Geopolitica
Saluti da Fabriano – Provare a reinventarsi dopo il funerale della lavatrice
Fabriano (AN) – 29.882 abitanti (nel 2011 erano 31.020)
La città che ha abbattuto le porte par fare passare camion che ora non passano più prova a ripartire. Fabriano della carta, dei Merloni e dei metalmezzadri si è scoperta tutto a un tratto fragile e impoverita. Il paternalismo padronale che l’aveva retta per mezzo secolo ha lasciato il posto alle regole spietate delle multinazionali globali. Tra nuovi padri assenti, immigrati andati via e amministrazioni volenterose si cerca un nuovo equilibrio. Che ce la facciano riguarda anche noi.
Arrivo a Fabriano un venerdì mattina pienamente autunnale, con un Regionale Veloce piuttosto vuoto che copre i 240 chilometri da Roma in tre ore, lo stesso tempo con cui si arriva da Roma a Milano.
Sta per piovere, il cielo cupo rende ancora più evidenti le montagne che ci circondano non appena il treno lascia gli spazi aperti dell’Umbria per girare verso est. Montagne verdissime, irte e spopolate, che danno plasticamente il senso della presenza e della complessità degli Appennini, “l’osso” del Paese.
Fabriano è annunciata a chi arriva dai primi capannoni (qui “cappannoni”, con due p) industriali, piazzati appena le gole appenniniche concedono un attimo di apertura. Non potrebbe essere altrimenti, ché qui a Fabriano la cultura del lavoro e dell’industria è stata ed è sacra, chiave identitaria, elemento ordinatore della società, fonte di benessere, prima, fonte di crisi economica, identitaria e sociale oggi.
A Fabriano le uscite della Statale 76, che la collega all’Umbria e al mare, sono svincoli diretti alle fabbriche, e persino le quattro porte medievali della città, che danno il nome alle contrade del suo Palio il 24 di giugno, sono state abbattute per permettere ai camion delle fabbriche del bianco di circolare più liberamente.
Oggi oltre alle porte non ci sono più i camion, e non c’è più il lavoro.
Me ne accorgo, e me lo confermeranno poi, da un dato molto empirico: Fabriano è la città in cui, nei due giorni in cui l’ho girata, ho visto in assoluto meno immigrati. C’erano, ma se ne sono andati quando se ne è andato il lavoro. Avanguardia di una emigrazione silenziosa che ha portato la città, che all’inizio degli anni ‘2000 veniva riprogettata per superare i 50.000 abitanti, a perdere il centro nascite e la pediatria, perché senza i figli degli immigrati nascono molti meno dei 500 bambini all’anno, necessari a giustificare il presidio.
Mentre scrivo, al Tavolo di Crisi del Ministero dello Sviluppo economico sindacati e amministratori locali sono alle prese con la crisi occupazionale di Elica, fu colosso delle cappe aspiranti e fu vanto di questa cittadina.
Elica ha annunciato nella scorsa primavera, “con una lettera recapitata agli operai a fabbrica chiusa per le festività di Pasqua” precisa Pierpaolo Pullini, Segretario della FIOM CGIL di Fabriano, una ristrutturazione sanguinosa. Il piano strategico, oggi sospeso per le fortissime proteste dei lavoratori, degli amministratori locali e di tutta la città e oggetto di una durissima trattativa, prevedeva il licenziamento di 409 operai su 560, la chiusura di un impianto produttivo e il drastico ridimensionamento di un altro. Oltre un milione di pezzi l’anno avrebbero lasciato le Marche per essere prodotti negli stabilimenti polacchi del Gruppo, dove il lavoro costa meno e si possono fare margini, che al gruppo dell’ex Senatore ed ex Presidente di Assindustria Ancona Francesco Casoli mancano da troppi anni.
Io Francesco Casoli l’ho conosciuto molti anni fa, nel mio primo lavoro, che consisteva più o meno nello spiegare Internet e le sue opportunità a una sorta di Club dei Miliardari come quello di Zio Paperone, che riuniva il gotha dell’imprenditoria italiana. Tra quei signori canuti Francesco Casoli spiccava, più giovane e più alto, con i gessati vistosi, era un imprenditore quarantenne sveglissimo e super aggressivo, ma al tempo stesso un uomo della sua terra, che cominciava ogni presentazione con la foto del padre Ermanno, fondatore dell’azienda, con una cappa nel cortile di una villetta di mattoni a vista e si commoveva parlando dei suoi operai come se fossero una famiglia (ricordo che ne fece anche un calendario). Francesco Casoli studiava da padrone-padre secondo una tradizione che qui a Fabriano ha avuto illustri e potentissimi progenitori, la Famiglia Merloni.
Aristide Merloni e soprattutto i figli Antonio, Francesco e Vittorio sono stati, tra industria e politica, Signori di Fabriano per più di sessant’anni. Come le famiglie rinascimentali, la famiglia Merloni ha esercitato il suo potere tra Fabriano e Roma, tra fabbriche di elettrodomestici e incarichi politici, dividendolo tra i figli maschi del fondatore, l’operaio democristiano Aristide, che tornato da Torino alla sua città natale apre una fabbrica di bilance per evitare che i suoi concittadini dovessero emigrare al Nord.
Il primogenito Francesco, oltre a ereditare dal padre lo scranno senatoriale, è stato parlamentare e Ministro dei lavori pubblici, l’ultimogenito Vittorio è stato Presidente di Confindustria (e padre di Maria Paola, deputata e senatrice anch’essa). Ma è il terzogenito Antonio che ha lasciato l’impronta più profonda qui a Fabriano, di cui è stato Sindaco dal 1980 al 1995, per 15 anni, i migliori.
Mi spiega Simona Lupini, psicoterapeuta, già assessore ai servizi sociali e oggi consigliera regionale, che l’epoca di Antonio Merloni sindaco è concisa con il trionfo di quelli che il sociologo veneto Ulderico Bernardi ha definito “metalmezzadri”, operai figli di contadini che di giorno lavoravano in fabbrica, staccavano alle quattro del pomeriggio e tornavano a lavorare la terra di famiglia. La fabbrica modulava i turni di lavoro sulle fasi della vita dei campi e segnava le fasi di una vita felice da classe media di provincia: casa, matrimonio, seconda casa, auto solo nuove, vacanze sulla costa e settimana bianca. Non c’erano nella Fabriano di Merloni locali notturni, perché avrebbero distolto i lavoratori dalle loro occupazioni, solo qualche ristorante la domenica, e i caffè in piazza, divisi per censo dei frequentatori, come le sezioni del Liceo Classico.
Oggi tutto questo è finito.
Capire come sta Fabriano oggi, e come stanno le centinaia di Fabriano in giro per la Provincia infinita e dolente del nostro Paese, è possibile solo se ci si spoglia dal pregiudizio che andando avanti le cose vanno sempre meglio, che crisi significa opportunità e che l’unica costante nella vita è il cambiamento. Ciarpame da LinkedIn. Chi ha perso la partita del cambiamento senza capire il perché, né avendo fatto nulla di male, solo perché le cose attorno a lui cambiano verso, soffre parecchio, si ammala e a volte ci muore. Io lo so, è successo a mio padre.
Qui, dice Simona Lupini, la crisi ha incrinato un equilibrio sociale fatto di “benessere sfacciato”. Oggi quel reddito di cittadinanza che qualcuno avrebbe voluto cancellare serve qui a mantenere in piedi famiglie che affollano l’area camper (non è turismo) perché è venuta meno la sicurezza del doppio reddito, cifra della classe media. Le fabbriche garantivano questo equilibrio, e chi non ci lavorava direttamente magari mettendo su un “cappannone” (oggi desolatamente in cerca di utilizzo) per fare i cablaggi, le scatole dei cavi da montare sugli elettrodomestici, materia base della produzione. Sono 4.000 secondo i sindacati i disoccupati a Fabriano. È vero che alcuni compensano mettendo a frutto le competenze manuali, ma sono tassi di disoccupazione che qui non si sono mai visti, e che pesano sulle tasche e sul cervello delle persone e delle comunità.
Il modello di capitalismo familiare a braccetto con la politica (che Repubblica celebrava nel 2007) e l’epoca d’oro di Fabriano vanno in crisi nel 2008, proprio a cominciare dalle aziende del sindaco-padre Antonio Merloni, già il più grande terzista di elettrodomestici d’Europa e leader mondiale nella produzione di bombole per GPL. Le aziende di Antonio Merloni finiscono in amministrazione straordinaria per un buco di 540 milioni. Qui, mi dicono, tutti sapevano dei magazzini pieni di lavatrici invendute e dello sdegnoso rifiuto della proposta di acquisizione in extremis da parte dei cinesi di Haier, iattanza di quando si stava bene, diventata all’improvviso del tutto fuori luogo. Da lì è stato tutto un susseguirsi di tentativi di salvataggio, cambi di nome (JP industries, Indelfab), fallimenti e aiuti governativi per allungare il brodo, senza successo. È di pochi giorni fa la notizia, accolta con il sollievo della disperazione, della proroga della cassa integrazione per 513 lavoratori, pezzi di quella classe media che stava meglio prima, fino a maggio del 2022.
Certo, mi dicono i rappresentanti dei lavoratori, sono stati commessi errori, peccati di superbia e, cosa imperdonabile per un genitore o per chi ambiva a diventarlo, sono state dette parole che a distanza di qualche mese sembrano chiaramente menzognere o frutto di confusione. Mi fanno ascoltare il discorso che il patron di Elica, che la voce popolare vuole da mesi in giro per il mondo in barca, ha pronunciato lo scorso Natale ai suoi dipendenti, annunciando che si era fuori da un periodo difficile e che ci sarebbero stati altri 50 anni di Elica, concetto ribadito a gennaio e smentito a marzo dal piano di ristrutturazione. Certo, ci sono realtà nate dalla divisione dell’impero Merloni, o altre che hanno investito sulle competenze locali nella produzione di cappe ed elettrodomestici che continuano a funzionare, e vanno anche bene. È evidente però che qui si respira la fine di un’epoca e tutta l’incertezza per i contenuti di quella futura, che difficilmente sarà lineare come la precedente.
È un discorso che vale per Fabriano, ma vale in generale per la regione che la contiene, le Marche.
Io sono profondamente legato a questa terra e alle sue persone, fra le più laboriose e accoglienti che abbia mai conosciuto, ma a volte ho la sensazione che alle Marche la modernità non riesca a rimanere attaccata, che stiano ancora in mezzo al guado tra un prima fatto di un allegro caos dove bastava avere voglia di lavorare per farcela e un adesso in cui tutto è troppo meccanico, veloce, lontano.
Lo capisci dall’architettura, divisa tra la meraviglia dei centri storici in mattoni rosa e l’approssimazione della graniglia e dell’alluminio anodizzato, segni precoci di un benessere allo stato nascente che si è cristallizzato e oggi sembra antichissimo.
Lo capisci dall’economia, con la transizione incompiuta dal terzismo garibaldino dell’impresa in ogni scantinato, che ha prodotto benessere diffuso e fior di rustici capitani d’industria, oggi ottuagenari e senza ricambio, all’economia digitale che vuole brand e competenze e se non li trova se ne va altrove.
Lo capisci anche da certo dibattito pubblico, diviso tra una minoranza che cerca di tenere in piedi o ricostruire un’idea di società fatta di artigianato, territorio e comunità diffuse e un’élite sgangheratamente modernista, che parla di start-up e di un improvvido “spopolamento controllato”, equivalente su scala locale di pretendere di regolare il cambiamento climatico con il telecomando del condizionatore.
Le Marche non hanno la velocità dell’Emilia-Romagna, né la lentezza dell’Abruzzo, non hanno lo snobismo di certa Toscana, né la follia vitalistica del Veneto. Sono depositarie di secoli di bello e hanno tantissima voglia di lavorare, ma soffrono la marginalizzazione violenta che la contemporaneità ha inflitto ai loro borghi, agli imprenditori, alle tradizioni e non sanno cosa fare per venirne fuori. Non come singoli, perché la voglia e la creatività abbondano, ma come comunità che cerca un modo di andare avanti senza perdersi del tutto. Servirebbe qualcosa, uno scatto di reni che unisse quelle scintille e ne facesse un’idea di sviluppo condivisa e soprattutto rispettosa del molto che c’è, cucendo insieme l’artigianato, la cura del territorio (che con i cambiamenti climatici riguarda anche chi sta a Milano), il piacere di una vita più lenta e remota con la tecnologia, la competitività, la modernità. È molto difficile, ma non impossibile, e la ricostruzione post terremoto e post pandemia può essere un’occasione per provarci.
Cosa fare è il cruccio di Barbara Pagnoncelli, ingegnera e assessore, che a Fabriano ha tutte le deleghe economiche più calde e che organizza il festival “Remake – Salone dell’Artigianato e dell’Industria e Festival delle Arti e dei Mestieri nell’era digitale”, la ragione per cui mi trovo qui, invitato a ragionare sul rapporto tra artigianato e centri storici. Torno a Fabriano a meno di tre mesi da un evento analogo, “Zona Conce” sul fare arte e artigianato come elemento di rigenerazione urbana, segno che il tema è straordinariamente urgente e sentito, innanzitutto da questa giovane amministrazione 5 Stelle al primo mandato.
Sono da sempre scettico sul Movimento 5 Stelle e sui suoi rappresentanti, ma visti da qui, in una dimensione tutta civica e lontana dalle pressioni romane, che ne hanno impietosamente fatto emergere l’inadeguatezza, il giudizio non può che essere più articolato e benevolo. Qui, dove il potere economico e il potere politico sono state due facce della stessa medaglia indossata dalle stesse persone e dove la DC si è riversata per l’arco costituzionale, soprattutto nel centrosinistra Ulivo-PD, governando senza interruzioni da sempre, eleggere Sindaco un’ex guida delle vicine grotte di Frasassi e non organico a nessuna dinastia industriale deve essere stato un bel gesto rivoluzionario.
Senza bacchetta magica, si può solo provare forte a remare controcorrente e ad accendere piccole fiammelle che rivitalizzino un corpo esausto da troppe brutte notizie, incluso il ridimensionamento delle cartiere.
“Fabriano” per me e per moltissimi studenti è stato innanzitutto un nome stampigliato in nero e azzurro a caratteri squadrati sui fogli da disegno che usavamo alle medie e poi una linea di prodotti in vendita nelle boutique dello stesso marchio (che a Fabriano non c’è). A Fabriano si fa carta dal 1264 e nel 1782 nascono le Cartiere Miliani Fabriano, che oggi conosciamo come la carta Fabriano, anche se a Fabriano è rimasto sempre meno. Le cartiere, dal 1946 al 2002 di proprietà del Poligrafico dello Stato, erano un fattore di prestigio e un altro pezzo di città felice della classe media. Le cartiere lavoravano a ciclo continuo, compreso la notte, per stampare ogni tipo di carta, incluso quella filigranata per le banconote e suoi operai erano un’aristocrazia benissimo pagata e molto competente. Poi erompe la contemporaneità, nella forma della solita giostra di fusioni, vendite, razionalizzazioni, spostamenti della produzione e del lavoro dove conviene di più, è più razionale, fa fare più soldi. Nel 2002 le cartiere vengono privatizzate e vanno al Gruppo Fedrigoni, colosso del settore con sede principale a Verona, che nel 2017 passa a Bain Capital, non un’organizzazione filantropica. Nell’aprile del 2019 se ne va il pezzo più prezioso: la produzione di carta da banconote viene ceduta a un gruppo inglese che la sposta in Lombardia, lasciando fermi (in organico ma privi di mansione) 70 operai di quella aristocrazia di cui sopra. A questo punto non pensereste anche voi che si stava meglio prima?
Oggi della città della carta, dal 2013 Città Creativa dell’UNESCO, rimangono due bellissimi musei, due negozi e pochissimi artigiani. L’unico ad avere appena aperto una bottega in centro è Sandro Tiberi, maestro cartaio già dipendente della cartiera, che crea fogli e filigrane a mano prevalentemente per artisti e designer. La cartiera, mi spiega, sta dirottando sui prodotti industriali di alta gamma, la carta per gli artisti, ma è un mercato saturo, oppure taglia e confeziona le risme di A4 prodotti altrove, con margini risicatissimi. Soprattutto, mi dice Tiberi, nell’onnicomprensivo della formazione tecnica e professionale di Fabriano, il Miliani-Merloni, non si formano più tecnici cartari, ma generici operatori della comunicazione.
Poi ci sono per fortuna le buone notizie. Una di queste è Teodora Gavioli, HR manager fabrianese che ha studiato fuori e lavorato in giro per l’Italia con IKEA e approdata a Roma ha sentito nostalgia di casa. È tornata a Fabriano e ha vinto un bando per gestire una delle cose più interessanti che ha fatto l’amministrazione comunale, il coworking FHUB, ricavato all’ultimo piano delle vecchie concerie. È un bel posto l’FHUB, tranquillo e moderno ma con la vista sulle case del centro storico. Funziona come sede per i professionisti di fuori che gravitano attorno alle industrie del bianco che funzionano e per un piccolo gruppo di freelance e racconta di un’economia piccola, ma possibile e sana, nella quale il territorio e le cose che sa fare si scambiano idee e competenze con chi sta fuori. Altrimenti, mi dice Teodora che le multinazionali le conosce bene avendoci lavorato, si è in loro balìa e loro fanno quello che vogliono.
Anche Mattia Genovese e la sua associazione di ragazzi che hanno vinto un bando per risistemare un percorso di trekking urbano lungo il Giano sono una buona notizia, soprattutto perché a 26 anni non pensano che qui non ci sia più futuro.
Sono spigolature da cui ripartire, un po’ di agricoltura (a Fabriano c’è un salame buonissimo, fatto solo con il prosciutto come simbolo estremo di benessere e oggi presidio Slowfood), un po’ di turismo (la città è deliziosa), l’artigianato (che resta l’organizzazione della produzione e del lavoro più sostenibile per il sistema sociale del centro Italia e non solo) e ovviamente ancora l’industria, anche se ridotta allo stato laicale di componente fra le altre della produzione di valore, senza poteri taumaturgici.
Uno dei miei interlocutori mi dice che “Fabriano ripartirà quando avremo fatto il funerale alla lavatrice”. Ancora una volta dopo Marsala sento tirare in ballo la morte di un ordine sociale ed economico come “necessità naturale” per la rinascita di uno nuovo. A noi la morte e i funerali incutono terrore e cerchiamo in ogni modo di esorcizzarli, ma nelle metafore funeree c’è molto di vero.
L’Italia è piena di lutti, economici, sociali, culturali, da elaborare.
Siamo in mezzo al guado tra un ordine in cui si stava meglio ma che non regge più e un nuovo ordine cannibale che sembra sempre costruito a misura di altri luoghi, altre persone, altre culture. Le persone che ho visto qui sono probabilmente più dietro di altre nell’attraversare il guado, ma la loro salvezza sarà anche la nostra e prima lo capiremo meglio sarà.
Per questo, come cantava De André, “è appena giusto che la fortuna li aiuti”.
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