Geopolitica

Recovery Fund e stato di diritto. Le negoziazioni in UE non finiscono mai

22 Novembre 2020

Il braccio di ferro su Recovery Fund e bilancio pluriennale UE è indicativo delle permanenti e strutturali divisioni che caratterizzano l’Unione, anche in riguardo a fondamentali aspetti valoriali che ne sono alla base.

Il Consiglio Europeo di giovedì scorso ha certificato uno stallo da molti pronosticato, che mette a rischio la rapidità dell’erogazione dell’agognato piano di aiuti le cui linee guida erano state negoziate nello scorso Luglio tra i partners UE. Pomo della discordia è stato l’inserimento nell’accordo della condizione del rispetto dello stato di diritto.

Inserire tale clausola e prevedere che i fondi per un singolo paese possano essere bloccati con una decisione della Commissione approvata a maggioranza dal Consiglio, quindi politica, non poteva che avere per conseguenza l’opposizione frontale di due paesi, Polonia e Ungheria, che sulla questione hanno già un contenzioso giuridico aperto con Bruxelles, sostenuti pure dalla Slovenia.

Sebbene il problema del rispetto dello stato di diritto in alcuni paesi esista e debba essere affrontato seriamente, non è certo una decisione politica presa a maggioranza nell’ambito di un programma di erogazione di aiuti economici che può certificarne in modo obiettivo la violazione, quando le procedure apposite previste dall’Art. 7 dei trattati non sono arrivati ad una conclusione, dopo anni di discussioni.

L’inserimento di tale clausola sembra poi rispondere, oltre che al peso della questione tra la pubblica opinione di diversi paesi, alla volontà di alcuni governi principalmente nordeuropei di mettere quanto più ostacoli possibili al perfezionamento e all’entrata in vigore del piano Next Generation EU.

Lo scontro continuerà e probabilmente verrà alla fine risolto secondo la solida tradizione europea di compromesso e ambigua interpretazione oppure con la procedura alternativa imperniata su un accordo intergovernativo al di fuori dei trattati che lasci fuori i due stati recalcitranti, ma il piano subirà quasi certamente ritardi. La querelle sullo stato della democrazia rimarrà sul tavolo, con Budapest e Varsavia che dovranno però ben ponderare i loro veti, considerando la forte dipendenza delle loro economie dalle erogazioni comunitarie dipendenti sia dal bilancio pluriennale che dal Recovery Fund. Alla debolezza di Orban e Morawiecki fa da contraltare però altrettanta debolezza delle istituzioni comunitarie, strette tra la rigidità delle procedure e la scarsità di coesione tra i paesi. Toccherà alla Germania e ad Angela Merkel cercare di mediare per salvare l’architettura e la stabilità europea e con essa, pure di fondamentale importanza, il rapporto con Polonia e Ungheria, importanti pedine facenti parte della sfera geoconomica tedesca.

Di certo, una volta di più, si conferma come in UE non è finita fino a quando non è finita, e i proclami trionfali alla Giuseppe Conte dell’ormai lontano mese di maggio rischiano seriamente di venire smentiti o seriamente complicati dalla realtà della politica europea. Intanto, mentre nel vecchio continente ci si accapiglia sulla “borsa”, ai confini dell’Unione diversi soggetti induriscono la propria postura geopolitica, senza incontrare troppa resistenza.

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