Geopolitica
Ordine Mondiale: il ritorno di Henry Kissinger
La crisi politica, economica e culturale che sta atrocemente martoriando il mondo necessita di una risposta geopolitica forte e adeguata: una risposta energica, che tragga la sua forza tanto dall’esperienza storica quanto da una strategia coerente. Una strategia che non guardi ingenuamente al futuro ma che – di contro – sia analiticamente attenta ai mali del presente, per cercare di affrontarli e superarli in nome di una sana concretezza.
L’ultimo libro di Henry Kissinger, “Ordine Mondiale” (Mondadori, 2015), rappresenta il chiaro tentativo di fornire una soluzione (articolata e precisa) a questo complesso problema, nell’ambito di un mondo sempre più caotico, in cui la caduta del Muro di Berlino (con al conseguente fine del bipolarismo) ha fatalmente prodotto una pericolosa frammentazione geopolitica, vividamente e drammaticamente segnata da divisioni etniche e religiose: divisioni in cui il terrorismo integralista è ormai di casa, ponendosi come un nemico invisibile e sempre più difficile da combattere. Divisioni che sempre più dilaniano la razionalità di uno Stato moderno già al tramonto, senza la possibilità di intravvedere uno sviluppo futuro chiaro.
Tesi cardine dell’argomentazione kissingeriana è la necessità di una rivalutazione dell’ordine mondiale sorto dalla Pace di Vestfalia nel 1648: un ordine ripreso, ampliato e consolidato (pur mutatis mutandis) dagli statisti del Congresso di Vienna. L’ordine vestfaliano, sostiene Kissinger, sarebbe difatti stato in grado di accettare e rispecchiare quella complessità e varietà geopolitica, tipica della cultura storica europea. Una varietà che – anziché incarnarsi in un’entità imperiale granitica – avrebbe permesso la realizzazione di un equilibrio di potere tra i differenti stati, capaci di bilanciarsi pressoché spontaneamente nei reciproci rapporti di forza. Una varietà, per Kissinger, intrinsecamente irriducibile ad un’unità monolitica e per questo radicalmente alternativa rispetto all’ordine mondiale islamico, fondato di contro sull’idea di una reductio ad unum che trova nel Corano il proprio elemento di massima coesione.
Da un simile assunto di base, emerge in maniera abbastanza evidente dalle pagine del libro la visione strategico-politica dell’ex Segretario di Stato: una visione essenzialmente improntata a quel conservatorismo tradizionale di matrice europea, che vede nelle grandi figure storiche della Realpolitik (da Richelieu a Metternich e Castlereagh) i propri indiscussi maestri. Un realismo politico che, secondo studiosi come Mario Del Pero, Kissinger avrebbe contribuito notevolmente ad introdurre nell’ambito di una politica americana da sempre orientata all’eccezionalismo (fondamentalmente anti-europeo) di Thomas Paine, sia in forza della sua attività intellettuale sia di quella più smaccatamente politica. Un realismo che vanta tra i suoi meriti l’abbandono del dramma vietnamita e tra i suoi spettri l’appoggio al golpe cileno del ’73.
In tal senso, le pagine riservate da Kissinger al Congresso di Vienna si configurano di particolare interesse storico e politico: in quanto, nella sua visione, esso avrebbe rappresentato in buona parte non soltanto un ulteriore inveramento dei principi vestfaliani ma altresì un loro consolidarsi attraverso l’istituzione di coalizioni militari in grado di preservare quello stesso ordine. D’altronde, ciò che maggiormente tenderebbe ad accomunare Vestfalia e Vienna sarebbe proprio la loro simile origine: entrambi questi ordinamenti sorgerebbero in reazione a periodi bellico-politici di fanatismo: il primo a seguito dell’estenuante scontro tra cattolici e protestanti nel corso della Guerra dei Trent’anni; il secondo a conclusione della carismatica avventura napoleonica.
Da sottolineare in tal senso la (neppur tanto) velata critica mossa da Kissinger alla figura dello zar Alessandro I (uno dei principali artefici del Congresso stesso), da lui giudicato sostanzialmente un fanatico religioso, che avrebbe voluto interpretare l’ordine viennese nei termini di una missione divina da realizzare in terra. Una tendenza che sarebbe stata abilmente arginata da Metternich e Castlereagh, consapevoli della necessità di un ordine internazionale scevro da problematiche valoriali e teologiche.
Una simile notazione ci introduce dunque al cuore pulsante della Realpolitik di Kissinger, una Realpolitik dietro cui si staglia l’ombra (grandiosa e vagamente inquietante) di Max Weber: nella necessità, cioè, di astrarre il più possibile la politica da elementi e considerazioni di carattere valoriale. I valori – sostiene a più riprese Kissinger – non possono essere considerati il caposaldo dell’agire politico, dal momento che essi schiudono sovente le porte a quel fanatismo che impedisce poi una corretta visione (e accettazione) dei problemi in cui lo Stato è coinvolto. La neutralizzazione dei valori va d’altronde di pari passo tanto con Vestfalia quanto con Vienna. Ed è il loro riemergere nelle varie ondate storiche (ora sotto forma di integralismo religioso, ora di lotta rivoluzionaria, ora di nazionalismo) a mettere in crisi ordinamenti internazionali fondati sul bilanciamento del potere.
In tal senso sono chiare le velate critiche mosse nel libro agli interventismi umanitari di Clinton quanto alle guerre democratiche di Bush figlio: giacché entrambi (e non solo loro) avrebbero commesso l’errore di impiegare l’uso della forza in nome di crociate ideologiche, senza tener debitamente conto della complessità storico-territoriale degli stati contro cui sarebbero andati a combattere. L’interesse supremo della nazione – ripete Kissinger – necessita costantemente di una riflessione sul rapporto tra i costi e i benefici che un’eventuale azione (politica o militare) impone. In quanto la politica è scienza, non teologia.
A voler essere poi precisi, ci sono delle pagine in cui l’ex Segretario di Stato sostiene anche la necessità dell’idealismo in politica: un idealismo che però andrebbe connesso ad un sano realismo, in quanto gli Stati Uniti (nella fattispecie) dovrebbero, sì, tutelare su scala internazionale determinati valori universali. Ma una simile tutela non andrebbe ciononostante attuata ad ogni costo, bensì solo laddove possa effettivamente connettersi alla garanzia della sicurezza e del supremo interesse nazionale.
Una presa di posizione, questa, sicuramente di buon senso, ma – in fin dei conti – un po’ velleitaria, quasi a voler essere una riparazione (o una scusante), rispetto ad un pubblico statunitense fondamentalmente idealista che ha sempre mal digerito la Realpolitik kissingeriana: non bisogna difatti dimenticare come Kissinger da essere uno degli uomini più popolari dell’amministrazione Nixon (grazie alla sua abilità sul Vietnam) fu poi sottoposto a un serrato fuoco di fila non solo da parte dell’opinione pubblica (che iniziò a giudicarlo un politico senz’anima) ma anche da ampie ali del Partito Repubblicano (neocon in testa), che lo accusarono di arrendevolezza verso il comunismo (a causa delle sue aperture a Mao e Breznev). Kissinger sa bene dunque come la sua strategia politica (tipicamente europea) in America sia poco amata e questa utopistica tesi di un’armonizzazione ossimorica tra idealismo e realismo – ad esser sinceri – appare più come uno specchietto per le allodole che altro.
Il realismo disincantato del conservatorismo tradizionale così fortemente ribadito e difeso in questo libro promette di lasciare il segno nel dibattito pubblico statunitense. In primo luogo, poiché sempre da più parti circola insistentemente la voce secondo cui in questi ultimi anni l’amministrazione Obama avrebbe impresso una svolta kissingeriana alla propria politica estera. Qualcosa che non sarebbe difficile credere, viste le ultime mosse obamiane di foreign policy: mosse decisamente in contraddizione rispetto alle strategie dei primi anni, quando il nume tutelare della politica estera di Obama si chiamava Samantha Power: l’accademica harvardiana che teorizza da sempre il dovere morale da parte degli USA di intervenire contro i genocidi e che sponsorizzò fanaticamente la guerra libica.
Ma, più nel lungo termine, è possibile che questo libro possa aprire un dibattito all’interno dello stesso GOP, in quanto esso tende a rimettere in discussione alcuni capisaldi della politica repubblicana degli ultimi anni: quella neoconservatrice. Abbiamo visto come i neocon non abbiamo mai apprezzato particolarmente Kissinger. E questo ha una ragione storico-ideologica precisa. A dispetto del nome infatti, il neoconservatorismo non nasce dal conservatorismo tradizionale ma dal trotzkismo (e – nella fattispecie – dalla sua fondamentale tesi del diffondere la rivoluzione su scala internazionale).
La maggior parte dei neocon provengono inoltre dalle frange più oltranzisticamente anti-sovietiche del Partito Democratico: tanto che molti di essi furono profondi ammiratori di J.F. Kennedy: quello stesso Kennedy che nel ’60 aveva battuto Nixon facendo leva (aiuti della mafia a parte) sulla promessa di una politica estera particolarmente aggressiva rispetto a quella tendenzialmente più moderata del suo rivale. Quel Kennedy che – guarda caso – non fu mai veramente in buoni rapporti con Kissinger, che – anzi – plasmò la sua visione pragmatica e di distensione proprio in reazione a J.F.K.
Il libro di Kissinger potrebbe fungere da detonatore dunque all’interno del GOP: potrebbe in altre parole funzionare da manifesto ideologico per una nuova corrente conservatrice (di stampo tradizionale) che in termini di Realpolitik si allontani tanto dai settarismi dei libertarians, quanto dall’ideologismo dei neoconservatori. Il problema sarà capire quanto la demagogia e il populismo attuali possano effettivamente lasciare spazio a una tale prospettiva. Capire se vi siano uomini e donne che abbiano la capacità intellettuale e pratica di raccogliere una simile eredità. Capire, in ultima analisi, se per risolvere i problemi geopolitici odierni si debba cercare l’aiuto di Metternich o di Batman.
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