di fatto pretestuoso: ché è ben poco credibile una azione tanto sconsiderata al solo scopo di proteggere i russofoni del Donbass, come pure per il mancato accoglimento da parte della NATO della neutralità dell’Ucraina stessa.
Alla fine il migliore alleato di Biden sì è rivelato essere proprio Putin che ha permesso agli Stati Uniti di riaffermare la leadership in Europa, il ruolo della NATO, l’azzeramento di qualsivoglia progetto autonomista della UE e l’esteromissione della Cina dal continente Europeo ed in particolare da quel ganglio vitale lungo la Nuova via della Seta rappresentato proprio dall’Ucraina. Analogo discorso dicasi per l’Africa che ha visto la Russia giocare un ruolo di apparente mediazione a totale discapito della Cina, di una Cina che allo stato attuale per poter giocare un ruolo di primaria importanza da vera Grande Potenza deve trovare una alternativa mercantile all’Occidente in grado di fare da volano alla propria crescita economica.
La ghiotta occasione per riproporre il duopolio russo-statunitense passa purtroppo per le sofferenze di una Ucraina la cui leadership non è stata in grado, come del resto ancora non è, di capire fino in fondo la triste realtà di una partita a scacchi in cui lei gioca solo il ben triste ruolo di pedina sacrificabile.
In questo strano contesto le interviste a Zelensky -uomo di spettacolo per condizione, vocazione e scelta di vita- si sprecano, ma sono interviste che a ben guardare sono più che altro monologhi, monologhi comprensibilissimi, intendiamoci, monologhi efficaci e mediaticamente funzionali a mantenere alta l’attenzione del mondo su… altro, monologhi che fanno parte di una ben precisa strategia della tensione ma pur sempre monologhi che non hanno in sé alcuna chiave che possa condurre, a tempo debito, ad una soluzione diversa da una fase di stallo, ad un congelamento della situazione potenzialmente a rischio, da un momento all’altro, di mutarsi in un conflitto allargato a causa dell’entrata in gioco del perverso meccanismo legato alle alleanze militari in essere: un qualcosa di analogo a quanto accadde nel 1914 allorché là Grande Guerra scoppiò senza che di fatto qualcuno la volesse veramente: una guerra che tutti pensarono sarebbe stata di breve durata, ma che chiunque di lì poco dovette prendere atto sarebbe stata un mattatoio foriero solo della sconfitta di tutti i belligeranti, eccezion fatta per gli Stati Uniti d’America che con i punti di Wilson decretarono l’inizio di quel Nuovo Ordine Mondiale che si consolidò –a totale danno dei Paesi europei tutti– dopo quella drammatica ‘Guerra di aggiustamento’ che fu il Secondo Conflitto Mondiale.
Come sottolineato da più di qualcuno, in questo senso tutti noi di cose da chiedere al Presidente Zelensky, sia come ‘amici’ che come fornitori d’armi, dovremmo averne parecchie, anche alla luce della tornata attualità della posizione espressa dall’Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, il Capo di Stato Meggiore della Difesa, che di recente ha ribadito quanto affermato oltre un anno fa:
“Sono sempre dell’idea che una soluzione militare non si possa trovare. Né gli uni, i russi, riusciranno mai a disarcionare la leadership ucraina, né gli ucraini potranno riuscire a riconquistare tutti i territori che sono stati invasi dalla Russia. Questo è un dato che rimane costante nel tempo. Sicuramente non possiamo permetterci un altro conflitto “congelato” nel cuore dell’Europa. Lo avevo detto al Copasir: è necessario fare una riflessione anche sul dopo, sul mondo che verrà, diverso da quello che era prima dell’invasione dell’Ucraina. Non ci sono alternative a superare le macerie e il dolore”[1]: un’opinione ora ribadita dal Capo di Stato Maggiore USA, il Generale Mark Miley[2].
Domande legittime per poter comprendere le ragioni di certe contraddizioni, il reale grado di consapevolezza del Presidente Zelensky, le ragioni che stanno alla base della rinuncia dell’Ucraina a poter contare su un supporto tanto incondizionato quanto di fatto inibente la propria volontà di colpire le linee di approvvigionamento delle truppe Russe in Russia, tanto incondizionato quanto viziato da forniture di armamenti e mezzi di ridotta capacità offensiva, tanto incondizionato quanto concretamente non finalizzato a favorire un cedimento totale della Russia e a decretare la caduta di Putin: tutte cose che poco o nulla si sposano con il legittimo desiderio di giungere al totale respingimento delle truppe di Putin, ma che rispondono a ben altre e meno evidenti ragioni di cui nulla viene qui detto.
Tornando, quindi, alle domande cui ho accennato in precedenza vediamo di scorrerle insieme:
1) Come può pensare Zelensky di entrare nell’Ue tenendo fuorilegge gli 11 partiti di opposizione?
2) Nei giorni pari ci comunica che la Russia ha perso la guerra, ha finito missili e munizioni, le sue truppe sono in ritirata, Putin forse è già morto; e in quelli dispari annuncia che i russi sono pronti a sferrare una devastante offensiva con 3-500 mila nuovi soldati e un massiccio impiego di aviazione, ragion per cui Kiev necessita subito di tank, jet, sommergibili e no fly zone, altrimenti Putin stravince. Come stanno effettivamente le cose, anche alla luce delle stime del generale Usa Mark Milley, secondo cui l’Ucraina non può riconquistare le regioni occupate?
3) Perché Kiev vieta a 8 reporter italiani di fare il loro lavoro in Donbass?
4) Il Pentagono accusa il suo governo di aver ucciso a Mosca con un’autobomba Darya Dugina, figlia 29enne del filosofo putiniano: che c’entra quell’atto terroristico col diritto all’autodifesa?
5) Perché, pur sapendo per primo che il missile caduto in Polonia il 15 novembre era ucraino, ripeté per tre giorni che era russo anche dopo le smentite di Duda e Biden, incitando la Nato a scatenare la terza guerra mondiale?
6) In questi 12 mesi si è detto più volte pronto a negoziare con Putin un compromesso che escludesse la Crimea e includesse la neutralità dell’Ucraina e l’autonomia del Donbass; poi il 4 ottobre ha vietato per decreto ogni negoziato con Putin: chi o cosa gli ha fatto cambiare idea? E dopo quanti morti (siamo a 300 mila) deciderà di riparlarne?
A fronte di queste domande leggeremmo volentieri almeno qualche risposta anche se il sospetto -che ogni giorno che passa muta in inscalfibile certezza- che nel caso di Zelensky il copione da mandare in scena sia stato blindato dagli autori, si sta facendo strada ad ampie falcate.
Ora come ora a diversi Generali statunitensi nonostante la presa di posizione del Capo di Stato Maggiore degli Stati Uniti d’America (ma non solo a loro, visto che pure parecchi politici forniti di minore logica e lungimiranza, tanto al di qua quanto al di là dell’Atlantico, si fanno retoricamente interpreti e testimonials dei medesimi sentimenti bellicosi che certamente trovano posto tra gli omologhi della Federazione Russa) non è molto chiaro che questo è un conflitto che, per come sono state gestite le cose, di fatto si è tradotto per entrambi gli schieramenti in una sorta di cul de sac sia dal punto di vista economico-finanziario che strategico.
Una guerra di cui non si intravede la fine, che tutti (o quasi) gli atlantisti in Occidente dichiarano sarà vinta in qualche modo da Zelensky anche se per il suo prosieguo si cominciano ad evidenziare problemi di tenuta, nonché logistici, dai risvolti finanziari non indifferenti per tutto quanto concerne gli approvvigionamenti di munizioni, munizioni che gli Ucraini stanno attualmente consumando quotidianamente in misura tale da aver fatto recentemente dire al Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, che gli alleati tutti, poiché l’attuale ritmo di utilizzo sta esaurendo le scorte dei membri della Nato, dovranno impegnarsi a produrne –e quindi ad investire proporzionalmente, incrementando con ciò significativamente la relativa quota percentuale del PIL – quantità decisamente superiori.
Ai ritmi attuali, infatti, “il tempo di attesa per le munizioni di grosso calibro è passato da 12 a 28 mesi” cosicché gli “ordini effettuati oggi verranno inutilmente evasi solo tra 2 anni e mezzo”: una tempistica strategicamente sicuramente inaccettabile per chi combatte e la cui ottimizzazione –poiché finanziariamente oltremodo onerosa– impone una valutazione oggettiva del rapporto profitti e perdite dei singoli Stati visto che una guerra è solitamente un un grosso affare economico[4].
Cinismo? Niente affatto: solo senso pratico, lo stesso senso pratico che ha mosso gli Stati Uniti del ‘Cavaliere Senza Infamia e Senza Paura’ Joe Biden a cautelarsi, o almeno a provarci a farlo, inquadrando il proprio supporto incondizionato a Kiev nel quadro della propria normativa che di per sé prevede il pagamento delle forniture: pagamento che sinceramente non so come potrà essere effettuato da Kiev che nel primo anno di guerra ha visto crollare il proprio PIL di circa il 35%.
Più oltre vedremo insieme per quali motivi, con buona pace di un poco lungimirante Zelensky (sempre che, ripeto, a parlare sia realmente lui), alla fine la sola soluzione possibile emergerà da un negoziato dall’esito palesemente scontato che porrà termine ad un conflitto che nessuno può permettersi il dubbio lusso di perdere, ma che nel contempo nessuno può vincere, men che mai gli Ucraini che in questo contesto si sono venuti a trovare non solo presi in mezzo a giochi geopolitici e strategici più grandi di loro, gravati da una massa di debiti che verosimilmente non saranno mai in grado di onorare (che gli illusi europei sperano di accollare –suppongo a vittoria(?) ottenuta– alla Russia sulla base dell’ennesimo pezzo di carta votato e sottoscritto in proprio) per giunta con un cumulo di morti e di distruzioni inenarrabili disseminati per tutto il Paese, con una comunità nazionale che il becero nazionalismo separativo ha spaccato letteralmente in due in modo a dir poco insanabile per almeno i prossimi 200 anni: una cesura che si tradurrà, visto che nessun Europeo e nessun Americano andrà mai a combattere per loro (ammesso e non concesso che che la cosa potesse essere foriera di una diversa soluzione), nella costituzione di due Ucraine così come a suo tempo accade alla Corea: piaccia o non piaccia a Zelensky.
Nell’attesa che ciò che è evidente a pochi diventi per stanchezza un dato di fatto inoppugnabile per i più, quello della logistica degli approvvigionamenti di armi e munizioni per l’esercito di Kiev è stato uno dei temi discussi durante la recente riunione della Nato sulla difesa che si è svolto nelle giornate del 14 e 15 Febbraio 2023 a Bruxelles: un qualcosa che ci impone giocoforza di domandarci a che pro fare tutto questo, per conseguire quale o quali vantaggi, possibilmente evitando di buttarla in vuota retorica –e/o tifo da stadio– ben consapevoli come siamo, o almeno dovremmo essere, che le guerre hanno tutte una genetica economico-finanziaria e strategica di cui solitamente non si parla e che nulla ha a che vedere, è il caso di dirlo ad alta voce, con le romanticherie patriottiche buone solo per motivare i giovani ad immolarsi sui campi di battaglia da che mondo è mondo.
Discorsi come quello di Soltenberg allorché ha detto “La realtà è che abbiamo già visto l’inizio di tutto questo, è quello che la Russia sta facendo ora, il presidente Putin non sta cercando la pace. Anzi sta inviando migliaia di migliaia di truppe in più, accettando un numero di vittime molto alto, grandi perdite, ma facendo pressione sugli ucraini” sottolineando che “Quello che manca alla Russia in qualità, lo compensa in quantità, nel senso che la leadership, la logistica, l’equipaggiamento, l’addestramento non sono allo stesso livello delle forze ucraine, ma hanno più forze”, di fatto parrebbe anche un modo per richiamare surrettiziamente l’attenzione della dirigenza ucraina sul fatto che a breve scarseggeranno, anche qualora le munizioni ci fossero, le truppe per utilizzarle, truppe che da un certo punto in poi di questa vera e propria guerra di logoramento saranno gravate dalla impossibilità di rimpiazzare le perdite[5].
Un punto di sicuro interesse che pare non interessare alcuno, ma palesemente esercita la sua influenza ogni volta che deve essere presa una decisione (siano i carri armati pesanti, ieri, ovvero gli aerei, oggi) riguarda il cosa intendano i diversi partner NATO e gli Stati Uniti allorché parlano della fine della guerra e, soprattutto, di vittoria.
In linea di massima sono tre le diverse possibili formulazioni relative al cosa si intende per supporto e vittoria dell’Ucraina ed altrettante le tesi sul futuro della UE, tre in attesa della proposta cinese e tre pure dopo la ‘proposta’ di Pechino:
1) La Polonia e i Paesi baltici condividono con l’Ucraina la stessa teoria massimalista della vittoria. Per loro la vittoria auspicata consiste della completa liberazione del territorio ucraino compresa la penisola di Crimea. La visione massimalista da loro abbracciata include anche il crollo del regime guidato dal presidente Vladimir Putin – e idealmente, anche il crollo dello Stato russo per il cui raggiungimento i Paesi aderenti a questa visione premono per aumentare il sostegno materiale all’Ucraina con armi sempre più sofisticate, nonché il rifiuto di qualsiasi compromesso o negoziato e l’intensificazione della pressione internazionale sul regime moscovita;
2) la seconda opzione punta ad esercitare una adeguata pressione sulla Russia tale da indurla a sedersi ad un tavolo delle trattative per i colloqui di pace. Tra i fautori di questa linea figurano la Germania e la Francia che avanzano una diversa teoria della vittoria intesa come soluzione negoziata a seguito di colloqui su un piano di parità tra Kiev e Mosca ritenendo, a mio avviso a ragione, che la Russia non possa essere completamente annientata senza correre il rischio di una pericolosa escalation potenzialmente foriera di uno sconfinamento nel nucleare che comporterebbe come strascico il rischio di farci trovare in presenza di una potenza nucleare (la Russia) nel caos, con ricadute negative imprevedibili sulla stabilità globale. Per questo motivo coloro che perseguono questa soluzione ritengono di poter armare l’Ucraina con armi sufficienti a vanificare qualsiasi iniziativa militare russa, ma non a eliminare i potenziali incentivi a negoziare. L’obiettivo, quindi, sarebbe quello di mettere l’Ucraina e la Russia in una situazione di stallo militare tale da indurre le due parti a passare la parola alla diplomazia. Da questo punto di vista risulta decisamente più comprensibile la posizione di Berlino caratterizzata dalle reticenze di Scholz a fornire i carri armati Leopard. Si noti che questa soluzione non prevede alcuna messa in discussione della sovranità russa sulla Crimea;
3) e siamo giunti alla terza opzione, quella che vede fare fronte comune il Regno Unito e gli USA. Anche in questo caso il sostegno fornito all’Ucraina non si spinge fino a sposare in toto le desiderata di Kiev in quanto il sostegno fornito non si spinge oltre il consentire all’Ucraina di recuperare i territori occupati illegalmente dall’inizio del 2022, Stati separatisti autoproclamati nel Donbas compresi, ma non la Crimea. L’erosione delle capacità convenzionali della Russia, senza incentivare Putin a un’escalation militare con l’uso di armi nucleari, rientra perfettamente nel quadro della “competizione strategica” di Washington. Per questo motivo, gli Stati Uniti stanno fornendo una sostanziale assistenza militare all’Ucraina in modo graduale, pianificato e ben mirato, cercando di intaccare lentamente le capacità convenzionali della Russia senza provocare una reazione di escalation. A tal fine, la Casa Bianca ha dichiarato pubblicamente che sosterrà l’Ucraina per recuperare solo il territorio perso nel 2022, eludendo le domande sulla Crimea. Detto per inciso, ogni volta che ascolto le dichiarazioni del Presidente Zelensky ho come l’impressione che questo concetto non gli sia stato spiegato chiaramente, ovvero che finga bellamente di non averlo recepito.
Alla fine a pagare il prezzo di ogni disaccordo tra gli alleati saranno ancora una volta, come sempre in questi casi, solo gli Ucraini che si sono venuti a trovare invischiati in un gioco molto più grande di loro e di quanto anche solo lontanamente potessero immaginare, un gioco in cui i differenziali di potere tra Stati Uniti e Regno Unito, gli europei occidentali e gli europei del nord e dell’est giocano un ruolo critico proprio nei momenti più difficili dello sforzo bellico ucraino, quelli in cui le tempistiche decisionali dovrebbero essere le più tempestive possibili ed ogni ritardo sì traduce in un incremento del numero dei morti civili e militari.
“Con l’evolversi della guerra, le contrastanti teorie di vittoria dei diversi membri della NATO porteranno a conflitti ricorrenti che non contribuiranno a migliorare la sicurezza dell’Europa. Un accordo unificato su ciò che comporta la vittoria significa una solida determinazione a sconfiggere la Russia. È invece necessario un compromesso transatlantico sui risultati da raggiungere in Ucraina, con la leadership di Kiev al tavolo” ed indipendentemente dalla legittimità o meno degli obiettivi di Kiev “sarebbe più onesto che gli alleati mettessero da parte le loro chiacchiere e concordassero una visione diretta di ciò che comprende la vittoria, che possa essere condivisa da tutti”[6]
Alla fine occorre prendere atto che questo scontro, questo conflitto russo-ucraino in atto da oramai più di un anno è:
1) una guerra che noi Europei, alla luce di quanto testé esposto e quindi prescindendo da qualsiasi ulteriore considerazione, abbiamo già perso come polo impegnato a contrastare, in un tempo che i recenti eventi ci fanno apparire assai lontano, tanto il perpetuarsi della leadership americana in Europa quanto la penetrazione Cinese e Russa in Africa, nonché la pole position statunitense nel continente africano (una cosa di cui nessuno parla ma che in qualche modo è anche alla base del contrasto tra Europa e Stati Uniti con riferimento al conflitto che si sta consumando in Ucraina): ed infatti mai come ora le immense risorse dell’Africa sono state così contese per la loro fondamentale importanza.
Per certi versi i problemi migratori affrontati in questi anni nel bacino del Mediterraneo sono anche una conseguenza degli scontri che a livello locale stanno infiammando il continente nero e che sono funzionali alla lottizzazione neocolonialista di quel territorio conteso tanto dall’Occidente quanto dalla Cina, dalla Russia e per certi versi pure dall’India e dalla Turchia, quest’ultima per la regione coincidente con la sponda meridionale del Mediterraneo. Questa situazione, inoltre, consegue anche dalla politica russa che a quanto pare sembra essersi conferita autonomamente il compito di diventare la suprema forza di “bilanciamento” geopolitico in Afro-Eurasia attraverso l’abile gestione diplomatica dei molteplici conflitti dell’emisfero, anche se il pericolo maggiore per questa visione non viene dalle guerre ibride degli Stati Uniti, ma dalla Russia stessa se i suoi rappresentanti diplomatici ed esperti della comunità non saranno, come pare non siano stati, all’altezza dell’occasione per spiegare adeguatamente questa strategia, o per meglio dire questa ipotesi strategica alle masse[7].
Questa è almeno l’originalissima idea formulata nel 2018 dall’analista politico americano Andrew Korybko, con sede a Mosca, specializzato nella relazione tra la strategia statunitense in Afro-Eurasia, la visione globale della China One Belt One Road della connettività della Nuova Via della Seta e Hybrid Warfare.
Ed infatti Andrew Korybko nel lontano 2018, purtroppo inascoltato, ha scritto: “La Russia sembra essere diventata uno degli argomenti preferiti da chiunque sia anche solo lontanamente interessato alla politica internazionale, e a quanto pare tutti hanno un’opinione sulla grande strategia del Paese. Coloro che sono inclini a credere ai media mainstream occidentali di solito mantengono una delle due posizioni contraddittorie, ritenendo erroneamente che la Russia sia decisa a conquistare militarmente il mondo o che sia a pochi anni da un collasso totale come risultato di una cattiva gestione sistemica al suo interno. D’altro canto, molti seguaci degli Alt-Media pensano erroneamente che la Russia abbia una missione autoproclamata per salvare il mondo dall’unipolarismo a guida americana in tutte le sue manifestazioni e che il presidente Putin, gran maestro di scacchi in 5-D, stia ottenendo una vittoria dopo l’altra. Tutti e tre i filoni di pensiero, purtroppo, non tengono conto della realtà della grande strategia russa, che si può riassumere nel tentativo di diventare la suprema forza “equilibratrice” del XXI secolo in Afro-Eurasia attraverso un’abile gestione diplomatica dei conflitti dell’emisfero: dal “Perno della Ummah” all'”Anello d’oro”.
Questa visione ambiziosa deve le sue origini alla fazione “progressista” dello “Stato profondo” russo (le sue burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche permanenti) che ha deciso coraggiosamente di liberarsi dalle catene sovietiche del passato e di avviare riavvicinamenti rivoluzionari con partner non tradizionali come la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Azerbaigian e il Pakistan, in quello che può essere colloquialmente chiamato “Ummah Pivot”. Questi pionieri della politica estera hanno “riempito il vuoto (geografico)” che i loro predecessori avevano lasciato incustodito dopo aver “chiuso” l’Eurasia con i loro riavvicinamenti post-Guerra Fredda con la Germania a ovest e la Cina a est, per cui è logico che alla fine sia arrivato il momento per la Russia di guardare a sud, verso i Paesi a maggioranza musulmana che si affacciano su quella parte del Rimland eurasiatico.
Mentre tutto questo accadeva, la Cina ha presentato la sua visione globale della Nuova Via della Seta (One Belt One Road), che fornisce la base infrastrutturale per collegare tra loro questi disparati nodi geopolitici e costruire le fondamenta strutturali dell’emergente Ordine Mondiale Multipolare. Dopo essere stata respinta in Eurasia occidentale dalle sanzioni antirusse dell’UE, che Bruxelles è stata costretta ad attuare dagli Stati Uniti, Mosca ha “riequilibrato” la sua attenzione per l’Europa e ha diversificato i suoi sforzi diplomatici attraverso il “Pivot Ummah”, che ha visto la creazione di due nuovi partenariati trilaterali. Il primo è incentrato sulla Siria e riguarda Russia, Turchia e Iran, mentre il secondo riguarda l’Afghanistan e coinvolge Russia, Pakistan e Cina. Il potenziale geostrategico combinato di queste cinque Grandi Potenze multipolari che “girano intorno ai carri” per proteggere il nucleo supercontinentale eurasiatico è l'”Anello d’oro”, che rappresenta l’obiettivo ultimo di integrazione del XXI secolo e simboleggerebbe l’unione istituzionale di molte delle più importanti potenze continentali dell’emisfero orientale. Di altissima importanza strategica, la realizzazione del Cerchio d’Oro consentirebbe ai suoi membri di commerciare tra loro attraverso le imminenti rotte terrestri della Via della Seta, che eviterebbero in modo cruciale il dominio della Marina statunitense lungo il Rimland eurasiatico”[8]
2) una guerra che la Russia non si può permettere, o almeno questo è il punto di vista di Putin, di perdere, pena la sua scomparsa dalla scena geopolitica mondiale ed il dover accettare un -ben poco gradevole per Mosca- rapporto di sudditanza a Washington in un ribadito unipolarismo mondiale anche se, da un certo punto di vista, sarebbe alquanto opportuno che Putin riprendesse in considerazione, con maggiore senso pratico e minore vanagloria –soprattutto in assenza di una comunicazione efficace delle proprie attuali intenzioni–, il punto di vista dell’eminente politico russo, nato ucraino e vissuto sovietico, Evgenij Maksimovič Primakov, la cui omonima dottrina ha ispirato e guidato alcune scelte fondamentali del potere moscovita almeno fino al 24 febbraio 2022 (la fatidica data dell’attacco all’Ucraina dichiaratamente contenitivo dell’avanzata della Nato). Come noto il disegno primakoviano –che oltre alla costruzione del triangolo con Cina e India per contrastare l’egemonia statunitense a fine Guerra Fredda, puntava alla difesa delle zone di influenza e degli interessi nazionali–, poggiava sulla convinzione che la nuova Russia post-sovietica dovesse riacquistare il congenito status di grande potenza e trattare alla pari con gli Stati Uniti: una convinzione tanto legittima quanto ingenua poiché non vagliata avendo chiara la situazione di oggettiva debolezza della Russia di quegli anni.
All’epoca del crollo dell’URSS, Mosca non poteva minimamente pensare di competere con Washington al punto di trattare alla pari con gli USA ed il suo tentativo, poco noto ai più, di entrare a far parte della NATO fu solo dettato da esigenze strumentali contingenti del momento che a Washington non trattarono con la lungimiranza auspicata da tanti che, come Kissinger, temevano un apparentamento di Mosca con Pechino. Analogamente a quanto accadde allora si ha che una situazione analoga a quella testè descritta –il rapporto affatto alla pari con gli USA, ma preteso tale da Mosca– la ritroviamo oggi nelle relazioni di Mosca con Pechino che non sono affatto alla pari: la Russia oggi dipende dalla Cina per la sua tenuta economica più di quanto la Cina dipenda dalla Russia per la propria, una Cina che ha bisogno a sua volta dei mercati dei Paesi occidentali che, a loro volta, più che virando sul Green stanno tagliando i ponti (o almeno ci stanno provando e/o fingono di provarci) con Mosca solo per esigenze USA e dagli USA surrettiziamente qui da noi stimolati cavalcando l’onda lunga dei populismi ecologisti europei che, di fatto, non so quanto consapevolmente stanno dando una mano agli Stati Uniti contro i nostri stessi interessi contingenti.
Alla luce di tutto questo credo che vada doverosamente sottolineato che nonostante la politica espansiva verso Est della NATO e le umiliazioni di proposito provocatoriamente inferte alla Russia, umiliazioni che in Occidente si preferisce omettere di prendere in considerazione derubricandole a meri ‘errori’ protocollari (vale a tale proposito prendere in considerazione, a titolo di esempio, quanto avvenne nel 1999, quando proprio Primakov, al quel tempo Primo Ministro, non venne palesemente di proposito informato dell’avvio dei bombardamenti dell’Alleanza Atlantica su Belgrado nonostante fosse proprio in quel momento in volo alla volta di Washington, volo che prontamente fece interrompere impartendo l’ordine di invertire la rotta; ovvero in tutte quelle altre situazioni descritte ed ampiamente documentate da Noam Chomsky nel suo libro di recente pubblicazione ), quando non si sceglie di proposito la via della negazione, è lecito dubitare fortemente che oggi l’attento e pragmatico Evgenij Primakov, se fosse vivo, sarebbe d’accordo con la soluzione bellica scelta da Putin.
Non lo farebbe in quanto ritengo che —pur rigettando con sdegno la tesi Occidentale per la quale quella dell'”umiliazione” della Russia sarebbe più che una teoria un mero camuffamento, ovvero una narrazione pretestuosamente adottata dal Cremlino per rendere in qualche modo presentabile lo spirito di vera e propria vendetta che avrebbe indotto Putin ad attaccare— l’avveduto Primakov sarebbe stato ben consapevole del fatto che la Russia ha cessato di essere una superpotenza, tranne che sul piano nucleare, dal momento in cui l’Unione Sovietica è crollata –ed a poco sono serviti, per lo meno ad tutt’oggi, i tardivi tentativi di mutare strategia sul piano internazionale cercando di trovare una sponda al di fuori del propri confini che, secondo le desiderata del Cremlino, ne rilanci in qualche modo la visibilità ed il ruolo geopolitico in modo stabile ed incontrovertibile.
Una riprova di tutto ciò ci è fornita da quanto è accaduto a partire dall’invasione russa della Crimea —e poi ancora da quella dell’Ucraina per quanto concerne l’impegno profuso dalla Russia nel mondo: Africa occidentale inclusa. In particolare nel 2022 la Russia ha cercato di incrementare significativamente il proprio coinvolgimento politico in Africa, un coinvolgimento che ha preso le mosse con rinnovato vigore a partire dall’invasione della Crimea del 2014, seppure in modo per certi versi ancora ‘ingenuo’, più per effetto delle limitazioni impostele dalle sanzioni che sulla base di un piano strategico articolato e strutturato come quello cinese.
A quanto si sa Mosca starebbe operando appoggiandosi all’organizzazione mercenaria Wagner Group che a quanto pare ritroviamo spesso ad operare come ‘procuratore’ dello stato russo nel continente nero –circostanza denunciata, nel caso del Sudan, da Stati Uniti, Gran Bretagna e … Norvegia (un caso?), ma sempre negata dalla Russia[9]–, cercando di perseguire gli interessi dello stato russo e interrompere l’influenza occidentale e cinese sul continente[10]. Per meglio comprendere i limiti dell’azione russa si valuti, alla luce di ciò che ci si aspetterebbe da una Grande Potenza, o almeno da una convinta aspirante tale, quanto avvenuto (ma soprattutto il come è avvenuto) allorché ad un certo punto, nel 2020, la Russia ha più o meno ‘acquisito’[11] una base navale in Sudan.
Gli apici sono determinati dal fatto che ad oggi, in realtà, il travagliato negoziato tra Sudan e Russia ha condotto ad un esito che non può essere considerato definitivo, come ha confermato lo stesso Lavrov che questo mese ha parlato di una non meglio definita “revisione” legislativa dell’accordo senza dare tempistiche né certezze sul futuro, revisione che l’esercito sudanese ha confermato essere in corso di definizione in quanto per la ratifica dell’intesa si dovrà attendere la formazione di un governo civile e di un organo legislativo competente[12], sicché nonostante la volontà e i propositi espressi dalle forze armate di Khartoum, l’assenza di una ratifica appare ancora come un punto interrogativo molto importante sulla vicenda al pari dell’assenza di un parlamento.
La domanda a questo punto è: la base in Sudan va considerata come una pietra miliare nella strategia di Mosca per l’Africa in quanto la stessa occupa il punto di congiunzione delle politiche africane e delle politiche navali della Russia, sottolineando la loro interconnessione, ovvero, piuttosto, come una acquisizione fatta ad hoc con l’intento di convincere gli osservatori esterni che Mosca possiede effettivamente una strategia africana comprendente obiettivi individuabili nonché agli strumenti e le tattiche necessarie per attuarla?
La domanda è indubbiamente legittima, ma il fatto che qualcuno se la sia posta non depone a favore di un inquadramento della Russia come Grande Potenza globale pur rappresentando il culmine fino ad oggi registrato della ricerca decennale della Russia per basi navali nel Corno d’Africa[13].
Le tattiche di Mosca per ottenere e proteggere questa base e la sua posizione complessiva in Sudan dimostrano che la strategia del Cremlino volta alla acquisizione del controllo dell’apparato statale nei Paesi e nelle regioni del Terzo Mondo, compresa l’Africa, si concretizza in un approccio “whole of government” che coinvolge persino la criminalità organizzata come strumento del Governo russo[14].
A quanto pare la strategia russa muove a partire dal raggiungimento di una posizione da cui poter esercitare un’influenza in uno o più settori o in uno Stato – in particolare uno Stato in cui è in corso una guerra civile o un conflitto interstatale – mirando poi ad espandere tale influenza e a ottenere perlomeno un “potere di veto”, se non una presenza permanente, per i suoi interessi pecuniari e di sicurezza. Nel caso del Sudan, la Russia è entrata attraverso la vendita di armi, un modus operandi tipico, soprattutto in Africa: nello specifico la condizione per la vendita di armi è andata oltre l’addestramento degli ufficiali sudanesi all’uso di tali armi (addestramento per il quale è stata utilizzata la ben nota PMC –società militare privata russa– Wagner), includendo il sostegno russo al governo sudanese in crisi guidato da Omar Bashir, un sostegno ricompensato con preziose concessioni per l’estrazione di oro ed altri minerali. Una situazione rimasta immutata allorché Omar Bashir è stato deposto e sostituito nel 2019 da un regime militare guidato dal generale Abdel Fattah Al-Bourhane che, come se nulla fosse, è stato sostenuto fermamente dalla stessa Wagner che ha operato un cambio di fronte che ha permesso non solo il mantenimento in essere dei vantaggi già acquisiti, ma pure il loro ampliamento fino a giungere all’ottenimento di una base navale[15].
Per Putin, che attende con ansia la concretizzazione di questo patto, l’istituzione di una base navale in Sudan avrebbe diversi significati tra i quali, in primis, quello politicodi conferma di un rapporto sempre più stretto tra la Russia e i suoi alleati africani con i quali il presidente russo ha avviato da tempo un rafforzamento delle relazioni ripercorrendo la strada dell’URSS, quella di quando Mosca sosteneva ribelli di matrice comunista o socialista: una strada che oggi è possibile tracciare affidandosi alle segnalazioni della presenza in loco di militari russi, mercenari della Wagner, aziende parastatali e accordi per armi, materie prime ed energia[16].
Se da un punto di vista strategico per il Cremlino il poter mostrare la capacità di muoversi in tutto il mondo nonostante il crollo delle relazioni con l’Occidente serve come spot per manifestare uno status di potenza al di là della guerra in Ucraina, è ovvio che le tempistiche della ratifica dell’accordo sono da imputare più che altro alla fluida situazione militare in Ucraina il cui andamento va in scena attualmente anche sul palcoscenico africano, che di fatto è diventato un luogo fondamentale di scontro tra le Grandi Potenze[17]
Non stupisce quindi che l’annuncio della nuova base abbia prontamente galvanizzato l’amministrazione Biden spingendola all’azione per ribaltare la decisione: nel 2021 Biden ha non a caso inviato in loco delegazioni senatoriali di alto rango, organizzato prestiti dagli stati europei al Sudan, ha contemplato accordi sulle armi, ha condonato il debito del Sudan nei confronti degli Stati Uniti e ha cercato un ruolo attivo nella mediazione della guerra civile etiope e del conflitto egiziano-etiope sulla Grand Ethiopian Renaissance Dam, tutte questioni che minacciano la stabilità regionale[18]. E come se tutto questo non bastasse ha pure inviato delegazioni militari e navi da guerra in visite portuali per rafforzare la sicurezza, ha espresso la determinazione di Washington ad avere una presenza in questa regione e ha gareggiato vigorosamente con Mosca[19].
La ragione di cotanta ‘galvanizzazione’ si spiega considerando che la creazione della base darebbe risposta a due precise esigenze strategiche di Mosca delle quali l’una di tipo squisitamente militare e la seconda di tipo logistico visto che:
a) la costruzione di un hub in quel Mar Rosso che è di fatto un’enorme autostrada dell’energia e anche di passaggio per le flotte dirette verso l’Oceano Indiano, data la vicinanza del canale di Suez, non solo consentirebbe a Mosca di avere due centri nevralgici a disposizione delle proprie forze navali siti uno a nord del canale, ovvero a Tartus, in Siria, ed uno a sud, in Sudan, ma pure di avere garantito quell’accesso ai mari caldi che è da sempre un elemento centrale della strategia russa;
b) la base nell’area di Port Sudan – che secondo le informazioni dovrebbe prevedere un massimo di 300 militari e la presenza di massimo quattro navi – consentirebbe la sosta delle unità di Mosca senza costringerle a viaggi molto lunghi in assenza di porti nell’Oceano Indiano.
In definitiva, la Russia punta da diverso tempo alla creazione di un blocco di Stati filorussi, o semplicemente desiderosi di giocare ‘di sponda’, su cui esercitare un’influenza politica, economica e militare duratura, ossia a garantirsi una sfera di influenza ed è in questo senso, come riferito dal Ministero degli Affari Esteri tedesco in un rapporto stilato ad hoc, che la Russia ha chiesto il permesso di stabilire basi militari in Egitto, Repubblica Centroafricana, Eritrea, Madagascar, Mozambico e Sudan, ha concluso accordi di vendita di armi con 21 Paesi africani tra il 2015 e il 2020, mentre in precedenza aveva stipulato accordi di cooperazione con solo quattro Paesi africani.
Nello stesso rapporto si può anche leggere, ad ulteriore conferma di quanto sin qui riportato, che la Russia ha talvolta addestrato formalmente e talvolta segretamente le forze di questi Paesi, come pure che la Russia non solo invia le sue offerte per l’addestramento, ma invita anche i soldati delle nazioni africane ad addestrarsi nelle sue strutture sicché a sua volta, questa trasformazione regionale dovrebbe produrre un cambiamento duraturo nell’ordine strategico regionale: un ordine strategico che gli analisti russi descrivono guardando alla Russia come ad una potenza equilibratrice in Africa tra i poli rivali dell’Occidente (Stati Uniti e Unione Europea) e dell’Asia: una desiderata e non certamente qualcosa in atto[20]. E da questo punto di vista la precarietà delle posizioni acquisite e non ancora consolidate della Russia fanno sì che anche per Putin sia consigliabile cercare una soluzione diplomatica al presente conflitto in atto per il concreto rischio incombente di trovarsi non tanto a dover fare i conti con quella posizione di sudditanza nei confronti degli USA da sempre aborrita dal Cremlino, quanto, piuttosto, con quella derivante dalla sudditanza a breve dell’intero Occidente dalle forniture di LNG dalla Cina: questo stando alle recenti proiezioni relative al ruolo di Pechino.
Come noto l’Europa ha superato l’inverno senza una crisi energetica solo grazie all’aiuto della Cina, ma va notato che questo è stato possibile solo perché le politiche restrittive anti-Covid del paese asiatico ne hanno limitato la crescita economica e conseguentemente il suo appetito per il gas naturale liquefatto, liberando l’offerta per altrove.
Ora tale felice circostanza, come ha recentemente sottolineato Stephan Stapczynski sulle pagine di Bloomberg, tale assistenza, a breve “potrebbe trasformarsi in influenza mentre la Cina si affretta ad assicurarsi l’LNG per i prossimi anni, firmando gli accordi di acquisto a più lungo termine di qualsiasi altra nazione. Le aziende con sede nel paese rappresentano circa il 15% di tutti i contratti che inizieranno a fornire l’LNG da qui a tutto il 2027, secondo un’analisi dei dati BloombergNEF”[22]. La Cina sta di fatto aumentando il controllo sulle forniture di LNG a lungo termine e lo sta facendo da decenni in quanto sono decenni che la nazione asiatica si sta affrettando a firmare contratti per garantirsi adeguate forniture del prezioso bene e anche se quegli acquirenti cinesi finissero per rivendere molti dei carichi ai migliori offerenti in Europa, come hanno fatto lo scorso anno, continuerebbero a farsi carico di una grossa fetta del carburante cruciale secondo una tendenza vincente messa già in campo, come noto, per molte altre materie prime essenziali, dal rame alle terre rare.
Si stima che lo scorso anno, come riportato nel rapporto di ricerca mensile ENN Energy di gennaio 2023[23], la Cina abbia rivenduto almeno 5,5 Mln di tons di LNG, ossia un quantitativo equivalente a circa il 6% del volume totale del mercato spot[24]: una circostanza che ha reso il paese un enorme fornitore di swing. Ora tenuto conto che se non fosse stato per la minore domanda cinese di LNG nel 2022, il mercato globale del gas – e la sicurezza energetica dell’Europa – sì sarebbero venutI a trovare in uno stato molto più pericoloso, come ha giustamente affermato Saul Kavonic, analista energetico presso Credit Suisse Group AG[25], la domanda che sorge spontanea è: cosa accadrà quest’anno?
La Cina a partire dal 2021 ha firmato con lungimiranza più contratti con progetti di esportazione negli Stati Uniti di qualsiasi altra nazione e nel 2022 Sinopec ha siglato uno dei più grandi accordi di sempre nel settore dell’LNG con il Qatar mentre altri si profilano all’orizzonte dal momento che, a quanto pare, le aziende cinesi sono in trattative con gli esportatori negli Stati Uniti e hanno anche serrato trattative con Qatar, Oman, Malesia e Brunei, il che mette in evidenza che, come affermato da Shell Plc nel suo rapporto annuale sulle prospettive dell’LNG pubblicato la scorsa settimana : ” La Cina sta passando dall’essere un mercato di importazione in rapida crescita all’essere un Paese in grado di assumere un ruolo più flessibile caratterizzato da una maggiore capacità di bilanciare il mercato globale dell’LNG”[26].
È ovvio che in un tale contesto la Russia potrebbe trovarsi a dipendere per il futuro dagli umori di Pechino per quello che riguarda il supporto dato a Mosca una volta che siano mutate le prospettive di sviluppo delle dinamiche geopolitiche globali: in altri termini la Russia non può non tenere in debito conto che il supporto fornitole dal Governo cinese è legato al proprio tornaconto, al proprio bisogno di vedere ridimensionato il ruolo degli Stati Uniti nel mondo: solo in questo senso Pechino, come Nuova Delhi del resto, hanno favorito il commercio del gas russo. La riprova di questa lettura delle cose l’abbiamo perfettamente resa dall’accoglienza riservata alla dichiarazione alquanto ingenuo del Ministro degli Esteri Lavrov al G20 in India allorché ha affermato che il suo Paese sta cercando di fermare la guerra che è stata scatenata contro il suo Paese usando il popolo ucraino[27].
3) una guerra che la Cina (analogamente all’India) non può permettere tanto che si concluda con una vittoria statunitense che sancisca la rinascita di un impero americano globale, quanto con un indebolimento economico dell’Occidente tale da pregiudicarne la ripresa al punto di deprimerne in modo significativo quella domanda da cui tanto ancora dipende il PIL del colosso asiatico, ossia di quella Cina per la quale la periferia marittima supercontinentale è ancora molto importante a causa della dipendenza della Cina dalle rotte marittime per il commercio con l’Africa, il cui futuro è intrecciato con quello della Repubblica Popolare perché quest’ultima ha assolutamente bisogno che il continente diventi un mercato sviluppato abbastanza robusto da acquistare i beni sovraprodotti dal Paese in misura tale da ridurne la, al momento, congenita, dipendenza dai mercati occidentali.
I maggiori concorrenti di Pechino nello spazio afro-pacifico sono Washington e la sua coalizione “Lead From Behind” del “Quad”, che hanno presentato il cosiddetto “Corridoio di crescita Asia-Africa” (AAGC) per contrastare la Nuova Via della Seta. A rendere il tutto ancora più teso, la Cina e le altre quattro Grandi Potenze del Circolo d’Oro devono prepararsi a rispondere a conflitti d’identità provocati dall’esterno negli Stati di transito geostrategico della Via della Seta (guerre ibride), e mentre il nucleo dell’Eurasia può più o meno contare su soluzioni multilaterali a queste sfide attraverso la SCO o qualsiasi altra struttura correlata, l’Africa non ha tali opzioni di sicurezza.
La Cina è quindi costretta a potenziare le capacità militari dei suoi partner della Via della Seta e, nel peggiore dei casi, a schierare le sue portaerei lungo la costa per “guidare da dietro” i locali nelle loro campagne contro la guerra ibrida. Mosca sta già sperimentando una nuova politica di utilizzo di “mercenari” per sostenere il governo della Repubblica Centrafricana, riconosciuto a livello internazionale ma in fase nascente, nel suo tentativo di reclamare il Paese devastato dalla guerra civile dalla miriade di bande di militanti che ne occupano la stragrande maggioranza, e il successo della versione russa della sua strategia “Lead From Behind” sarebbe la “prova di concetto” necessaria per convincere il resto dell’Africa –e la Cina– che Mosca potrebbe fornire i servizi di sicurezza tanto necessari per proteggere i loro progetti sulla Via della Seta.
4) una anomala proxy war in parte asimmetrica che gli Stati Uniti, a breve, non potranno più pensare di combattere per interposta persona nascondendosi dietro l’ONU ed un’Unione Europea che ad ogni piè sospinto disperatamente cerca di mascherare, con sempre più scarso successo, la sua ‘ritrovata’ sudditanza agli Stati Uniti e alla NATO facendo bella mostra del suo tragicomico novello status di ‘mosca cocchiera’ per mezzo della pressoché quotidiana reiterazione di altisonanti richiami e roboanti riferimenti a quel diritto internazionale e a quella difesa dei cosiddetti ‘valori occidentali’ costantemente chiamati in causa per giustificare il suo servile appoggio all’uomo di Washington a Kiev.
Una guerra che per somma neppure gli Stati Uniti possono pensare di vincere non potendosi permettersi il dubbio lusso di scendere in campo in prima persona: se lo facessero la parola passerebbe, infatti, inevitabilmente alle armi nucleari che non potrebbero essere solo di tipo tattico. In un tale contesto, bene farebbero, quindi, pure gli Stati Uniti a prendere coscienza del fatto che la II Guerra Mondiale combattuta tenendo lontani dalle proprie coste morte e distruzioni è acqua passata, il che vuol dire che una guerra con Mosca segnerebbe la fine anche del sogno egemone.
Detto per inciso, per quello che riguarda l’Ucraina, come ho più volte avuto modo di dire , la situazione è quella di un Paese sacrificabile distrutto dalla guerra, senza più voce in capitolo e costretto a soggiacere alle decisioni che altri altrove hanno preso e continuano a prendere in suo nome; quella di un’astrazione geografica destinata strumentalmente a rimanere tale per decenni, sempre che non si arrivi ad uno scontro nucleare che, come è facile prevedere, ne determinerebbe, senza grossi rimpianti tra gli… ‘alleati’, la cancellazione immediata dalle carte geografiche.
D’altro canto, non me ne vogliano i propagandisti di guerra nostrani, l’Ucraina prima di assurgere agli onori degli altari mediatici occidentali –in quanto funzionale al perseguimento degli obiettivi geostrategici di Washington– era perfettamente ed universalmente nota per essere un Paese caratterizzato da istituzioni democratiche deboli e alti tassi di povertà, gravato dalle pesanti conseguenze di una corruzione endemica malamente contrastata da un sistema giudiziario corrotto e politicamente dipendente nonché ulteriormente indebolito dalle pesanti conseguenze di una costosa guerra nazionalista nel Donbass che, a tutto il 2019, mieteva quotidianamente nuove vittime e distruzioni nella totale indifferenza dell’Occidente.
A fare da sfondo a tutto quanto descritto vi sono:
1) la perdurante crescente volontà, manifestata da entrambe le parti, di ottenere un vantaggio assoluto e persino una vittoria finale sul campo di battaglia;
2) le interessate retoriche, ma non per questo fini a stesse, disquisizioni aventi come fine ultimo l’individuazione delle responsabilità. Così a tale riguardo si è espresso, come riportato dal Global Times, Cui Heng, assistente ricercatore presso il Centro di studi russi dell’Università Normale della Cina orientale: “Dovremmo capire chiaramente chi ha portato il conflitto tra Russia e Ucraina al punto in cui si trova oggi e chi ha fatto sì che la Russia e l’Ucraina perdessero l’opportunità di negoziare”: una domanda più che altro retorica dalla risposta scontata che passa ben al di sopra di Kiev
3) la ridda di concertate reiterate accuse propagandistiche che quotidianamente da mesi fanno bella mostra di sé sulle pagine dei quotidiani occidentali con l’intento di arginare il malumore qui generato dai contraccolpi delle inconcludenti sanzioni, millantatamente presentate ad ogni piè sospinto risolutive, ma di fatto inefficaci, applicate ad una Russia che nel 2022 è risultata essere, nonostante tutto, la decima potenza industriale;
4) le controversie in seno alla NATO: si veda il contenzioso con una riluttante Germania relativo alla fornitura dei carri armati Leopard 2 tedeschi a Kiev – ed ora pure quello della Svezia con la Turchia che ne avversa l’ammissione alla NATO stessa dopo l’increscioso episodio del rogo del Corano da parte dell’estremista di destra Rasmus Paludan e le critiche al leader turco[28]
5) i concreti rischi di un allargamento del conflitto al Medio Oriente dove di recente ha avuto luogo l’attacco -condotto per mezzo di droni- all’impianto militare di Isfahan, nel centro dell’Iran, che fonti accreditate hanno ipotizzato essere una delle fabbriche in cui vengono prodotti i droni Shahed-136 forniti alla Russia e utilizzati nella guerra in Ucraina[29]
Il clima politico complessivo attuale è ben descritto dalla contrapposizione della stigmatizzazione di Macron dei Paesi neutrali quanto al conflitto tra Russia e Ucraina (una stigmatizzazione che ha posto in evidenza, stando a quanto dichiarato al Global Times da Cui Hongjian, direttore del Dipartimento di Studi Europei dell’Istituto Cinese di Studi Internazionali, come l’Europa abbia progressivamente dato vita ad un confronto relativamente aspro con Mosca) alla posizione cinese pragmaticamente orientata verso la promozione di una tregua, come auspicato dal Ministero degli Esteri cinese che per bocca del suo portavoce ha più volte invitato le parti interessate a raggiungere un cessate il fuoco attraverso il dialogo e le consultazioni e a trovare il modo di affrontare le ragionevoli preoccupazioni di sicurezza di tutte le parti il prima possibile.
La discussione sulla guerra tra Russia e Ucraina è ovviamente dominata dalla domanda su come potrebbe finire, ma, i vari interlocutori tendono ancora troppo a minimizzare i rischi di una grave escalation, fermo restando che nel caso di un conflitto prolungato i costi e i rischi sono palesemente significativi e superano i possibili benefici. Tra i principali ostacoli ad una fine negoziata del conflitto abbiamo il reciproco ottimismo sul futuro della guerra e il reciproco pessimismo sulle implicazioni della pace. La prospettiva evidenzia quattro strumenti politici che gli Stati Uniti potrebbero utilizzare per mitigare questi ostacoli: chiarire i piani per il futuro sostegno all’Ucraina, assumere impegni per la sicurezza dell’Ucraina, rilasciare garanzie sulla neutralità del Paese e stabilire le condizioni per l’alleggerimento delle sanzioni alla Russia tutte cose che non paiono essere state prese in modo serio in considerazione sicché l’intera questione è ancora alquanto pericolosamente incerta.
[1] https://www.perseonews.it/2023/02/25/il-capo-di-stato-maggiore-della-difesa-non-esiste-una-soluzione-militare-ne-kiev-ne-mosca-possono-vincere/
[2] https://www.repubblica.it/esteri/2022/11/11/news/usa_pace_ucraina_generale_milley_bisogna_trattare-374112045/
[3]https://www.difesa.it/SMD_/CaSMD/Eventi/Pagine/Incontro_Capo_SMD_Ammiraglio_Cavo_Dragone_e_Generale_USA_Mark_A_Milley.aspx
[4] https://it.euronews.com/my-europe/2023/02/13/nato-stoltenberg-chiede-piu-munizioni-per-kiev-iniziata-la-nuova-offensiva-di-mosca
[5] https://it.euronews.com/my-europe/2023/02/13/nato-stoltenberg-chiede-piu-munizioni-per-kiev-iniziata-la-nuova-offensiva-di-mosca
[6] https://www.euronews.com/2023/02/17/ukraine-and-its-allies-must-agree-on-a-joint-vision-of-what-victory-against-russia-means?dicbo=v2-ei78reg
[7] https://orientalreview.org/2018/05/07/russias-grand-strategy-in-afro-eurasia-and-what-could-go-wrong/
[8] https://orientalreview.org/2018/05/07/russias-grand-strategy-in-afro-eurasia-and-what-could-go-wrong/
[9] https://www.agenzianova.com/news/sudan-ministero-esteri-nega-la-presenza-del-gruppo-wagner-da-paesi-occidentali-interferenze-indebite/
[10] https://riskbulletins.globalinitiative.net/wea-obs-006/04-russias-military-mercenary-and-criminal-interests-in-west-africa.html#russias-military-mercenary-and-criminal-interests-in-west-africa-grew-in-2022-and-look-set-to-expand-in-2023
[11] https://it.insideover.com/difesa/la-russia-accelera-ecco-perche-vuole-una-base-navale-in-sudan.html
[12] https://it.insideover.com/difesa/la-russia-accelera-ecco-perche-vuole-una-base-navale-in-sudan.html
[13] Stephen Blank, “Will Sudan Be The Latest Jewel In the Russian Crown ?” Forthcoming from the U.S. Naval War College.
[14] Ruslan Stefanov and Martin Vladimirov, Deals In the Dark: Russian Corrosive Capital In Latin America,National Endowment For Democracy, Sharp Power and Democratic Resilience Series, 2020.
[15] Samuel Ramani, “’Engaged Opportunism’: Russia’s Role In the Horn Of Africa,” Foreign Policy Research Institute, July 2, 2020, p. 8. https://www.fpri.org/wp-content/uploads/2020/06/engaged-opportunism-russias-role-in-the-horn-of-africa.pdf ; https://www.geopolitica.info/russia-gruppo-wagner-oro-sudan/ ;
[16] https://it.insideover.com/difesa/la-russia-accelera-ecco-perche-vuole-una-base-navale-in-sudan.html
[17] https://it.insideover.com/difesa/la-russia-accelera-ecco-perche-vuole-una-base-navale-in-sudan.html#google_vignette
[18] https://www.al-monitor.com/originals/2021/05/intel-biden-dispatches-us-senators-forge-further-ties-sudan#ixzz6xVXUn7XJ
[19] https://www.dabangasudan.org/en/all-news/article/first-us-navy-ship-in-decades-docks-in-port-sudan
[20] https://orientalreview.org/2018/05/07/russias-grand-strategy-in-afro-eurasia-and-what-could-go-wrong/
[21] https://www.bloomberg.com/graphics/2023-europe-energy-crisis-updates-china-lng-dominance-europe/?leadSource=uverify%20wall
[22] https://www.bloomberg.com/graphics/2023-europe-energy-crisis-updates-china-lng-dominance-europe/?leadSource=uverify%20wall
[23] https://www.bloomberg.com/graphics/2023-europe-energy-crisis-updates-china-lng-dominance-europe/?leadSource=uverify%20wall
[24] https://www.iocbc.com/iwov-resources/sg/ocbc/ospl/PDF/Stock-Highlight-ENN-Energy.pdf
[25] https://www.bloomberg.com/graphics/2023-europe-energy-crisis-updates-china-lng-dominance-europe/?leadSource=uverify%20wall
[26]https://www.bloomberg.com/graphics/2023-europe-energy-crisis-updates-china-lng-dominance-europe/?leadSource=uverify%20wall
[27] https://it.euronews.com/2023/03/03/g20-in-india-salta-la-dichiarazione-congiunta-sullucraina-faccia-a-faccia-blinken-lavrov
[28] https://www.nuovogiornalenazionale.com/index.php/estero/politica-internazionale/10386-la-svezia-sospende-l-adesione-alla-nato.html
[29] https://www.nuovogiornalenazionale.com/index.php/estero/politica-internazionale/10372-la-guerra-in-ucraina-si-allarga-al-medio-oriente.html
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