Geopolitica
Russia vs NATO. Scenari di una guerra possibile e qualche idea su come evitarla
A oltre due anni dallo scoppio della guerra in Ucraina il mondo si trova a dover nuovamente assistere ad una situazione di forte e prolungata tensione internazionale tra grandi potenze, il cui epicentro appare collocato, allo stato attuale, in Europa. Il nostro continente, a trentacinque anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino, torna ad essere dunque il principale scenario di una vera e propria nuova guerra fredda, secondo molti analisti, in quanto è presumibile che la contrapposizione tra USA e stati europei da una parte, e Russia, spalleggiata dalla Cina, dall’altra, non avrà una soluzione in tempi brevi. Di fronte ad ipotesi di stallo, o di tregua armata, o, peggio ancora, di un possibile sfondamento del fronte del Donbass da parte dell’esercito di Putin, nel quadro del conflitto in Ucraina, le conseguenza più probabili sarebbero il perdurare della reciproca ostilità tra quello che il presidente russo definisce Occidente collettivo e la Federazione Russa, aggravata da prevedibili impennate di retorica e minacce, soprattutto da parte di Mosca. Uno scenario per nulla rassicurante, al quale saremo nostro malgrado costretti ad abituarci, molto probabilmente. E’ in questo contesto, che ricalca in parte quello vissuto al tempo della cortina di ferro, pur senza quel plus di crociata retorica ideologica, che iniziano a farsi strada le ipotesi di scenari ancor più tragici, che vedono l’un contro l’altra armati, in maniera diretta e non più per interposta Ucraina, la NATO e la Russia. Dalle analisi dei think thank è un attimo arrivare ai titoli allarmistici dei media e alle dichiarazioni in merito da parte dei politici, ed ecco che in questi primi mesi del 2024 la distopia di un futuro prossimo in cui l’Europa diventa teatro di una guerra generale, con il rischio di escalation nucleare, ha invaso il dibattito pubblico. Le domande che si pongono riguardano ormai la tempistica con cui Mosca potrà essere in grado di attaccare i confini dell’Alleanza Atlantica e, naturalmente il nostro grado di prontezza a reagire ad un tale evento. Nel primo caso, il tempo a nostra disposizione per prepararci si riduce spaventosamente, per alcuni: da dieci a cinque, finanche a tre, due anni, o addirittura al 2025, secondo uno scioccante scenario di studio della Bundeswehr, diffuso dalla Bild, mentre al secondo quesito la risposta quasi mai è tra le più rassicuranti.
Ma, in caso accadesse l’imponderabile, ovvero se i carri armati di Mosca una mattina varcassero i confini a ovest, o se, più verosimilmente, la tensione salisse alle stelle, qual è lo stato dell’arte dei piani NATO per fronteggiare la minaccia? L’Alleanza Atlantica ha ridisegnato due anni fa il modello di dispiegamento delle proprie forze in caso di confronto militare sul fronte orientale, articolato ora su tre diversi scaglioni temporali di intervento. La forze di reazione rapida sono state elevate da 40 mila a 300 mila uomini, dei quali i primi 100 mila sarebbero schierati entro dieci giorni, mentre i restanti 200 mila entro trenta giorni. Tra i 30 e i 180 giorni successivi sarebbero poi schierati altri 500 mila soldati, portando quindi il totale alla cifra di 800 mila unità. I paesi Nato sono già impegnati dal 2014 nell’esercizio della deterrenza alle frontiere con Russia e Bielorussia, a garanzia dell’intangibilità dei confini di Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, con contingenti di alcune migliaia di soldati, che hanno visto impegnato anche il nostro esercito, in Lettonia. Dal 2022 tale impegno è stato poi esteso anche sui confini di Ungheria, Slovacchia, Romania e Bulgaria, sempre con gli scopi di assicurare una prima linea di immediata difesa, in attesa della mobilitazione del grosso delle truppe, ma soprattutto di dimostrare ai Russi la volontà di tutti gli aderenti all’Alleanza nel difendere l’integrità territoriale dei propri partner orientali, in particolare i baltici. Nei primi mesi dell’anno in corso, fino alla fine di maggio, è inoltre in corso l’importante esercitazione Steadfast Defender, che interessa un territorio dal Nord America ai confini orientali dell’Europa, e prevede l’utilizzo di 90 mila uomini di 30 diversi paesi, oltre a 50 navi, 80 aerei e più di 1.100 veicoli da combattimento. Come spiegato in un’intervista a Fanpage dal Generale Giorgio Battisti, ex comandante del Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO, anche lo scopo di Steadfast Defender è duplice: da un lato, si vuole segnalare a Mosca la capacità e la volontà dell’Alleanza di intervenire rapidamente e con forze ingenti a difesa dei propri confini, tranquillizzando al contempo i membri più esposti nell’eventualità di uno scenario di guerra, mentre dall’altro si devono testare le procedure e i meccanismi di coordinamento tra le forze armate dei diversi paesi e le relative strutture logistiche, al fine di essere il più possibile preparati in caso tale scenario si avverasse. Logico che l’area polacco-baltica sia quella più interessata dall’esercitazione e maggiormente impressa nei pensieri degli strateghi occidentali, in particolare con riferimento ai confini delle tre piccole repubbliche ex sovietiche, dove, soprattutto in Estonia, sono presenti anche minoranze di russofoni. Analoga e ancor maggiore preoccupazione interessa l’area conosciuta come Suvalki gap, al confine tra Polonia e Lituania, dove un’eventuale offensiva russa e bielorussa, congiungendo il territorio di Minsk a Kaliningrad, potrebbe in un sol colpo tagliar fuori i tre paesi baltici dal collegamento con il resto dell’Europa.
Al di là dei piani di intervento e degli scenari di guerra ipotizzati da think thank e stati maggiori nei loro training, uno dei principali temi di discussione è il grado di reale concretezza di un tale scenario, insieme all’identificazione di quali eventi possano arrivare a determinarlo e, naturalmente, alle strategie per minimizzarne i pericoli di materializzazione. E’ innegabile che la guerra in Ucraina rappresenti di per sé il primo fattore di rischio, poiché un allargamento del conflitto ad altri paesi NATO non può certo essere escluso, sebbene non sia chiaramente nell’interesse di nessuno dei contendenti, con l’eccezione di Kiev, e la volontà di russi e occidentali sia quella di scongiurarlo. Tuttavia, come ha ricordato a più riprese recentemente il presidente francese Emmanuel Macron, un’eventuale rotta delle forze ucraine, con una conseguente nuova offensiva russa lanciata a dilagare nel paese e, ancor più malauguratamente, indirizzata a minacciare la capitale, metterebbe i paesi NATO nella grave condizione di dover valutare il tipo di risposta da attuare. A Washington e nelle capitali europee si sarebbe in tal caso costretti a scegliere tra la rassegnazione alla sconfitta di Kiev, con la conseguente prova di debolezza da parte occidentale e lo speculare incoraggiamento di una probabile ulteriore assertività di Mosca, e la messa in atto di una nuova strategia finalizzata a tracciare delle linee rosse, che Putin dovrebbe astenersi dal superare. Naturalmente, una strategia rispondente a questa seconda tipologia comporterebbe una qualche minaccia di ritorsione, in caso di rifiuto dell’esercito russo a fermarsi, la quale non potrebbe essere ormai diversa da una forma di intervento militare diretto nel teatro di guerra. E’ evidente come la strategia di dissuasione, per dimostrarsi efficace, debba essere fondata su una minaccia di rappresaglia credibile, per cui la sua probabilità di successo risulterebbe direttamente proporzionale al grado di fiducia che i leader occidentali saprebbero infondere rispetto alla capacità e alla volontà di metterla in atto. Sarebbe indubbiamente una mossa pericolosa, in quanto, se la credibilità della minaccia non fosse tale da convincere i russi ad astenersi dall’andare a vedere il bluff, chi l’avesse pronunciata dovrebbe conseguentemente attuarla, pena la totale perdita di credibilità e reputazione. Allo stato attuale, gli stati dell’Alleanza Atlantica non sembrano particolarmente coesi e risoluti in merito all’eventualità di partecipare direttamente alla guerra, come si è potuto verificare dalle ansiose e preoccupate reazioni di molti partner ai timidi tentativi di esercizio di deterrenza da parte di Macron. Soprattutto, quel che più è importante, è l’atteggiamento dell’unica grande potenza all’interno della NATO, gli USA, che, per bocca del presidente Joe Biden, non sembrano affatto propensi a impegnarsi direttamente in maniera esplicita. Senza impegno americano e in mancanza di coesione a livello europeo, il rischio di una debacle diplomatica sarebbe quindi alto, ma ancor più pericoloso sarebbe uno scenario in cui qualche stato europeo si senta in dovere di inviare i propri uomini in armi al fronte e poi non sia in grado di gestire il confronto militare, con l’ulteriore rischio di trascinare nel conflitto gli alleati.
Detto che, molto difficilmente, con il perdurare del conflitto in Ucraina e senza una chiara e netta rottura del fronte a favore dell’esercito russo, Putin sarebbe in grado di programmare azioni offensive contro i confini della Nato, un altro possibile scenario da analizzare è quello consistente in uno stallo nelle operazioni militari nel Donbass, oppure in una tregua armata, o armistizio, che presuppongano il termine dei combattimenti, ma non pongano fine allo stato di tensione in Europa Orientale. Analogamente, la tensione salirebbe ancor più in caso di pace imposta a Zelenskj da una Russia vittoriosa sul piano militare. Sono queste forse le prospettive più probabili con cui europei e americani si dovranno confrontare nel prossimo futuro, coerenti con lo scenario da nuova guerra fredda, già enunciato all’inizio. In un tal contesto la contrapposizione sarebbe costante e prolungata, con probabili periodiche esplosioni di aggressività retorica, non senza qualche gesto dimostrativo da parte russa, e corrispondenti allarmi e tentativi di attuare deterrenza, soprattutto da parte dei paesi dell’Europa orientale e di quegli stati, come Francia, Regno Unito, e naturalmente Stati Uniti, più abituati e attrezzati all’esercizio bellico. Secondo diversi analisti, la strategia di Putin non sarebbe in questo caso improntata a realizzare un’offensiva militare in grande stile contro la Nato, per la quale la Russia risulterebbe ben lontana dall’essere in grado di porre in atto. La pessima prova presentata dall’esercito di Mosca in Ucraina, in particolar modo nei primi mesi dell’invasione, non fa infatti pensare che nel giro di poco tempo esso sia capace di intraprendere una guerra di ampie dimensioni contro l’Alleanza Atlantica. Ancora oggi, pur in presenza di importanti progressi nell’offensiva in Donbass, l’ex Armata Rossa, fatica a prendere il controllo di una cittadina come Chasiv Yar e per quasi due anni non è riuscita ad imbastire alcuna avanzata con un minimo grado di manovra, contro forze armate di una nazione notevolmente inferiore per popolazione, economia, risorse, esperienza e capacità militare. Al Cremlino, molto probabilmente, nel caso venisse decisa una postura aggressiva verso i paesi NATO, opterebbero per una strategia di singoli ma ripetuti atti ostili verso alcuni stati considerati più deboli ed esposti, come ad esempio i tre paesi baltici, alternando provocazioni, minacce, propaganda destabilizzante, anche con l’utilizzo di quinte colonne interne ad essi, insieme ad azioni di cyber war e, nel peggiore dei casi, a limitati e brevi interventi militari veri e propri. La condotta di Mosca si baserebbe pertanto sulla capacità di gestire e controllare una continua ma circoscritta escalation su più livelli. Come ha scritto in un lungo thread su X Fabian Hoffmann, ricercatore per l’Oslo Nuclear Project “l’obiettivo primario della Russia in una guerra con la NATO sarebbe gestire efficacemente l’escalation e porre fine anticipatamente alla guerra a condizioni favorevoli alla Russia stessa”. Putin cercherebbe in tal modo di spaventare e dividere governi e opinioni pubbliche europee, minacciandoli di gravi distruzioni nel caso essi si ostinassero a prendere le armi per difendere i loro partner orientali eventualmente aggrediti. Al contempo, sempre nel pensiero di Hoffmann, punterebbe a portare a termine l’eventuale azione militare in brevissimo tempo, in modo da presentare il fatto compiuto e da evitare il confronto diretto con l’imponente capacità convenzionale della NATO, soprattutto degli USA, la quale avrebbe bisogno di tempo per mobilitarsi. Il risultato auspicato da Mosca sarebbe una rapida cessazione delle ostilità e l’apertura di trattative finalizzate a ripristinare, col tempo, una situazione di relativa pace, ma alle proprie condizioni.
Di fronte a questo tipo di scenario, e come non di rado accade nelle relazioni internazionali e nelle crisi militari, risulta decisivo non tanto e non solo il confronto delle relative forze militari ed economiche, ma il grado di decisione e di risolutezza degli attori in campo. La storia di questi due anni abbondanti di guerra in Ucraina segnala come gli europei si stiano dimostrando sensibilmente vulnerabili alle minacce e alla propaganda ostile della Russia. Tale dimostrazione di debolezza è riscontrabile a tutti i livelli, in misura più o meno elevata, all’interno dei governi, come nelle opinioni pubbliche e nei sistemi mediatico-culturali, ed è diffusa soprattutto nei paesi occidentali dell’UE, con l’eccezione forse della Francia. Le continue e reiterate timidezze in relazione alla fornitura di mezzi militari a Kiev, le frequenti paure riguardo a possibili escalation militari ad ogni dichiarazione minacciosa dell’ex presidente Dmitrij Medvedev e il coro di disapprovazione, giunto a livelli imbarazzanti nel caso di alcuni esponenti del governo italiano, gridato in risposta alle già citate dichiarazioni di Macron delle scorse settimane, contribuiscono di fatto a incoraggiare la postura aggressiva di Mosca. Con alta probabilità i vertici della Federazione Russa sarebbero infatti ragionevolmente certi di poter contare su un atteggiamento simile anche in caso di crisi militari ai confini della NATO, a patto che queste non evolvano in guerra aperta. Dalla Piazza Rossa, non di meno, i vertici russi farebbero di conto anche di poter sfruttare a proprio vantaggio l’attività di partiti e movimenti politici che, per vari motivi, non hanno mai ripudiato la vicinanza a Mosca tenuta in passato, e che, anche in combinazione con i gruppi pacifisti, produrrebbero l’effetto di minare la fermezza e la risolutezza, già di per sé non elevata, dei propri governi. Anche il ruolo e la condotta degli USA sarebbero naturalmente determinanti, nella gestione di un’ipotetica crisi bellica. Washington è l’unica capitale dotata della forza militare necessaria, sia di tipo convenzionale che nucleare, a fronteggiare un’eventuale minaccia russa, ed è, di fatto, la superpotenza protettrice dell’Europa. L’interrogativo su quale sarebbe il suo comportamento, nel caso fosse chiamata a passare ai fatti, si pone inevitabilmente, anche alla luce delle tensioni interne e delle insicurezze che corrodono la società americana. L’amministrazione Biden non ha mai fatto mancare il suo impegno nel sostegno all’Ucraina, né nell’assicurazione alla difesa dell’Europa in un’eventuale guerra, ma le sue affermazioni perentorie riguardo l’assoluta contrarietà ad immaginare un possibile coinvolgimento di soldati americani nel conflitto in corso, indipendentemente dal tipo di scenario, come anche la sua dichiarata ed esplicita volontà di non intervenire in alcun modo, nell’imminenza dell’invasione del febbraio 2022, non fanno trasparire una grande disponibilità a combattere. La conflittualità della scena politica di Washington non lascia poi molte certezze sulla durata e sull’entità del sostegno a Kiev e all’Europa, condizionato anche dalle manovre della maggioranza repubblicana in Congresso, in buona parte nelle mani di Donald Trump, come si è visto in occasione dell’estenuante confronto parlamentare in merito agli aiuti militari all’Ucraina. La previsione di un possibile esito a lui favorevole nelle elezioni di novembre fa infine emergere un grande punto interrogativo sulla volontà futura degli USA di confermarsi il baluardo delle democrazie contro l’assertività russa in Europa, considerando che, anche le sole provocazioni verbali non amichevoli verso i partner europei, alle quali il magnate newyorkese ci ha abituato in passato, nel contesto attuale sarebbero sufficienti a minare il rapporto di alleanza e a favorire Mosca.
L’erosione dell’egemonia globale americana è forse la tendenza geopolitica maggiormente significativa di questi ultimi due decenni, con la quale inevitabilmente i governi e i popoli europei dovranno confrontarsi, possibilmente con modalità più lungimiranti di quanto osservato fino ad ora. Più volte immaginata e auspicata da molte voci, più o meno inneggianti ora all’Europa potenza civile, ora al multilateralismo, ora invece al rapporto con l’emergente Cina, l’indebolimento della superpotenza americana è ben lungi dall’essere una buona notizia per noi, italiani ed europei, come aveva modo di scrivere già lo scorso anno Lucio Caracciolo, su Limes. In presenza di una minor capacità dell’egemone a stelle e strisce nel garantire l’ordine globale e difendere i propri alleati, inevitabilmente crescono i focolai di tensione e conflitto, con i potenziali attori ostili al numero uno incoraggiati a sfidarlo e a saggiarne la volontà di reazione. Non stupisce che uno di questi teatri di sfida per Washington sia l’Europa Orientale (in senso ampio), dove Putin aveva da tempo indirizzato le sue mire di restaurazione della potenza russa che fu. L’Europa oggi si sta finalmente rendendo consapevole di questo nuovo scenario geopolitico, ma sempre lentamente e con non poche incertezze, mentre non mancano numerosi soggetti che continuano a sottovalutare o ignorare la portata della sfida di Mosca. Certamente risulta difficile, sia per i politici che per le opinioni pubbliche, uscire dalla piacevole e rassicurante campana di vetro rappresentata da una visione del mondo in cui la pace è considerata un diritto acquisito, da dare per scontato, ma oggi ostinarsi a rimanervi all’interno può significare il rischio di perderla, o di essere costretti a rinunciare, al fine di mantenerla, al perseguimento di altri importanti valori, primo tra i quali la Libertà, anche nella conduzione delle relazioni internazionali. L’unico modo per fronteggiare efficacemente la minaccia russa appare essere il raggiungimento della credibile capacità di mostrarsi uniti e risoluti nella volontà di difesa dei confini europei e della pace sul nostro continente, peraltro già violata con l’invasione dell’Ucraina. Solo così sembra essere possibile lanciare un chiaro segnale a Mosca, esercitando una dissuasione per negazione, ovvero rendendole chiaro che i suoi intenti ostili non avranno successo. E’ altrettanto chiaro che, per far questo, noi europei dovremo impegnarci ad ammodernare e incrementare le proprie forze militari e i relativi equipaggiamento e munizionamento, che, da trent’anni non sono più pensate per l’utilizzo in una possibile guerra di vasta portata in Europa, come si nota dalle difficoltà nel rifornire l’Ucraina. Il problema si era già peraltro verificato in passato, ad esempio, durante l’intervento militare del 2011 in Libia, dove a un certo punto mancavano letteralmente le bombe d’aereo, richieste d’urgenza e con un po’ d’imbarazzo a mamma America dalle aviazioni europee. Un discorso a parte si potrebbe fare per il deterrente nucleare, posseduto in UE solo dalla Francia, e in misura limitata, ma qui sarà quasi impossibile affrancarsi dalla tutela americana. Si vis pacem, para bellum, dicevano i romani, ed è proprio questo il significato del bisogno di esercizio della capacità di difesa militare, che abbiamo oggi sul nostro continente. Non certo, come qualcuno vorrebbe far credere, improvvisamente in Europa siamo diventati guerrafondai. Come disse una volta Winston Churchill, a proposito dell’Accordo di Monaco del 1938 stipulato dall’allora premier Neville Chamberlain: “Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra”. Erano altri tempi, ma fino a un certo punto.
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