Geopolitica

Tehran minaccia, l’Europa asseconda…

27 Giugno 2023

In Albania mille poliziotti irrompono in un compound che ospita 3.000 militanti dell’opposizione iraniana accusati di “fare attività politica”, provocando un morto e diversi feriti. In Francia il governo reagisce agli attentati contro il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana vietandogli di manifestare. Cosa sta succedendo?

Martedì 20 giugno un migliaio di poliziotti albanesi ha compiuto una brutale irruzione nel campo di Ashraf 3, a nord-ovest della capitale Tirana, che dal 2013 ospita migliaia di militanti dell’organizzazione dei Mojaheddin del Popolo Iraniano (MEK) fuggiti dall’esilio in Iraq sotto la protezione dell’UNHCR dopo i ripetuti attacchi con decine di morti subiti in quel paese a partire dal 2009  da parte delle forze di sicurezza del governo di Nouri al-Maliki e di milizie legate alle Guardie della Rivoluzione iraniane. Nel più noto di quegli assalti, quello del settembre 2013, le vittime furono oltre 50.

Durante la “perquisizione”, che ha portato all’arresto di alcune decine di esponenti dei MEK, gli agenti hanno sfondato porte e messo a soqquadro gli uffici, distruggendo gli armadi e prelevando materiale informatico e attrezzature. Circa cento residenti hanno riportato lesioni provocate dagli spray al peperoncino, alcuni sono stati ricoverati nell’Ospedale Madre Teresa di Tirana e uno di loro, Alì Mostashari, è rimasto ucciso.

Il ministro degli interni albanese Bledi Cuci ha dichiarato che la polizia ha agito su mandato di un tribunale, fondato sul “ragionevole sospetto” che i membri del MEK stiano utilizzando le strutture informatiche del campo per svolgere attività politica, violando gli accordi stipulati con lo Stato albanese all’atto del trasferimento dall’Iraq. Il sospetto è che Cuci si riferisca alla violazione dei siti del Ministero degli Esteri iraniano da parte di un gruppo di hacker, avvenuta ai primi di maggio (PuntoCritico230523). Il capo della polizia albanese Muhamet Rrumbbullaku ha negato che i suoi agenti abbiano usato violenza contro gli ospiti del compound e che la morte di Mostashari sia stata causata da loro.  L’episodio, avvenuto a pochi chilometri dall’Italia, ma sostanzialmente ignorato dalla stampa italiana, è reso paradossale dal fatto che pochi mesi fa, a settembre, il governo di Edi Rama aveva rotto le relazioni diplomatiche con Tehran a seguito di alcuni attacchi informatici ai danni dell’Albania attribuiti al regime iraniano.

Il paradosso è acuito dal comunicato diffuso dal Dipartimento di Stato americano dopo l’irruzione nel campo. L’amministrazione Biden ha dichiarato di sostenere “il diritto del governo albanese di indagare potenziali attività illegali condotte sul proprio suolo”, sottolineando che gli Stati Uniti non considerano il MEK “un accettabile movimento di opposizione democratica rappresentativo del popolo iraniano”. Se la polizia di un paese europeo facesse irruzione nella sede di un gruppo di opposizione russo accusandolo di fare hackeraggio e propaganda ai danni di Putin, la Casa Bianca difenderebbe allo stesso modo il suo diritto di far rispettare le proprie leggi?

Un articolo pubblicato su Tasnim News, agenzia stampa iraniana vicina alle Guardie della Rivoluzione iraniane, ci aiuta a chiarire i contorni della vicenda, almeno dal punto di vista dell’Albania: “Una fonte che ha familiarità con le attività del gruppo terroristico MEK in Albania mercoledì ha dichiarato a Tasnim News: ‘I terroristi immaginavano che l’Albania sarebbe stata la loro base permanente per le loro azioni criminali, inclusi attacchi informatici e propaganda contro l’Iran, ma gli espliciti ammonimenti dell’Iran circa eventuali ritorsioni per le minacce alla sicurezza del paese hanno ricordato a tutti i paesi che dare rifugio ai terroristi ha un prezzo’”. Osservazione di per sé già sufficientemente chiara, ma che, nelle conclusioni della fonte, diventa un’esplicita rivendicazione: “’Ciò che è accaduto in Albania di fatto è il risultato della potente diplomazia della Repubblica Islamica dell’Iran e di una serie di misure da parte di varie organizzazioni’”. In sostanza gli attacchi informatici iraniani a Tirana lo scorso settembre sarebbero stati parte di una strategia combinata da parte di gruppi hacker legati a Tehran e della diplomazia iraniana per mettere sotto pressione i paesi che ospitano le organizzazioni Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI). E il governo di Edi Rama, dopo la dura reazione iniziale, avrebbe deciso di cambiare approccio e assecondare le richieste della Repubblica Islamica.

Quello albanese non è un caso isolato: in Francia il 31 maggio, nei pressi di un edificio di proprietà di membri del CNRI a Saint-Ouen-L’Aumône, periferia nordoccidentale di Parigi, sono stati esplosi sei colpi di pistola, e l’11 giugno due individui hanno lanciato ordigni incendiari contro l’ingresso del palazzo. Il governo francese ha reagito vietando un raduno organizzato dalle vittime dell’attentato, che avrebbe dovuto svolgersi il primo luglio a Parigi. Cinque anni fa la polizia belga aveva arrestato due iraniani in possesso di una miscela esplosiva e di un detonatore che avrebbero dovuto utilizzare per compiere un attentato a un analogo evento organizzato dal MEK il primo luglio nella cittadina francese di Villepinte, vicino a Parigi. Le indagini successive avevano portato all’arresto di un diplomatico iraniano, Asadollah Assadi, considerato il mandante, condannato a vent’anni, ma rilasciato recentemente, in cambio della liberazione del cooperante belga Olivier Vandecasteele, arrestato dalle forze di sicurezza iraniane nel 2022 e condannato a 40 anni di carcere e a 74 frustate con l’accusa di spionaggio. Ma i documenti sottratti al Ministero degli Esteri iraniano a maggio e diffusi su internet dagli hacker dell’opposizione hanno rivelato che la trattativa per la liberazione di Assadi era in corso già prima dell’arresto di Vandecasteele.

Questi episodi stimolano almeno due riflessioni. La prima è che almeno tre paesi europei – Belgio, Francia e Albania – sembrano essere stati oggetto di una campagna di intimidazione da parte del regime di Tehran, in Ucraina alleato della Russia di Putin, a cui sta fornendo droni militari, ma di questa minaccia, che, come esplicita Tansim, è rivolta a tutti i paesi che ospitino sedi e attività dell’opposizione democratica iraniana, nessuno parla. Non se ne parla neanche in Italia, paese legato da strette relazioni economiche con l’Iran sin dai tempi degli scià. Se pensiamo allo spazio dedicato dai nostri media alle presunte interferenze russe nelle elezioni americane del 2016, riemerse anche nei giorni scorsi nei servizi sul capo della Wagner Prigozhin, presunto finanziatore di quell’operazione, la contraddizione è palese: fa più rumore un pugno di troll che pubblicava fake news sui social d’oltreoceano che bombe e irruzioni poliziesche con morti e feriti che avvengono nel cuore dell’Europa e a poche centinaia di chilometri dai nostri confini.

La seconda riflessione riguarda le ragioni di questo silenzio. Il fatto che la NATO assecondi le minacce del regime iraniano senza batter ciglio non può essere spiegato solamente col timore di ritorsioni.  USA e UE non hanno esitato a intervenire a gamba tesa in paesi come l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria e la Libia, esponendo la propria popolazione a rischi che puntualmente si sono materializzati in attacchi terroristici efferati in Francia, Spagna, Gran Bretagna, per citare soltanto i più sanguinosi. Perciò se le cancellerie occidentali consentono a Tehran di colpire una parte della propria opposizione e in alcuni casi collaborano attivamente è perché ciò rientra nella loro politica e in quella che considerano la difesa dei propri interessi all’estero.

L’Italia non fa eccezione. Poche settimane fa abbiamo scritto dell’accoglienza riservata da alcuni circoli di potere italiani al figlio dell’ultimo scià, Reza Ciro, in visita ufficiale a Roma lo scorso aprile e, più in generale, della benevola attitudine dei paesi occidentali nei confronti dell’erede al trono iraniano. Per il Dipartimento di Stato americano pare che la legittimità negata all’opposizione repubblicana agli ayatollah non manchi, invece, ai superstiti della millenaria tradizione autocratica degli scià di Persia, i cui più noti sostenitori in Occidente sono esponenti del jet set e frequentatori dei salotti dell’alta borghesia americana ed europea. Ricalcando un’espressione in voga siamo di fronte a un democratic-washing, che certo non dispiace al regime iraniano. Tehran, infatti, non mai colpito né minacciato i paesi che hanno dato rifugio ai Pahlavi: Egitto, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Svizzera ecc.

Sostenere una frazione largamente minoritaria, in patria e all’estero, dell’opposizione, che certo non toglie il sonno a Khamenei e Raisi, significa sostanzialmente investire sulla stabilità del regime. Dietro le invettive contro gli Stati-canaglia e il sostegno peloso alla “lotta delle donne iraniane” si nasconde ancora una volta una grande ipocrisia: per il capitalismo occidentale le dittature non sono tutte uguali: ci sono dittature nemiche, contro cui agitare indignati la bandiera delle libertà democratiche, e ci sono dittature socie in affari, sui crimini delle quali è preferibile tacere o, se non è possibile tacere, protestare con garbo, il minimo indispensabile per salvare la faccia con le proprie opinioni pubbliche. Le recenti notizie su un nuovo accordo sul nucleare, col conseguente sblocco di 20 miliardi di dollari iraniani congelati in Iraq, Corea del Sud e presso il FMI, completano il quadro e chiariscono ulteriormente il senso degli avvenimenti da cui siamo partiti.

Articolo tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 27 giugno

 

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