L'appello firmato da 200 ebrei italiani contro il progetto di Trump e Natianyahu

Geopolitica

“No alla pulizia etnica contro i palestinesi per dire sì a una pace vera”: perchè ho firmato l’appello

L’autore, storico ed ebreo italiano, spiega le ragioni dell’appello contro la pulizia etnica in Palestina, il perchè della sua adesione, e l’ineludibilità delle identità come elemento di lotta contro le politiche violente di Netanyahu e Trump

26 Febbraio 2025

Oggi, 26 febbraio 2025, è un giorno tragico in Israele: si tengono i funerali della famiglia Bibas, madre e figli rapiti il 7 ottobre e trucidati a Gaza, solo il padre sopravvissuto a una terribile prigionia alla fine della quale ha appreso della morte violenta dei suoi cari. Ma è un altro giorno tragico anche in Palestina, nella Cisgiordania teatro di violenze dei coloni israeliani e a Gaza, dove si raccolgono le macerie di invasioni e bombardamenti dello Stato ebraico. Anche qui si sono seppelliti morti, a migliaia, e molte famiglie con bambini sono certamente rimaste sotto le macerie, sconosciute e dimenticate.

Per una coincidenza oggi è stato anche pubblicato l’appello “No alla pulizia etnica in Palestina, l’Italia non sia complice”, promosso e sottoscritto da oltre 200 ebrei italiani, pubblicato su una intera pagina in “Repubblica” e “Manifesto”, già ripreso in molti media e social online, anche per il dibattitto che ha suscitato, tra favorevoli e contrari nell’opinione pubblica e nelle comunità ebraiche italiane. La pubblicazione di questa presa di posizione in coincidenza con il funerale dei Bibas, per cui una parte di Israele si è fermata e c’è stata anche una larga partecipazione a distanza nella Diaspora ebraica, è stata criticata. Ma bisogna riconoscere che non è mai il giorno giusto in Medio Oriente, specie per chi critica la guerra, e ogni momento si porta appresso drammi o tragedie. Letteralmente ogni giorno si seppelliscono vittime del conflitto israelo-palestinese e – riconosciamo anche questo – tutte le vittime sono ugualmente importanti.

Va anche ricordato che proprio oggi il presidente americano Trump ha diffuso un video, generato con l’Intelligenza Artificiale,  diremmo pubblicitario dei suoi progetti edilizi, immobiliaristici e di investimento a Gaza, che immaginano la realizzazione di complessi residenziali di lusso, resort turistici e spiagge nella striscia dopo il conflitto. Una tragica distopia, già annunciata nelle scorse settimane, con il plauso di Benjamin Netanyahu e dei suoi ministri. Questo progetto ha come premessa necessaria il trasferimento forzato di larga parte dei palestinesi residenti a Gaza (1,6 milioni di persone), o – nella sua versione più benevola – l’invito ad andarsene volontariamente, unito magari ad incentivi economici. Ancor più attuale diviene dunque, tristemente, l’appello odierno di un gruppo di ebrei italiani – tra cui il sottoscritto – che indica proprio in Trump il primo responsabile (“vuole espellere tutti i palestinesi”) e constata la simultanea prosecuzione delle operazioni militari israeliane nei Territori occupati e della violenza dei coloni. Soprattutto l’appello denuncia il progetto di “pulizia etnica”, che significa appunto trasferimento forzato di una popolazione su base etnica, una pratica politica che ha una lunga e dolorosa storia nel Novecento.

Perché ho firmato questo appello? Devo dire che mi considero un ebreo largamente post identitario, per scelte personali e anche perché da storico ho studiato e studio le identità e le politiche dell’identità, anche ebraiche. Ma quando mi è stato chiesto di firmare ho pensato che per una volta l’appartenenza identitaria, comunque incancellabile anche nelle sue forme più laiche e assimilate, poteva essere mobilitata pubblicamente per criticare la politica violenta e guerrafondaia di Israele, i disegni autoritari di Trump, il sostegno e l’amicizia per entrambi del governo italiano. Nessuno di noi si arroga di rappresentare tutto l’ebraismo italiano, tantomeno quello diasporico e ancor meno quello israeliano: ma abbiamo ritenuto in portante anzi dar voce e sottolineare l’importanza di un pluralismo di posizioni anche nel mondo ebraico, spesso accusato di essere monoliticamente schierato con Israele o pronto ad accusare di antisemitismo chi critica le politiche di Netanyahu. Inoltre, desideravo con gli altri sottoscrittori, oltre che condannare la violenza di tutte le parti coinvolte nel conflitto scatenato da Hamas, lanciare un monito rispetto ai progetti politici del futuro dopoguerra (ma in effetti già in atto oggi) che – schiacciando una parte, diminuendola, o addirittura cancellandola – non andassero nella direzione della prospettiva “due popoli, due stati”. Certamente, mi sono anche detto, il mio rifiuto della “pulizia etnica” – e della violenza di Hamas e del governo di Israele – viene anche dalla mia memoria individuale e familiare ebraiche, della sopraffazione e del razzismo antisemita nella Seconda guerra mondiale.

Questo appello dice oggi “No”, grida contro la violenza, denuncia le complicità. Ma mi rendo conto che un elemento essenziale del futuro di Israele e Palestina, e anche della Diaspora ebraica e dell’Europa, sarà ed è dire “Sì”. Sì all’altro, al riconoscimento dell’altro, della sua sofferenza, della sua storia e memoria. Sì alla presenza, sicurezza, ai diritti, alla tranquillità di tutti: israeliani, palestinesi – e potrei continuare, guardandomi intorno -, gli uni accanto agli altri.

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