Geopolitica

Podemos sta implodendo. Perché è di sinistra?

3 Febbraio 2017

Una delle principali forze del populismo europeo sta implodendo, sfibrato alla maniera del PD da un interminabile dibattito precongressuale in cui risulta impossibile accordarsi su una seppur minima piattaforma condivisa tra le diverse correnti che conformano il Movimento. La ragione potrebbe risiedere nella natura particolare di Podemos, proprio quella che Tobias Buck descriveva pochi giorni fa nel suo articolo sul sistema politico spagnolo. Podemos incarna un populismo dai tratti opposti al Fronte Nazionale di Marine Le Pen, all’UKIP di Nigel Farage e al protezionismo di stampo neo-raziale di Donald Trump: Podemos è di sinistra.

E se c’è una differenza radicale tra le formazioni che mettono un uomo solo al comando e quelle di sinistra, è che a sinistra si discute, si è sempre discusso e si continuerà a discutere. Sin troppo fedele a questa distinzione, Podemos si è impantanato in un’estenuante dialettica interna tra le due principali anime del partito, che hanno radici profonde (quasi ermeneutiche per la diversa visione del mondo), proiettano prospettive politiche solo in parte compatibili tra loro, ma sono facilmente identificabili nelle due maggiori personalità in cui s’identificano i militanti: Pablo Iglesias, attuale Segretario Generale, e Iñigo Errejón, Segretario Politico.

Mercoledì scorso, Carolina Bescansa, membro della Segreteria Nazionale e cofondatrice di Podemos, si è dimessa da ogni incarico, stanca delle continue divisioni che si protraggono in vista del II° Congresso di Vistalegre, che si svolgerà dal 10 al 12 febbraio. Insieme a lei si è fatto da parte anche Nacho Álvarez, Segretario all’Economica, proprio il giorno in cui le telecamere captavano un’animata discussione tra Iglesias ed Errejón in Parlamento. A queste defezioni vanno sommate quelle di Juan Carlos Monedero, che ha abbandonato la direzione già un paio d’anni fa, e Luis Alegre, passato tra le fila di Errejón senza troppo chiasso. Dei cosiddetti “Magnifici 5”, i fondatori del Movimento nel 2015, ne rimangono soltanto due: resta da vedere se uno è di troppo.

Il Segretario Generale ha finora goduto di una libertà di manovra pressoché illimitata: ha ostacolato una convergenza con il Partito Socialista che avrebbe portato al Governo Pedro Sánchez, ha sancito l’alleanza con Izquierda Unida nel secondo giro elettorale ma, soprattutto, ha scelto a suo piacimento i quadri dirigenti, sostituendo i sostenitori della linea morbida con altri più affini alle sue mire. Non ha avuto rivali fino a quando Podemos è apparso in crescita, cioè fino a sei mesi fa, quando alle ultime elezioni è rimasto al palo, scontando un oltranzismo che ha impedito ogni forma di accordo.

Da quel momento in poi, ogni esternazione sopra le righe è stata accompagnata da una presa di distanza più o meno netta da chi si poneva una questione che potrebbe apparire semplice, ma che semplice non è (meno che meno se si pretende di risolverla in un tweet):

Cosa succede se, da solo, Podemos non vince le elezioni?

A questa domanda, essenziale per qualsiasi formazione politica che abbia superato l’illusione dell’autosufficienza, si è cominciato a dare due risposte antitetiche. Pablo Iglesias ha difeso la tesi secondo la quale un governo di Mariano Rajoy avrebbe avvantaggiato Podemos nel lungo periodo. Il Segretario Politico, Errejón, ha invece avanzato l’idea che Podemos non potesse limitarsi a restare all’opposizione, ma che avrebbe dovuto tessere le fila di un’alleanza con tutte le forze che, sommate, avrebbero potuto sconfiggere Rajoy. Il profilo di Podemos sarebbe stato marcato dalle iniziative e dagli accordi, più che dall’appartenenza ideologica a un fronte anche storicamente costituito.

Gran parte della forza di Podemos, sostiene Errejón, è quella di aver attratto elettori di tutti gli schieramenti politici, attraverso proposte trasversali che miravano al rinnovamento della classe dirigente e della capacità di gestione, per rendere la Spagna un paese più giusto, senza barricarsi in difesa di una bandiera. A queste importanti divisioni programmatiche si sono poi sommate quelle organizzative, con l’ala errejonista che difende una più marcata collegialità delle scelte interne (vuole per esempio circoscrivere il mandato di Iglesias nel tempo, per adesso è ad libitum), seppur confermando l’impianto personalistico del leader, che vede più in termini funzionali, cioè capace di semplificare la comunicazione, che come una qualità in sé.

C’è una sostanziale differenza tra Podemos e gli altri movimenti anti-establishment che fioriscono nei prati inquieti dell’Occidente: Podemos può vantare quadri dirigenti che non si limitano a obbedire a un capo. Vuol dire forse essere di sinistra, non obbedire a un capo? È un male per un partito discutere sulle proprie linee programmatiche? Non è che per caso ci stiamo lasciando per strada un segno distintivo della democrazia, la ricomposizione del dissenso? In un momento in cui il Fronte Nazionale sostiene l’uscita dall’eurozona per bocca di Marine Le Pen, che guida il partito in quanto figlia di Jean-Marie le Pen (niente di meno), Donald Trump che emette decreti di dubbia costituzionalità senza interpellare neppure il Congresso e un M5S che si barcamena su codici etici applicati con sospetta discrezionalità, beh, vien quasi da benedire la sinistra e le sue tradizionali dispute interne.

C’è da augurarsi che Podemos, da buon partito di sinistra che non si limita ad obbedire a un capo, sappia trovare una sintesi che rafforzi quell’avanguardia trasversale che in molti guardano con interesse. Sarà fondamentale che tra dieci giorni, a Vistalegre, nello stesso Palazzetto dello Sport che lanciò la trionfale campagna del 2015, si disinneschino le tentazioni autodistruttive e le velleità assolutistiche, proprio quello che non sa fare in questi mesi il PD. In questo modo, a differenza dei populismi imperanti, Podemos dimostrerebbe di sapersi mettere al servizio delle soluzioni di cui ha bisogno la Spagna, al netto di una propaganda che sta progressivamente, drammaticamente, sostituendo i contenuti (e con essi il senso) della politica.

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