Geopolitica
Perché il “senza Draghi premier salta tutto” è politicamente inaccettabile
È l’argomento principe di chi lo spinge “a rimanere dov’è”. Ovviamente è l’argomento nobile e dichiarabile per non ammettere quelli non dicibili, magari perfino ignobili. “Senza Draghi a Palazzo Chigi si finirebbe al voto, e sprecherebbe la grande opportunità del PNRR. Perderemmo tutti quei soldi”. Quindi Draghi si deve togliere dalla testa ogni ambizione di salita al Quirinale, i partiti devono trovare un’altra soluzione per la presidenza della Repubblica, e la legislatura sicuramente durerà fino al 2023, anno di scadenza naturale. È il pensiero di molti, e l’ultimo che l’ha espresso con forza, oggi intervistato da La Stampa, è Giuseppe Guzzetti, ex presidente di Cariplo, peraltro da sempre considerato, tra i grandi vecchi del potere italiano, molto vicino a Draghi e, al contempo, anche vicino a quel Giancarlo Giorgetti che ha parlato più volte ed esplicitamente di Mario Draghi come prossimo Presidente della Repubblica. Gli analisti politici più accorti, invero, fanno notare che un cambio della presidenza della Repubblica, tanto più se avvenuto dopo molte votazioni e lacerazioni all’interno della maggioranza, difficilmente lascerebbe indifferente il cammino del governo Draghi. Lo fa ad esempio Massimo Franco, a più riprese, sul Corriere della Sera. Ma sono osservazioni che non scalfiscono il battaglione che vuole Draghi ancora premier, che lui lo voglia o no.
Quella di Guzzetti è ovviamente la versione nobile: senza Draghi a Palazzo Chigi siamo perduti, teniamocelo stretto per il bene dell’Italia. Per brevità evitiamo di addentrarci nella versione meno nobile, che tutti sanno e nessuno si intesta: se Draghi lascia palazzo Chigi si rischia di andare a votare, proprio a una manciata di metri dalla meta dei 4 anni e 6 mesi di legislatura che fanno scattare il diritto a ricevere a tempo debito la pensione. Meta particolarmente ambita da un parlamento composto per il 60% da membri che non saranno rieletti, e molti dei quali sono peraltro alla prima e quindi ultima legislatura.
Ma stiamo alla versione nobile, a quella che non ci vede in grado di fare nulla senza di lui, e destinati a perdere anche i soldi del PNRR qualora si dovesse cambiare guida a Palazzo Chigi. In prima battuta andrebbe analizzata la struttura stessa di questo finanziamento europeo. Il percorso è ormai incardinato, e non è un caso – forse – che proprio Draghi oggi in Parlamento ha dichiarato: “La settimana prossima ci sarà una cabina di regia per approvare la relazione annuale sullo stato di avanzamento del Pnrr. Nel documento sarà illustrato lo stato di realizzazione del piano: le riforme intraprese; gli investimenti avviati; gli organi preposti al controllo e alla valutazione delle misure. Il Governo farà il punto anche sui 51 obbiettivi da realizzare entro la fine dell’anno, che sono in larga parte già acquisiti e che siamo certi di raggiungere tutti nei tempi previsti”. Se non è una risposta all’amico Guzzetti, è quantomeno un monito a tutti: il governo in carica sente di aver fatto la sua parte.
Ma c’è un aspetto che sembra ancora più radicale. Davvero siamo disposti a credere che la democrazia italiana, nella sua manifestazione parlamentare e nella sua naturale dimensione popolare ed elettorale, non è in grado di proseguire un percorso già incardinato di relazione con l’Unione Europea per un enorme progetto di finanziamento e di sostanziale ripensamento delle politiche nazionali ed europee? Davvero “senza Draghi a Palazzo Chigi” non saremmo capaci? Perché se così fosse, beh, tanto varrebbe dichiarare fallimento come nazione e, soprattutto e anzitutto, come democrazia. Posta in questi termini la domanda diventerebbe difficilmente aggirabile anche per chi vuole incatenare Draghi dov’è per un altro anno. Anche perché – la scadenza sparisce sempre dai discorsi di chi lo vuole lì – al più tardi nel 2023 bisogna tornare a votare. La fine della legislatura – almeno quella – non potrà essere definita come un’inutile avventura nel mare dell’ignoto.
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