Geopolitica

Italia: se gli altri ci somigliano, potremmo capire meglio cosa ci rende unici

25 Novembre 2017

Parag Khanna è un nome ormai arcinoto tra gli appassionati di geopolitica e ha visto negli ultimi tempi un costante aumento di popolarità anche presso il grande pubblico. Libri come “Connectography” o il più recente “La rinascita delle Città-Stato” (editi da Fazi Editore) sono diventati infatti testi di riferimento per chiunque si interroga su un contesto internazionale in cui l’imprevedibilità dei fatti (Brexit su tutti) e delle leadership sembra mettere a dura prova ogni consolidato paradigma interpretativo. Intervistato oggi dal quotidiano Milano Finanza in occasione dei sessant’anni dell’azienda italiana Saipem, il teorico indo-americano della globalizzazione delle connessioni (e dunque della valenza strategica delle infrastrutture che le rendono possibili) si lascia andare ad un giudizio sul nostro Paese che riporto qui:

Una volta si diceva: la geografia è un destino. L’Italia ne ha avuto uno benigno: ha un’ottima collocazione strategica, un ottimo clima e gode di un’incredibile biodiversità. Per me il Paese è in una situazione migliore di quello che si pensi, e ha tutte le possibilità di crescere di più

È una dichiarazione che, a parte le prime frasi, potremmo facilmente veder attribuita ad un ministro o ad un leader politico. E che con molta probabilità verrebbe tacciata subito di “eccessivo ottimismo”. O sospettata di un chiaro intento mistificatore di una realtà che vediamo invece contraddistinta da ineludibili inefficienze e criticità oramai sedimentate. Facciamo però un passo indietro e guardiamoci intorno: siamo davvero il “malato d’Europa” o l’Italietta da cartolina che ci ostiniamo a citare nei nostri discorsi sul presente e il futuro del Paese?

Se dovessimo fare un gioco segnalando, con simpatia e fair play, gli ostacoli nei quali si imbattono altri Stati potremmo restare positivamente sorpresi. È una ricognizione volutamente superficiale e il cui esito non deve essere in alcun modo considerato una scorciatoia contro “gufi” o detrattori professionali della Nazione, quanto un esercizio mentale per mettere in discussione un certo modo di analizzare le cose. Gli Stati Uniti stanno vivendo in questa fase un doloroso “momento della verità”, che obbliga le élite del Paese (a partire dai media e dalla classe politica) ad interrogarsi sulla capacità di intercettare i bisogni di un elettorato che non si accontenta più della vagheggiata Speranza verso cui tendere collettivamente. La fascinazione obamiana ha infatti ceduto il passo all’eloquio sgangherato di Donald Trump, legittimamente scelto da tutti coloro che si sono sentiti esclusi da una “foto di famiglia” che stentano a sentire propria e che è forse apparsa su misura solo per “gli altri”, ma non per loro. Il Regno Unito della Terza Via blariana e del conservatorismo meno arcigno di David Cameron è ora guidato da una leader azzoppata come Theresa May, che ha fallito la scommessa del ritorno anticipato alle urne e che deve spuntare le condizioni migliori per una “buona uscita” dall’Unione Europea che non è né semplice né indolore. La Spagna di Mariano Rajoy è riuscita a fatica a contenere la frattura innescata dal separatismo catalano, ma si trova comunque a dover sperimentare quotidianamente la navigazione a vista di fatto obbligatoria per un governo di minoranza. La Germania di Frau Merkel, che sembrava predestinata ad un quarto mandato con il sostegno di una composita coalizione (Liberali e Verdi), sta vivendo in queste settimane il dramma dello stallo dei negoziati, con una scelta obbligata tra una nuova consultazione elettorale e la riedizione della precedente Grosse Koalition. Anche nella vicina Austria i colloqui tra l’astro nascente del centrodestra Sebastian Kurz e la destra estrema degli eredi di Haider sembrano procedere in modo ordinato e senza strappi, anche se non è scontato che tutti gli elementi di attrito (a partire dal rapporto con l’Europa) vengano in qualche modo smussati. La Francia, sotto la guida “olimpica” di Emmanuel Macron, è un’isola felice in cui l’impopolarità derivante dalle riforme promesse non sembra aver ancora scalfito il mito del giovane leader europeista. L’Italia, da par suo, si avvicina invece inesorabilmente verso la prossima scadenza elettorale in primavera. Vista da alcuni come la svolta tanto attesa dopo una legislatura travagliata e segnata da tre cambi di Governo e da altri come un passaggio rischioso, che potrebbe assestare un duro colpo alla competitività e alla credibilità del Paese. Che fare da qui a marzo?

Le parole di Parag Khanna sono preziose perché ci riportano, almeno per un attimo, a pensare ai punti di forza dell’Italia, a prescindere dall’inquilino di Palazzo Chigi e dalla ripartizione dei seggi in Parlamento. Non è un’affermazione che puzza di antipolitica, ma una presa di coscienza forse utile per imparare a relativizzare i “mali della Nazione” su cui spesso sembriamo indugiare con una certa dose di compiacimento. La frustrazione seguita alla mancata scelta di Milano come prossima sede dell’Agenzia del Farmaco ha provocato, per esempio, una corsa tutto sommato inutile alla ridicolizzazione del dossier di candidatura, attaccato anche dal punto di vista della grafica e messo a confronto con le eleganti slide dei competitor olandesi. Quale utilità ha avuto questo dibattito? Sono molto più interessanti, in questa fase, le parole di chi ha giustamente sottolineato la capacità che Milano ha ormai acquisito di sapersi raccontare all’esterno e di creare un clima di collaborazione efficace tra istituzioni locali e nazionali, a prescindere dal colore politico. È questo il segnale più rilevante di cui possiamo fare tesoro dopo il fallimento, per sfortuna, della candidatura. Lo stesso si può dire dell’assetto istituzionale del nostro Paese, certamente complicato dalla persistenza del bicameralismo e da un meccanismo elettorale che ha buone probabilità di non consegnare una solida maggioranza a nessuna delle forze politiche in campo. Gli stalli drammatici vissuti in altri contesti nazionali (persino nel Regno Unito del maggioritario e nell’efficiente Germania della sfiducia costruttiva) dovrebbero in qualche modo consolarci e spingerci a guardare al futuro con un po’ meno fatalismo e più consapevolezza.

E ritorno, in conclusione, alle parole di Khanna: se i morsi della crisi economica e l’incertezza politica sono rischi condivisi da molti Paesi, cerchiamo di riportare alla luce gli elementi distintivi su cui si basa la nostra unicità. La posizione geografica, in un Mediterraneo in continua ebollizione e segnato dalla tragedia dell’immigrazione, è un atout che dovremmo reimparare a valorizzare, anche se è finita la fase della Guerra fredda e dei blocchi contrapposti. Sia che si parli di contributo alla stabilizzazione dell’area sia di apertura ad infrastrutture di carattere strategico (porti per la Nuova Via della Seta, gasdotti e altre opere che promuovono un’autentica Unione dell’Energia e una maggiore diversificazione), l’Italia ha un ruolo imprescindibile da giocare. Per non parlare della dinamicità dei suoi flussi di export (è di ieri la notizia, riportata dal Sole 24 Ore, dell’ennesimo balzo del Made in Italy nei mercati di Usa, Cina e Russia), della promozione dell’innovazione nell’industria e di un “soft power” (come sostenuto da Giuliano De Empoli in un recente volume edito da Marsilio e Civita) che va ben oltre la gastronomia e il turismo mordi e fuggi. Proprio in riferimento a quest’ultimo tema, è condivisibile la preoccupazione di Da Empoli per una risposta da parte delle istituzioni che tende ad essere quasi sempre tardiva, scoordinata e priva di progettualità, ma è innegabile che è anche l’opinione pubblica a dover fare uno sforzo di visione in più.

Se la gestione di un dossier internazionale viene passata sotto silenzio o analizzata in ottica provinciale di mera contabilità, se la conquista di una posizione in ambito europeo viene sottoposta ad una sistematica delegittimazione in base all’orientamento politico della figura in questione e se “incidenti di percorso” di portata limitata (come nel caso di EMA) vengono immediatamente centrifugati nel dibattito interno e additati come ennesima conferma dei vizi italici, facciamo male innanzitutto a noi stessi.

Se ci abituassimo, gradualmente, al fatto che assomigliamo un po’ di più agli altri, saremmo anche capaci di inquadrare con maggior realismo ciò che ci rende davvero unici.

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