Geopolitica
In Svezia la destra ha vinto (di misura) le elezioni. E ora che succede?
Nei paesi nordici gli svedesi hanno fama di essere diligenti ma noiosi. A riguardo circolano numerose freddure (non sempre particolarmente spassose): “tutto ciò che in Svezia non è vietato è obbligatorio”; “come fa uno svedese a uccidere qualcuno? Gli racconta la storia della sua vita”. Anche la politica svedese di rado spicca per vivacità; come mi raccontava anni fa un politico di Malmö, «se Borgen [noto telefilm a sfondo politico] è ambientato in Danimarca e non in Svezia, ci sarà un motivo».
E tuttavia anche la noia ha i suoi vantaggi. L’Italia, dal crollo del Muro di Berlino a oggi, ha avuto ben tredici diversi presidenti del consiglio; la Svezia sei statsminister: quattro Socialdemocratici (Socialdemokraterna) e due Moderati (Moderaterna, che potrebbero essere definiti liberalconservatori). Il socialdemocratico Göran Persson è rimasto al potere per più di un decennio: ha iniziato quasi due mesi prima del Prodi I, ha finito alcuni mesi dopo l’avvio del Prodi II. Il socialdemocratico Stefan Löfven e il moderato Fredrik Reinfeldt hanno governato per oltre sette anni a testa; lo stesso il socialdemocratico Ingvar Carlsson, statsminister tra il 1986 e il 1991, e poi di nuovo tra il 1994 e il 1996. Nessuno di loro è riuscito a battere il record del socialdemocratico Tage Erlander (ventitré anni consecutivi al potere: dal 1946 al 1969), ma tutti hanno superato Magdalena Andersson, primo statsminister donna della storia svedese, giunta alla guida del paese nel novembre del 2021. Ieri, in pratica.
La permanenza della Andersson alla Casa Sager, l’elegante residenza neobarocca degli statsminister, si è però conclusa. La leader socialdemocratica ha rassegnato le dimissioni giovedì 15 settembre, dopo aver ammesso la sconfitta alle legislative di domenica 11 settembre. Le foto la ritraggono con un sorriso di circostanza, vestita in un abito blu scuro, con il talman (presidente) del riksdag, il moderato Andreas Norlén. E proprio lunedì 19 Norlén, giurista e veterano della politica, ha incontrato i rappresentanti di tutti i partiti (tranne i Socialdemocratici, essendosi egli già confrontato il 15 con la Andersson) in vista della nascita del nuovo governo. Governo che, a meno di colpi di scena (non probabili, non impossibili), sarà il più a destra della storia svedese recente. Ma forse anche uno dei più fragili.
In Svezia il talman svolge un ruolo più rilevante del presidente del senato o della camera in Italia. È infatti lui, non il re, a proporre il nome di un possibile statsminister dopo i colloqui con i partiti; spetta quindi al riksdag, il parlamento monocamerale che sorge solitario nell’isoletta di Helgeandsholmen, respingere con più della metà dei voti il candidato (in caso contrario, lo accetta).
La Andersson rimarrà al suo posto per il disbrigo degli affari correnti, probabilmente con l’amaro in bocca. Ha condotto, nel complesso, una campagna elettorale efficace, nonostante una certa mancanza di empatia, che in questo l’ha differenziata non poco dal suo predecessore Stefan Löfven, autentico “uomo del popolo” (però anche nell’egualitaria Svezia una donna, per essere presa sul serio, spesso deve avere fama di “dura”). Si è spesa molto, all’insegna del non troppo originale ma rassicurante slogan Vårt Sverige kan bättre (la nostra Svezia può essere migliore), cavalcando sia temi di sinistra come il welfare, sia (con minor credibilità) temi di destra come un contrasto skoningslös (senza pietà) alla criminalità. Alla fine ha perso per un soffio.
Il blocco rosso-verde, costituito da Socialdemocratici, Sinistra socialista (Vänsterpartiet), Verdi (Miljöpartiet) e Centristi (Centerpartiet) ha ottenuto il 48,87% dei voti; il 49,59% dei voti è andato invece all’ancora più eterogeneo blocco di destra, composto da Moderati, Cristiano-democratici (Kristdemokraterna), Liberali (Liberalerna) e Democratici svedesi (Sverigedemokraterna), forza anti-immigrazione ed euroscettica di estrema destra con un inquietante passato neonazista e leucarcale. Poco più di quarantamila voti hanno fatto la differenza: nel nuovo riksdag, che si riunirà per la prima volta lunedì, 176 seggi andranno al blocco di destra, 173 a quello rosso-verde.
Di solito il (salutare) grigiore della politica svedese attira poco o nulla l’attenzione dei media europei e americani. Questa volta però l’esito delle elezioni ha destato l’interesse di tutto l’Occidente; alcuni hanno già parlato di legislative “storiche”. Non tanto per la sconfitta di misura del blocco rosso-verde (i Socialdemocratici hanno ottenuto il 30,33% dei suffragi – una cifra che molti partiti di sinistra si sognano), quanto perché il partito più votato del blocco di destra non sono stati i Moderati (19,10%) come in passato, bensì i Democratici svedesi.
L’estrema destra ha ricevuto il 20,54% dei voti. Non solo: si tratta del partito che è cresciuto di più: +3,01% contro il +2,07% dei Socialdemocratici e il +0,67% dei Verdi, partito che nonostante la crisi climatica e la generation Greta stenta a sfondare. Non a caso i commentatori locali fanno sempre più spesso paragoni (più o meno congrui) tra la situazione in Svezia e quella negli Stati Uniti, dove il trumpismo ha preso il controllo del Partito Repubblicano.
Sia chiaro: anche se hanno raccolto il 20,54% dei voti, i Democratici svedesi non esprimeranno lo statsminister; sarebbe subito affossato dalla maggioranza del riksdag. È probabile (ma non certo) che non faranno nemmeno parte della coalizione di governo, limitandosi a fornire quello che in italiano chiameremmo “appoggio esterno”. Prima delle elezioni sia i Moderati che i loro più fedeli alleati, i Cristiano-democratici, hanno dichiarato di non volere un governo che includa l’estrema destra, e i Liberali hanno addirittura proclamato che non lasceranno mai andare al governo un partito che, sino a pochi anni fa, era trattato come un paria da tutti. Ma si sa, in politica le promesse sono scritte non sulla sabbia, bensì sull’acqua…
Con tutta probabilità a succedere alla Andersson e diventare il primo statsminister di destra dal 2014 sarà il leader dei Moderati Ulf Kristersson: politico della Svezia del sud, tenace e ambiziosissimo, di una duttilità ideologica degna di certi colleghi italiani, dalla comunicazione spregiudicata. Lunedì 19 il talman Norlén ha dichiarato di considerare Kristersson il nome più adatto da proporre al riksdag per il ruolo di statsminister. Sarà dunque il leader liberalconservatore a sentire i partiti per formare, attraverso «negoziati molto ampi», un nuovo governo «per tutti gli svedesi».
Un governo, secondo i media, composto da Moderati e Cristiano-democratici (ed eventualmente dei Liberali). Sia i Cristiano-democratici che i Liberali sono partiti piuttosto piccoli (alle elezioni hanno ottenuto, rispettivamente, il 5,34% e il 4,61% dei voti), ma grazie al parlamentarismo negativo i loro pochi seggi al riksdag (19 e 16) non sono un problema insormontabile.
La strada però non è tutta in discesa. Certo, un governo di minoranza non sarebbe una novità, nella storia del paese nordico. Il governo socialdemocratico uscente è nato come un monocolore di minoranza, per esempio. E persino al già citato Erlander, in un periodo storico meno volatile, capitò di governare così. Inoltre Kristersson non avrà completamente dimenticato ciò che accadde nell’estate del 2021, quando il secondo governo Löfven collassò, e lui cercò di creare un governo di destra con Cristiano-democratici, Liberali e Democratici svedesi: il tentativo non andò a buon fine, e alla fine nacque il terzo (e ultimo) governo Löfven.
Ma un governo di minoranza, per sopravvivere, ha bisogno della benevola astensione di questo o quel partito. È ciò che è successo, per esempio, con il governo Andersson. Esso è nato il 21 novembre del 2021 con 117 sì (i 100 dei Socialdemocratici, i 16 dei Verdi e il voto di una indipendente), 174 no, un’assenza e 57 astensioni (quelle della Sinistra e dei Centristi). Poiché il riksdag ha un totale di 349 membri, e in Svezia vige il già accennato parlamentarismo negativo (lo statsminister o candidato tale va a casa unicamente se in una mozione di sfiducia più della metà dei parlamentari gli vota contro), all’opposizione sarebbero serviti 175 no, e non solo 174, per soffocare il governo Andersson nella culla.
Un governo Kristersson con Moderati, Cristiano-democratici e Liberali non avrebbe alcuna speranza contro il no compatto del blocco rosso-verde e dei Democratici svedesi (246 voti negativi in tutto). In altre parole, a Kristersson servirà come minimo la “non-sfiducia” dei Democratici svedesi per reggere. Infatti la vittoria dell’estrema destra è stata bilanciata da un fiasco altrettanto degno di nota dei partiti minori: ecco perché se anche i Centristi (di cui si è già dimessa la leader Annie Lööf) scegliessero di riavvicinarsi alla destra, con i loro 24 seggi potrebbero aiutare poco. La sola alternativa per la formazione di un “governo borghese” (così si dice in Svezia) senza il placet dell’estrema destra sarebbe… un’astensione dei Socialdemocratici: al momento altamente improbabile, non impossibile, senz’altro clamorosa.
A Stoccolma tutti e quattro i partiti del blocco di destra stanno dialogando tra loro. A unirli la voglia di strappare il potere dalle mani dei Socialdemocratici (che, secondo i critici, hanno come sola ragion d’essere la permanenza al potere). Del resto i Moderati, così come i Cristiano-democratici e persino i Liberali, hanno diversi punti in comune con i Democratici svedesi. Uno di questi è la grande fiducia nell’energia nucleare: i Moderati vogliono investire 400 miliardi di corone svedesi (circa 38 miliardi di euro) in dieci nuovi reattori, e gli altri partiti di destra gli vanno dietro, con stupore degli esperti. Non a caso insieme hanno lanciato, a fine agosto, l’iniziativa Ny energi för Sverige (nuova energia per la Svezia): un tour in pulmino che ha fatto tappa presso le tre centrali nucleari del paese; vi hanno preso parte i portavoce sull’energia di tutti e quattro i partiti, compreso il Liberale iraniano-svedese Arman Teimouri. Proprio la partecipazione di Teimouri ha generato non pochi mal di pancia proprio all’interno del partito.
I Liberali si trovano ora tra l’incudine e il martello. Abbandonare il confronto con gli altri tre partiti vorrebbe dire mettersi all’angolo da soli e rischiare l’irrilevanza (o scegliere la strada di una ferma, e rumorosissima, opposizione). Dialogando anche con i Democratici svedesi si corre però il serio pericolo di spaccare il partito. Secondo la rivista Arbetet la disintegrazione del partito liberale è appena iniziata; non appena l’estrema destra inizierà a fare richieste, i Liberali si squaglieranno «come un troll sotto il sole».
Una parte dell’elettorato liberale (i pensionati benestanti con la passione per l’arte contemporanea, le madri laureate delle grandi città attente a temi come la salute e la scuola) è profondamente ostile ai Democratici svedesi, alla loro demagogia virulenta, al loro passato. Ancora, al Parlamento europeo i Democratici svedesi sono parte del Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti, con gli ultranazionalisti polacchi del PiS, gli spagnoli di Vox (e i nostri Fratelli d’Italia): un boccone difficile da digerire per non pochi elettori.
In Svezia circolano voci di parlamentari liberali pronti a disobbedire ai diktat di partito pur di non avere in alcun modo a che fare con i Democratici svedesi. I colleghi di Renew Europe, il gruppo nel Parlamento europeo di cui i Liberali svedesi fanno parte (con macroniani, lo FDP tedesco, la sparuta pattuglia calendiano-renziana ecc.), hanno già dato segnali di forte nervosismo. Sui media svedesi si è parlato addirittura della presunta minaccia di espellere i Liberali svedesi dal gruppo.
La posizione di Johan Pehrson (leader dei Liberali dall’aprile 2022) è sofferta, e piuttosto ambigua. Dopo le elezioni, in un tweet, ha scritto che «il popolo svedese ha votato per il cambiamento, e per un cambio di potere borghese-liberale […]. Consentiremo a un maggior numero di persone di assumere il controllo delle proprie vite, di sentirsi al sicuro e di nutrire speranza verso il futuro». Il suo obiettivo, insomma, è andare al governo. Ma anche se (come ha precisato ai preoccupati colleghi di Renew Europe) i Democratici svedesi «con la loro agenda populista e nazionalista» costituiscono il principale avversario dei Liberali, prima delle elezioni ha anche dichiarato di non avere problemi a lavorare con l’estrema destra su politiche concrete (ad esempio il nucleare). È proprio questa l’essenza del parlamentarismo negativo svedese. Un partito non vota contro e in cambio negozia, impone diktat, strappa concessioni, pone paletti.
Non bisogna però sottovalutare le mire dei Democratici svedesi, e la determinazione del loro leader, il giovanile e iper-attivo Jimmie Åkesson. Prima delle elezioni lo ha dichiarato chiaro e tondo: «La nostra ambizione è essere parte del [prossimo] governo». Lo ha ripetuto anche il 19. Pure altri calibri da novanta del partito, come l’altrettanto giovanile Richard Jomshof, sono stati chiari a riguardo: con i Moderati e con gli altri partiti del blocco di destra ci si confronta anche su chi guiderà questo o quel ministero.
Vari commentatori sostengono poi che l’unico modo per Kristersson per rafforzare un governo altrimenti molto fragile è proprio far entrare nel governo i Democratici svedesi, e tentare di normalizzarli come hanno già fatto in Finlandia i partiti di centrodestra con l’euroscettico Partito dei finlandesi, oppure in Norvegia la Høyre (conservatori) con il populista Partito del progresso.
Alla fine Åkesson potrebbe però accontentarsi di sostenere il governo in cambio di riforme e iniziative condivise (sostegno al nucleare, una rimodulazione del welfare a favore dei soli svedesi, riduzione dei fondi a radio e TV pubbliche, giro di vite nelle politiche di accoglienza, più mezzi e poteri alla polizia ecc.) e del ruolo di talman per un suo uomo. Il pensiero che la più alta carica del riksdag possa andare all’estrema destra fa venire ai brividi ai Socialdemocratici; secondo loro indicare il nome del talman spetta al partito con più seggi in parlamento, cioè se stessi.
Inoltre nel medio periodo un “governo borghese” debole, in preda ai battibecchi tra Liberali, Moderati e Cristiano-Democratici, potrebbe fare il gioco di Åkesson: politico paziente ma spregiudicato, stando ancora una volta alla finestra avrebbe l’opportunità di sfruttare il protrarsi dell’instabilità politica per far passare un messaggio ben preciso: solo con i Democratici svedesi primo partito la Svezia potrà tornare ad avere un governo stabile e forte. Con molti sconcertati elettori, poco avvezzi all’instabilità politica, questo messaggio potrebbe funzionare.
Cover del post di analisi: particolare del riksdag, foto di Melker Dahlstrand.
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