Geopolitica
Quirinale, per chi tifano Stati Uniti, Russia e Cina?
Il totonomi impazza. Con l’anno nuovo cominciano giorni densi di manovre di palazzo, indispensabili per eleggere il prossimo presidente della Repubblica. I partiti (e i franchi tiratori) si preparano, facendo trasparire, con interviste e dichiarazioni sui media, una gran confusione. Sono ancora poche le cose certe, oltre la volontà di Sergio Mattarella di non essere rieletto per un secondo mandato, opzione gradita da più parti ma che giorno dopo giorno sembra rivelarsi più in salita. Spiccano due candidature: una trapelata, quella del premier Mario Draghi, l’altra ostentata, quella di Silvio Berlusconi. Ma a muoversi non sono solo i tessitori che oscillano tra Palazzo Chigi, Palazzo Madama e Montecitorio. Paesi come Stati Uniti, Russia, Cina e le istituzioni europee guardano con estrema attenzione la corsa al Quirinale, in alcuni casi cercando di indirizzarla con i propri rapporti privilegiati.
Su quello che sembra essere il “favorito” per il Colle, ovvero Draghi, nelle scorse settimane si sono espressi alcuni quotidiani esteri, in particolare il Financial Times. Se dovesse lasciare la presidenza del Consiglio, l’Italia farebbe un passo indietro pericoloso nel processo di crescita che ha caratterizzato questo ultimo anno. È il succo di un articolo del giornale britannico, così come di un commento dell’Economist, che frenerebbe le volontà dell’ex Bce. Anche se lo stesso quotidiano inglese, considerato uno dei barometri per eccellenza del mondo finanziario europeo e mondiale, si è poi espresso con un editoriale di Bill Emmott auspicando un Draghi presidente, correggendo di fatto il tiro. Peraltro, a tenere i rapporti con la stampa internazionale per Mario Draghi è Ferdinando Giugliano, un giornalista che per cinque anni, poco più che venticinquenne, divenne editorialista proprio del Financial Times.
Anche a Bruxelles c’è incertezza: la priorità per l’Unione europea è che la ripresa economica italiana post pandemia continui senza troppi ostacoli. Ovvero che il piano di riforme e di investimenti sostenibili con i fondi comunitari sia gestito in maniera opportuna. Per questo motivo in molti vorrebbero Draghi presidente del Consiglio fino alla scadenza della legislatura nel 2023, e magari anche dopo. Ma solo se al Quirinale salisse una figura ugualmente europeista e sinonimo di stabilità, difficile al momento da individuare.
Dalle parti di Washington la situazione è più chiara, tanto più ora con l’amministrazione di Joe Biden. Un Draghi al Quirinale sarebbe accolto con particolare favore, una personalità che rafforzerebbe i legami transatlantici e la credibilità internazionale di un alleato importante per gli Usa. Anche oltreoceano c’è lo stesso dubbio che emerge sui nostri quotidiani nazionali, sulla convenienza di mantenere il premier a Palazzo Chigi o eleggerlo come successore di Sergio Mattarella. Ma secondo alcuni analisti, la Casa Bianca è abituata a ragionare in chiave strategica sul medio-lungo periodo e preferirebbe averlo sette anni al Quirinale. Anche perché nel prossimo futuro la tensione tra Washington e Pechino potrebbe aggravarsi. Per gli Usa avere a capo di un Paese amico una figura che durante il suo mandato da premier ha rappresentato un deciso cambiamento di rotta nei confronti della Cina, rispetto al suo predecessore, sarebbe gradito. Non ha sorpreso più di tanto il fatto che un noto esponente politico italiano vicino a Pechino, come Massimo D’Alema, abbia recentemente dichiarato di essere contrario all’elezione di Draghi al Colle. Ugualmente, non sorprende che un leader certamente europeista e solidamente ancorato all’alleanza atlantica come Enrico Letta sia decisamente possibilista sulla salita di Draghi al Colle, così come Giorgia Meloni, considerata vicina all’establishment repubblicano Usa.
Chi invece, con ogni probabilità, farebbe storcere diversi nasi sia a Washington che a Bruxelles è Berlusconi, se mai dovesse essere votato dal Parlamento come prossimo presidente. La sua candidatura, nonostante il leader di Forza Italia ci creda fortemente e voglia coronare in questo modo la sua carriera politica, sembra più di facciata che reale. Un’ipotesi lontana, che potrebbe verificarsi solo se il centrodestra dovesse mostrarsi compatto e se non dovesse essere trovato un nome condiviso anche con il centrosinistra. Ma se è vero che Berlusconi è europeista e atlantista, i tempi delle foto scattate insieme a George W. Bush sono lontane, mentre sono molto vicini i dissapori con le istituzioni europee (culminati con le dimissioni da premier nel 2011) e le chiacchierate amichevoli con Vladimir Putin.
Proprio per questo la Russia, sotto sotto, ci spera. Il Cremlino durante gli ultimi anni, ha coltivato legami con molte forze ed esponenti del centrodestra italiano, oltre i rapporti personali di amicizia tra il presidente russo e l’uomo di Arcore. Basta ricordare l’affaire dei fondi alla Lega, così come basta riprendere le dichiarazioni del leader Matteo Salvini, propenso ad alleggerire le sanzioni occidentali nei confronti di Mosca. L’anima atlantista della Lega, rappresentata dal ministro Giancarlo Giorgetti, fa fatica a imporsi del tutto. Quindi Berlusconi, o un altro nome della stessa area politica, per la Russia sarebbe un affare.
Viene difficile pensare che il prossimo presidente della Repubblica non abbia il beneplacito della Casa Bianca. È innegabile, per ragioni storiche e culturali, l’influenza statunitense nella scena politica italiana, da destra a sinistra. La stessa che non ha la Cina, che invece ha puntato forte soprattutto su un attore, tuttora principale nell’arco parlamentare, ma che non sembra poter ambire al ruolo da protagonista nell’elezione del Quirinale: il Movimento 5 Stelle. Molti parlamentari e voti, ma poche idee o nomi per adesso, ad eccezione di un vago e sempreverde “È il momento di una donna al Colle” annunciato dal leader Giuseppe Conte. L’ex premier, in realtà, nell’ultimo periodo si è discostato, insieme al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, dalla linea pro-Cina del fondatore Beppe Grillo.
Grandi potenze e fattori esterni che si muovono per un voto che determinerà i prossimi sette anni dell’Italia. Perché se è vero che il presidente della Repubblica è un ruolo meno operativo e più simbolico rispetto a un presidente del Consiglio, non bisogna sottovalutarne l’importanza, a livello internazionale e non. Il potere di gestire crisi politiche e di rappresentare il Paese nel mondo consente all’inquilino del Colle di indirizzarne in maniera significativa la vita. Un peso specifico non indifferente, dimostrato forse in maniera crescente negli ultimi due decenni.
Ma i player mondiali possono influenzare fino a un certo punto la scelta di chi salirà al Quirinale a fine gennaio. Per fortuna (o purtroppo?) saranno gli oltre mille parlamentari e grandi elettori regionali italiani a decidere, alcuni realmente interessati al futuro del nostro Paese, altri meno.
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