Geopolitica
Tra liti da studio ovale e strategie globali. Trump e il rompicapo Ucraina
Nell’ormai leggendario scambio di colpi di venerdì scorso alla Casa Bianca, risulta chiaro che il presidente Zelensky ha compiuto errori, che non avrebbe dovuto commettere. Non si può andare a battibeccare in mondovisione con il capo della massima superpotenza mondiale, da cui si dipende in gran parte per il proseguimento della difesa del proprio paese. A maggior ragione se questo signore è un narcisista impulsivo come Donald Trump e indipendentemente dal fatto che si abbia ragione o no sul merito dei fatti in discussione. Probabilmente il leader ucraino ha fatto troppo affidamento sulle sue indubbie capacità comunicative, e sulla solidità degli argomenti a favore, ma evidentemente la sua condotta non è stata una scelta tattica saggia.
Tuttavia l’esito di tale incontro, e le conseguenze successive, come ad esempio la sospensione degli aiuti americani a Kiev, è in gran parte frutto della strategia dell’amministrazione Trump, finalizzata a mettere con le spalle al muro l’Ucraina, penalizzandola fortemente proprio nel momento in cui lotta per la propria sopravvivenza. Una strategia, pur se in parte annunciata, che ribalta clamorosamente l’indirizzo politico-strategico degli USA, non solo in relazione al conflitto in Ucraina, ma all’intera postura di Washington degli ultimi ottantacinque anni. Logico intendere che, le vittime di questo testacoda in autostrada, subito dopo i poveri ucraini, saremo noi europei, insieme forse ad altri alleati storici degli USA. Presunti “patrioti” e novelli apostoli della “pace”, in stile Miss Italia, dovrebbero tenerlo a mente.
Ma, tralasciando ora le conseguenze per noi orfani di Washington, la nuova strategia trumpiana rischia di essere pericolosa e controproducente per gli stessi USA, come segnalato da Nigel Gould-Davies su IISS. E’ fuor di dubbio che sia nell’interesse di tutti, USA compresi, giungere ad un abbassamento delle tensioni in Europa Orientale, e, possibilmente, alla fine dei combattimenti, ma non sarebbe nemmeno nell’interesse di Washington arrivarci attraverso una resa di Kiev alla Russia. Questo è invece quel che mira a provocare, di fatto, l’azione di Trump, il quale sta concedendo a Putin gran parte di quel che egli chiede, in cambio praticamente di nulla. Dopo tre anni di guerra che non hanno affatto prodotto una vittoria militare di Mosca, la quale non è riuscita neanche a conquistare tutto l’agognato Donbass, nè ad occupare una sola grande città ucraina, e avanza sul terreno con estrema lentezza. Pur considerati i rischi per l’Ucraina di rottura del fronte, che pure esistono, date le grandi difficoltà a mobilitare personale con buoni livelli di addestramento, non dovrebbe essere sopravvalutata neanche la capacità della Russia di rimpiazzare gli uomini e soprattutto i mezzi persi al fronte.
Soprattutto, non dovrebbe essere dimenticato che, sebbene gli ucraini abbiano bisogno di Trump, forzarli oltre certi limiti potrebbe comportare il fallimento delle trattative di pace, con la prosecuzione dei combattimenti, se pur in condizioni peggiori, ma non impossibili, per Kiev, oppure addirittura generare conflitti interni al paese, con il rischio di genesi di un vero e proprio buco nero di sovranità nel mezzo dell’Europa Orientale, dove circolerebbero spropositate quantità di armamenti, leggeri e pesanti. Uno scenario da incubo, che, se da una parte risulterebbe sulle spalle soprattutto dell’Europa, dall’altra significherebbe un clamoroso danno di credibilità per gli USA e un altrettanto clamoroso smacco per il suo presidente, che aveva enunciato in campagna elettorale di far cessare la guerra in un giorno.
Ma evidentemente, alla nuova leadership USA, il destino dell’Ucraina non interessa (sorvoliamo sulla pelosa ipocrisia del “vedere la gente smettere di morire”), messo in secondo (ma anche terzo o quarto) piano, di fronte ad un riavvicinamento con la Russia, in funzione anti-cinese, nel migliore dei casi, o per simpatie verso il modello politico-culturale moscovita, non disprezzato (eufemismo) dai nuovi padroni di Washington (vero, Mr Vice-President?), nel peggiore. Sennonché, una tale politica, come è stato sottolineato da non pochi osservatori, mette seriamente a rischio l’immagine e l’affidabilità degli USA di fronte al mondo, già a non altissimi livelli, e fa lo stesso con il sistema di alleanze (anche vs Cina), di cui essa è perno, con il risultato di produrre non solo la fine dell’ordine internazionale liberale, ormai nei fatti, ma anche l’evoluzione verso un mondo senza alcun ordine, se non quello di potenze, perlopiù autoritarie, che mirano ad accordarsi per gestire le proprie zone di influenza, come scrive Nathalie Tocci su Affari Internazionali.
La stessa sopra citata manovra di attrazione di Mosca, per distoglierla dall’abbraccio di Pechino, sorta di diplomazia del ping-pong al contrario, non sembra ricalcare pienamente l’allora strategia di Nixon e Kissinger, essendo le condizioni attuali assai diverse, da quelle dei primi anni ’70. Allora Cina e Russia erano già separate da anni, fino ad imbracciare le armi l’una contro l’altra, nella quasi dimenticata guerra dell’Ussuri del 1969, mentre oggi la partnership tra i due giganti asiatici è profonda, sebbene la seconda sia chiaramente in posizione di inferiorità. L’esito di una tale strategia, oggi, come scrive sempre Gould-Davies, sarebbe più probabilmente quello di mettere Mosca in una più comoda posizione di terza potenza, ago della bilancia tra Washington e Pechino. Anche perché, di fronte alle offerte di Trump e Vance, difficilmente Putin e i suoi rinuncerebbero al rapporto consolidato con Xi Jinping, consapevoli della prevedibile provvisorietà della politica americana, così polarizzata e, almeno in parte, dipendente dai sempre più frequenti avvicendamenti alla Casa Bianca.
Che tali possibili esiti siano realmente auspicabili e auspicati dagli USA, una nazione che ha conseguito la grandezza, nell’ultimo secolo, attraverso la leadership egemonica globale, risultante da un mix di hard e soft power senza eguali nella storia umana, è tutto da vedere. Alcune reazioni al primo mese abbondante di governo trumpiano, nell’economia e nella società americana, inclusi alcuni media conservatori, segnalano già qualche scricchiolio. Come segnalato anche da Michael Kimmage e Thomas Wright su Foreign Affairs, l’amministrazione Trump avrebbe sul serio la possibilità di giungere ad un migliore modus vivendi con la Russia, e di conseguire il cessate il fuoco in Ucraina, a patto di operare con la giusta perizia e pazienza diplomatica, ponendo sì paletti a Zelensky e incentivi a Putin, ma mettendo sul tavolo anche un grosso bastone, ben visibile allo zar, per indurlo a più miti consigli. Un bastone costituito dalla chiara certezza, in caso di rifiuto di un’equa proposta di pace, con annesse garanzie di sicurezza a Kiev, di veder incrementare enormemente gli aiuti militari al paese invaso, sia in quantità che in qualità. Inizialmente questa pareva essere la strategia della nuova amministrazione, ma se ne sono presto perse le tracce. Tracce che, al momento, in mezzo a tanti discorsi, non vi sono neanche per il piano di pace da proporre, o imporre, ai due contendenti.
Quel che accadrà d’ora in avanti è difficile da prevedere, ma nulla dovrebbe essere dato per scontato, in una situazione in cui un popolo combatte per la propria libertà e sopravvivenza come nazione, contro un esercito che, tra le altre cose, si è macchiato in tre anni di innumerevoli atrocità verso civili e prigionieri di guerra. I limiti imposti a Kiev al fine di non far degenerare il conflitto in guerra generale e la moral suasion per giungere ad una conclusione dei combattimenti accettabile per entrambi i contendenti vanno bene, ma arrivare all’umiliazione e all’abbandono della nazione ucraina potrebbe avere effetti inattesi, e non è consigliabile per nessuno.
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