Costume
Saluti da Marsala – Dove la borghesia prova a resistere
Nel miglior spirito de Gli Stati Generali, Paolo Manfredi ha colto il mio invito a viaggiare per l’Italia e l’ha fatto suo. Il suo viaggio seguirà rotte diverse e sue, perché ogni viaggio somiglia al suo ideatore. Ma cercherà le stesse trame, che Paolo peraltro indaga già da anni in varia forma. Cercherà l’Italia che non si arrende al diventare periferia del mondo, e la provincia che produce ma è dimenticata dalla politica. Racconterà le storie delle persone che riescono, e quelle che falliscono. Proverà a fare luce e a dare voce a chi non ne ha, se non – con grande sorpresa di tanti, se non malcelato disappunto – il giorno delle elezioni. Questo viaggio inizia da Marsala: buon viaggio a tutti, e grazie a Paolo per la compagnia che ci terrà!
Jacopo Tondelli, direttore de Gli Stati Generali
Marsala (TP) – 79.940 abitanti nel 2021 (nel 2011 erano 82.774).
“Il Marsala è morto”, ma Marsala sta abbastanza bene. All’estrema punta della Sicilia, incorniciata da una campagna generosa, ma anche dai luoghi di Matteo Messina Denaro, Marsala è un’isola tutto sommato felice di borghesia operosa, che pensa e fa. Qui il piatto tipico è il cus cus e si cerca di cucire assieme una comunità tra libri e palestre popolari.
Arrivo a Marsala un venerdì sera di inizio ottobre, dopo un viaggio un po’ turbolento da Fiumicino a Trapani Birgi su un aereo di una compagnia spagnola mai sentita, sarà che non volo da un po’ e che la pandemia ha riorganizzato pesantemente il settore. Una strada un po’ troppo stretta per essere una direttrice principale, che costeggia la campagna densa dell’unica città-territorio della Sicilia e passa per le saline e l’isola di Motia, mi porta verso il centro storico. A un certo punto, non li vedo ma so che ci sono, è la mia quarta volta a Marsala, passo vicino agli hangar di Pierluigi Nervi, splendide costruzioni brutaliste di quando Marsala era un avamposto militare e oggi addormentati giganti di un patrimonio immobiliare militare di cui non si sa bene cosa fare.
Sono a Marsala invitato non parlante alla quinta edizione di 38° Parallelo, che è un festival letterario unico per molte ragioni. È l’unico festival di saggistica in tutta la Sicilia occidentale e nasce non per scelta politica, ma per la passione di quattro esponenti della buona borghesia marsalese: Giuseppe Prode, organizzatore culturale, Roberto Messina, professionista, Salvatore Adamo, imprenditore, Ines D’Orazio, comunicatrice. Questo della borghesia non è un dato peregrino, ché a queste latitudini la borghesia può contribuire molto a fare e disfare le fortune di un territorio. Può estrarne le ultime gocce di valore e farle emigrare come i suoi figli alla Bocconi o a Londra, oppure dare il proprio contributo a creare una comunità più civile, solida, viva.
Ho conosciuto 38° Parallelo lo scorso anno, per avervi presentato il mio libro nel cortile del museo archeologico, un baglio davanti al Capo Lilibeo che guarda le Egadi. Una presentazione emozionante per numero di persone, qualità degli interventi, interesse e durata anche grazie a contributo di Fausto Carmelo Nigrelli, ex sindaco di Piazza Armerina e urbanista engagé, una delle menti che il festival è riuscito in questi anni a portare a Marsala, riempiendo sale, cantine, piazze e scuole. Sì, scuole, perché in una terra in cui la dispersione scolastica pesa e pesa molto, 38° Parallelo dedica un’attenzione rara ai ragazzi e alle scuole. Punture di spillo, forse, ma chiari tentativi, borghesi, di non gettare la spugna a partire dalla cultura, come testimoniano le tre biblioteche (due civiche una sociale), le tre librerie (una delle quali dedicata ai ragazzi), il cinema e i due teatri. Una dotazione che va ben al di là dell’offerta culturale della Provincia del Mezzogiorno (e non solo del Mezzogiorno) e che sottolinea la diversità positiva di questa città, il suo essere pienamente Sicilia ma con qualcosa in più, che parte dall’Inghilterra.
Quando l’11 maggio 1860 Garibaldi e i Mille sbarcano a Marsala per annettere la Sicilia al neonato Regno d’Italia, oltre alle navi dell’esercito borbonico vi trovano due navi da guerra della Royal Navy inglese a protezione degli interessi commerciali britannici nella zona. Già dalla fine del Settecento, John Woodhouse aveva cominciato a produrre e importare in Inghilterra il Marsala, evoluzione del perpetuo, vino dei contadini locali che usavano rabboccare le botti del vino degli anni precedenti con quello nuovo, facendolo di fatto durare per sempre, come un lievito madre liquido. Woodhouse ci aggiunse dell’alcool per fermare la fermentazione e lo lanciò in contrapposizione ai vini spagnoli e portoghesi presso il mercato della borghesia della Rivoluzione Industriale. Creò una delle prime industrie moderne del food, con tanto di mega cantine (che a Marsala si chiamano significativamente stabilimenti) posizionate di fronte al porto, che è ancora quello di Woodhouse, come lamenta Stefano Pellegrino, avvocato e deputato regionale.
Lo incontro in un caffè che si affaccia sul capo Lilibeo, siamo veramente a Finisterre, e mi spiega che le infrastrutture penalizzano l’agricoltura e il turismo, che esportare vino in Italia costa ancora troppo e per questo ci vorrebbe un porto moderno e anche il Ponte sullo Stretto. E anche pagare di più gli agricoltori che conferiscono le uve per il Marsala e gli altri vini delle grandi cantine. La più iconica è la Florio, famiglia calabrese di imprenditori geniali che arrivò a Marsala da Palermo e aprì un gigantesco stabilimento sul lungomare per fare vino (e una tonnara nella vicina Favignana), come racconta il romanzo “I leoni di Sicilia” di Stefania Auci. Coltivare la vigna per conferire oggi è un’attività quasi d’affezione per il poco che ci si ricava e Pellegrino mi dice che negli ultimi anni il 30% dei vignaioli ha ceduto il catastino (la “licenza” a coltivare uva da vino, che è contingentata) in favore di nuove produzioni in Veneto e in Trentino.
“Il Marsala è morto”, me lo ha detto senza dubbi Nino Barraco, contadino e produttore umanista (“per fare il vino bisogna avere studiato scienze politiche o filosofia, è un mestiere per umanisti, la tecnica si acquisisce”) di vini naturali che assaggio sulla terrazza della sua cantina in mezzo alle vigne e con una vista stupefacente sulle Egadi. Barraco è allievo di Marco De Bartoli, vignaiolo figlio di industriali e banchieri (la borghesia che ritorna), che per primo mezzo secolo fa ridiede dignità al perpetuo, tornando a produrre e a commercializzare un vino con il metodo Soleras e influenzando più generazioni di innamorati dei vini naturali. Nino Barraco, figlio e nipote di contadini, è un nerd del vino, che ha cominciato a fare vino come Steve Jobs e Bill Gates a produrre software, nel garage di casa. Come tutti i naturalisti è sanamente integralista e racconta orgoglioso di cosa vuol dire coltivare la vigna senza diserbanti (tocca zappare e “la zappa ti toglie il sorriso”), di come il clima che cambia qui vuol dire che piove sempre poco ma monsonico, della bellezza della pianta dell’origano e di come si sia messo a produrre pasta perché bisogna mangiare cose più sane. Nino Barraco è un alchimista che continua a sperimentare tecniche naturali per vivificare e torna a coltivare vitigni dimenticati, ma è anche un produttore artigiano di grande successo, che racconta di clienti in tutto il mondo e sta partendo un po’ emozionato per la sua prima fiera del vino in Cina. Non so se il Marsala sia davvero morto, le pareti intonacate di fresco degli stabilimenti Florio davanti al mare direbbero il contrario, ma certamente in quest’isola in mezzo ai vigneti si respira un’aria di utopia possibile. Penso nuovamente che l’agricoltura sia un grande tema dimenticato dallo sviluppo del nostro Paese e che le conseguenze politiche di quello che mettiamo nel piatto e nel bicchiere siano ancora troppo poco considerate.
Due giorni prima del mio arrivo a Campobello di Mazara un incendio ha completamente distrutto una baraccopoli di ragazzi africani, arrivati per la raccolta delle olive Nocellara del Belice, che danno un olio con un delizioso profumo di carciofo, ma pagato troppo poco (mentre niente sono pagati i migranti che lo raccolgono). Un ragazzo, Omar, è morto e oltre 300 persone che vivevano nell’ex cementificio bruciato per una stupidaggine fatta con una stufa a petrolio hanno perso ogni cosa. Me lo racconta Salvatore Inguì, Direttore dell’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni del Ministero della Giustizia di Palermo e referente provinciale di Libera a Trapani. Salvatore è quanto di più distante si possa immaginare, innanzitutto fisicamente, da un burocrate pubblico. È un orso con gli occhi sorridenti e la zazzera bianca, che non sta mai fermo mentre dirige la raccolta di cibo e indumenti che il giorno dopo porteranno ai ragazzi rimasti senza nulla per l’incendio, mentre saluta la teoria di cittadini che porta coperte, vestiti, una spesa.
Siamo a Sappùsi, 3.000 abitanti, uno dei tre quartieri socialmente più complicati di Marsala. Qui, nei locali del Comune in quella che sembra una brutta chiesa di periferia, Salvatore che messo la sede distaccata dell’Ufficio per i Minorenni (quella principale è al Malaspina di Palermo, il Minorile di “Meri per sempre”, ma non è un film) e soprattutto ha costruito un centro sociale di quelli che ti dicono che c’è speranza. Ci suona una banda di gente, disabili, ex tossicodipendenti, immigrati che non sa suonare, c’è una palestra molto bella di macchine che si è fatto donare (penso sia molto difficile dire no a una persona così entusiasta), il doposcuola per i bambini del quartiere, tante famiglie in difficoltà, qualche genitore in carcere e la DAD che qui ha significato per molti non andarci più a scuola, nemmeno virtualmente. Lo circondano altri volontari, alcuni che stanno “restituendo alla società” quel qualcosa che hanno tolto in vite precedenti non sempre in linea retta. Attorno c’è il quartiere, qualche telecamera che controlla il passaggio, ma anche la signora Maria che a ottant’anni ha piantato i fiori nello spartitraffico dove scaricavano l’immondizia e che oggi è effettivamente tutto verde e pulitissimo. Nel campetto da basket, di fronte al murales un po’ storto che i bambini hanno dedicato ai poliziotti morti nella scorta a Falcone, entrano due nanetti su una minimoto, grinta e tanto gas lui, un po’ di paura lei, che gli sta abbracciata forte. Salvatore li guarda, li saluta, fa finta di dirgli qualcosa e gli sorride mentre fanno il giro del cortile e riescono per strada. C’è voluto tempo, mi spiega, per vincere la diffidenza del quartiere, ma oggi questo centro è un presidio di legalità e di comunità, come la squadra di rugby I Fenici, che cerca di animare il quartiere più difficile, via Istria.
Chiusa tra due città problematiche come Trapani e Mazara del Vallo, Marsala è davvero un’isola più felice. La mafia, mi spiega Salvatore, c’è ma è più sottotraccia, massonica e di colletti bianchi, mentre la pandemia ha allargato il solco tra molto ricchi e molto poveri e ha fatto chiudere molte attività commerciali anche nelle vie del centro. Lo vedo girando la sera per le stradine bianche, pulite come a Roma se lo sognano da anni. La temperatura estiva a inizio ottobre invoglia a stare fuori e le strade sono piene, di marsalesi e anche di turisti, che parlano un po’ tutte le lingue.
Mi sorprendo a cercare qualche magagna seria di cui scrivere, ma alla fine capisco che forse qui gli inglesi hanno piantato un seme che è cresciuto bene. Una borghesia che pensa e un’attitudine diffusa all’impresa, insieme a una classe operaia e contadina che stava meno peggio che altrove in Sicilia, hanno costruito un ecosistema magari non perfetto, ma certamente molto interessante.
Penso anche che la politica c’entra poco, e forse a queste latitudini è un bene. Marsala viene da una tradizione socialista, ma ha votato di tutto. La scorsa amministrazione era di centrosinistra, e dall’anno scorso c’è un Sindaco di centrodestra, mentre alle Politiche del 2013 e del 2018 avevano stravinto i 5 Stelle. Cambiamenti costanti, da elettorato sempre un po’ scontento e non fidelizzato, segno dei tempi e anche segno che qui, dove le vigne e gli stabilimenti del vino hanno impedito gli sconci dell’industria di Stato, le cose vanno, bene o male, al di là di chi sta nei palazzi e di quello che può fare.
Con buona pace di Salvini e dei suoi amici, uno dei piatti più tipici di Marsala e di tutta la zona è il cuscusu trapanese di pesce, che altro non è che una versione di quel cous cous, che gli arabi hanno lasciato andandose, come quasi tutta la pasticceria siciliana di cui il Capitano ama strafogarsi su Instagram quando passa nell’Isola per dire che gli africani devono stare a casa loro. La Tunisia è a meno di duecento chilometri da Marsala in linea d’aria, la luce, il vento e le palme sono una continua suggestione d’Africa e se mi affaccio dal mio bed and breakfast nel centro vedo i tetti squadrati e imbiancati a calce e mi aspetto di sentire la voce del muezzin. Come tutti i luoghi di frontiera, fisica o liquida, a Marsala perdi l’idea della demarcazione rigida tra noi e loro, tra tuo e mio, ed è un perdersi salutare.
Rivedo Salvatore appena prima di partire nell’auditorium all’aperto dell’oratorio dei Salesiani. È pieno di persone di tutti i tipi e di tutte le provenienze che ascoltano sul palco l’Imam di Mazara del vallo e il Parroco di Don Bosco ricordare il naufragio di Lampedusa avvenuto 8 anni prima e i suoi 20 morti. Mi dice che la consegna del cibo e dei vestiti ai ragazzi di Campobello è andata molto bene. Vorrei abbracciarlo e dirgli grazie per tutto quello che fai anche per noi, ma magari non sta bene e mi limito a pensarlo.
Riparto verso l’aeroporto, con uno splendido tramonto che mi saluta e un traballante volo spagnolo per Roma che mi aspetta.
Penso che ogni volta che vengo a Marsala sono felice, che mi piace da lombardo questa operosità borghese e una sicilianità piena e barocca ma meno zuccherosa e più discreta che altrove. Soprattutto, mi piace questa idea di provarci sempre che mi hanno trasmesso tutte le persone che ho incontrato. Che se ci provi a volte ci riesci.
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