Geopolitica
Nelle viscere del Medioriente, dove vincono gli estremismi e scompare il futuro
La guerra tira fuori dal corpo di chi la vive le emozioni più profonde. La guerra fa dire la verità. Spazza via il tabù fondativo di ogni civiltà, rendendo permessa, e anzi doverosa fino all’eroismo, l’uccisione di altri esseri umani. Legittima tutto, in nome della paura per la propria sopravvivenza, o del diritto al riscatto della propria dignità. Libera i gesti da divieti consolidati, e i pensieri e le parole dal dovere della correttezza: per non parlare della pietà. Viaggiare in Israele e Palestina in questo periodo, anche per chi da decenni frequenta quella terra e conosce bene persone che vivono immerse in quella società, significa toccare con mano tutto questo. Significa ascoltare con le proprie orecchie alcuni palestinesi, storicamente lontani da Hamas e da ogni fondamentalismo islamico, dire che il massacro del 7 ottobre, con 1200 morti assassinati, tra cui centinaia di bambini, donne prima violentate e poi uccise, e oltre 200 civili rapiti, è solo la conseguenza di quel che fa Israele a Gaza. Anzi, quel che è successo quel giorno agli israeliani è niente rispetto a quel che succede tutti i giorni ai palestinesi. Significa ascoltare diversi israeliani, non tutti di estrema destra, o che fino a ieri sicuramente non lo erano, mentre dicono “vogliamo vedere il sangue”, “sono nazisti e vanno trattati come tali”. Se poi ci si sposta più a destra – una destra estrema eppure già di governo, con Netanyahu, da ben prima del 7 ottobre – le parole si fanno più esplicite, la verità di chi le dice anche più indigesta. Thomas Friedman, che da 50 anni racconta senza pari il conflitto israelo-palestinese sul New York Times, ha scritto che in queste settimane, spese attraversando Israele e i Territori occupati, ha visitato un posto nel quale non era mai stato prima.
Nel mio piccolo, dopo una ventina di viaggi e soggiorni più o meno lunghi in ogni angolo di questa terra, dai confini materiali angusti e dalla geografia interiore smisurata, ho avuto la sensazione di esserci stato davvero per la prima volta. Anche a giorni di distanza, non smette di rimbombarmi in testa una domanda, posta a se stesso ad alta voce da Arturo Cohen, un attivista italiano e cittadino israeliano. Eravamo a sera inoltrata al Sira Pub, storico luogo di ritrovo della sinistra israeliana e di una Gerusalemme che sembra impossibile, a due passi dal continuo viavai di ultrareligiosi e di coloni col fucile al collo. Mentre mi raccontava dell’ansia per Hersh, frequentatore abituale di quelle stesse latitudini, rapito da Hamas il 7 di ottobre, a un tratto mi ha detto: “Resta da capire se in realtà l’attentato e la guerra seguente hanno fatto esplodere qualcosa che esisteva già del tutto, e che quindi prima o poi sarebbe comunque venuto fuori, o se il 7 ottobre ha creato qualcosa che senza quella barbarie non sarebbe accaduto, e di sicuro non così presto”. Mi raccontano, in tanti, di popolarissimi comici che in tv o su Tik Tok ormai considerano sdoganati e corretti sketch apertamente anti-arabi, e dello spaesamento di molti compagni di lotta, da anni in prima fila per la causa palestinese, che mentre piangono i morti del kibbutz o quelli del rave, che pensano alle loro amiche violentate e carbonizzate o rapite, se fortunate, devono anche sentirti insultare dagli israeliani di destra, che hanno buon gioco – si fa per dire – nel rinfacciare proprio quell’attivismo: “Così adesso avrete capito anche voi con chi abbiamo a che fare, o no?”. Fratture interne, ricompattate temporaneamente, almeno a guardarle da lontano, da una nuova guerra, e da una guerra nuova, ma che sono altrettante ferite aperte e sanguinanti. Che fanno riemergere la domanda scivolata sul tavolo, a tarda sera, al Pub di sinistra. La più grande strage di civili israeliani, causata dal più cruento atto terroristico della storia palestinese, reso passibile dalla più clamorosa falla strategica, politica, d’intelligence e militare israeliana, seguita dalla più spietata e letale campagna militare contro Gaza e i suoi abitanti, hanno cambiato il corso della storia, o hanno solo dissotterrato dai giardini e dai deserti d’Israele e Palestina quel che giaceva lì da un po’, come un male cresciuto da tempo in un corpo umano, contro quel corpo umano, ed è diventato manifesto quando era troppo tardi per avere salva la vita? Oppure nonostante tutto, nonostante il terreno fertile per una nuova guerra fosse in bella vista, senza il 7 di ottobre si sarebbe data una possibilità diversa, come fosse quello sparo, oltre un secolo fa, a Sarajevo? È colpa di questa guerra, o l’anima d’Israele e Palestina era già definitivamente mutata?
Sono le domande che mi porto dietro: dopo aver interrogato per alcuni giorni le strade di Gerusalemme e quelle della Cisgiordania; dopo aver costeggiato coi militari israeliani i confini della Striscia di Gaza e aver cercato e trovato a fatica voci di palestinesi che non abbiano paura di finire nelle prigioni israeliane per ogni parola fuori posto; dopo aver guardato negli occhi limpidi degli attivisti israeliani per la pace – che conoscono davvero cos’è l’attivismo, e quali costi può avere, sulla pelle di chi lo pratica ai bordi della guerra; dopo aver visto la marcia silenziosa di un Israele normale, riflessivo, che chiede al governo di occuparsi della liberazione dei prigionieri, e solo per questo viene guardato da un pezzo non marginale della nazione come un pericoloso estremista di sinistra. Oppure – ed è una posizione politicamente meno facile da respingere – come qualcuno che ha un obbiettivo nobile, la liberazione degli ostaggi – ma sostiene volonterosamente un errore politico.
Questo, laggiù, è quello che ho visto e sentito io.
L’eterno presente della guerra
Vivevo in Israele durante la seconda Intifada. Era quando saltavano per aria a ripetizione gli autobus, i locali, i bar, i ristoranti, e morivano a decine israeliani, incluso qualche arabo. A ogni azione terroristica, seguiva una dura o durissima reazione dell’esercito israeliano, fino a quando la costruzione del Muro rese praticamente impossibile penetrare il territorio israeliano carichi di tritolo. Poi c’ero durante lo smantellamento delle colonie di Gaza, col paese minacciato da una guerra civile che dura fino a oggi. C’ero nell’estate del 2006, subito dopo la Coppa del mondo alzata da Fabio Cannavaro e compagni, quando Hezbollah iniziò a bombardare massicciamente dal Libano, e iniziò una vera guerra, con decine di migliaia di sfollati dal Nord a riempire gli alberghi di Gerusalemme. Ho assorbito e sentito i racconti di chi c’era quando non c’ero io, ed in corso erano altre campagne militari e attacchi terroristici. E questa volta è davvero diverso. Intanto perché al centro della scena, di ogni conversazione, da prima di imbarcarsi all’aeroporto di Malpensa, c’è una parola semplice, incredibilmente nuova in una terra che di quell’elemento muore e vive da sempre: “guerra”. “La guerra c’è per tutti signora, non per questo lei può imbarcare senza penali bagagli che pesano il doppio di quanto ha dichiarato”. Oppure appena ho messo piede in albergo, e il receptionist mi dice: “La guerra sta andando bene, me l’ha detto mio figlio che combatte a Gaza. Doveva tornare a casa, aveva finito il suo servizio militare, ma poi… noi ancora non crediamo a quel che è successo il 7 ottobre”, mi dice, il 12 Novembre. Ma alla fine – è convinto – Israele vincerà.
Il giorno dopo, di là dal Muro, a Betlemme, avrei ascoltato uno storico dirigente locale di Al Fatah, il partito di Arafat in opposizione al quale Hamas, con il benestare di Israele, è nato negli anni Ottanta, dirmi con grande tranquillità: “Spero che gli Hezbollah si sveglino, e dal Libano schiaccino i bottoni giusti… loro hanno le armi e la tecnologia vera, non come Hamas. E a quel punto, con due fronti aperti, voglio vedere chi vince la guerra…”.
La forza secolare della guerra è che è nemica del futuro, cancella il bisogno di prospettiva che hanno sempre gli umani. Almeno in chi sente che la sta combattendo. Perché l’unica questione, per forza, è vincere la battaglia di oggi, non perdere quella di domani, perché in guerra puoi desiderare una cosa sola: vincere.
Chissà se è per questo, anche per questo, che diversi amici che hanno figli bambini, in contesti diversi e con background diversi, mi raccontano la stessa cosa: i loro figli si comportano in modo strano, inusuale. “Di solito non fanno così, non sono così agitati, nervosi”. Stavolta nascondere la guerra non è stato possibile. Travestire le sirene che tagliano la spiaggia di Tel Aviv sotto le mentite spoglie di un’esercitazione non ha funzionato. Camuffare i racconti e le preoccupazioni che premevano al tavolo di Shabbat in una bella casa di Gerusalemme non era sostenibile, neanche per adulti abituati al contesto. I bambini assorbono, proprio loro che sono solo futuro. Perché questa volta è diverso.
Tanto è diverso che nessuno ha paura di ammettere che non si può prevedere come finirà, quando finirà, e soprattutto tutti o quasi scommettono che ci sarà un sequel su larga scala. “Vai al Nord, il prossimo fronte è lì”. Già, il Nord. Il confine libanese, gli Hizbullah legati strutturalmente all’Iran degli Ayatollah gettano razzi senza sosta su Israele, e più si è vicini al confine, e più si ha paura. Quelli dei “bottoni giusti” invocati da qualcuno in Palestina. Non a caso, ci sono altre decine di migliaia di profughi ebrei residenti a nord che hanno lasciato le loro case su ordine delle autorità israeliane, e altrettante che lo hanno fatto volontariamente perché residenti in zone a rischio. Hanno riempito gli alberghi del “porto franco” di Gerusalemme, così a spese del governo hanno finito col sostenere l’industria di successo del turismo, che si prepara al peggior Natale degli ultimi decenni, Intifade e guerre comprese. Invece del fiume di pellegrini cristiani, e di ebrei residenti in paesi che fanno celebrano le festività di fine anno in paesi governati dal calendario romano, e di viaggiatore che sfruttano le lunghe vacanze scolastiche e il clima mite per un viaggio mediorientale, negli alberghi – finché ci resteranno – ci saranno solo profughi. Nei locali, bar, ristoranti, invece quasi nessuno. Sempre che siano aperti. “Sono chiusi perché nessuno esce, certo, e non ci sono stranieri”. Ma anche perché la chiamata dei riservisti dell’esercito ovviamente svuota i luoghi di lavoro. Anche i bar e i ristoranti, certo, ma non solo. Non è ovviamente il problema principale. “Un mio amico lavora nello high tech”, nel cuore della bolla delle start-up ad alto valore aggiunto, che hanno reso Tel Aviv, nel bene e nel male, una piccola San Francisco, calamita di investimenti, città sempre più cara, polo attrattivo per lavoratori ultraqualificati della finanza, del biomedicale, dell’informatica avanzata. Naturalmente, la parentela con l’industria della guerra è stretta, e chi è bravo a fare quell’industria, tendenzialmente, serve molto anche in una guerra che ha già pagato un prezzo abbastanza alto alla mancanza di intelligence preventiva. “E quindi li hanno richiamati tutti, ad alcuni di loro è stata chiesta già una disponibilità preventiva a rimanere in servizio militare fino alla primavera del 2024”, mi racconta una quarantenne israeliana sul lungo mare di Tel Aviv semideserto, solo qualche runner, ma molti molti meno del solito. Il cambio di scena sociale si vede anche su Tinder: “prima erano tutti in T-shirt da startupper, adesso in divisa”.
Il sesso in tempo di guerra cambia solo di abito. L’economia industriale e dei servizi d’Israele invece cambia radicalmente pelle. Quanto costerà tenere in piedi la macchina, colpita nei suoi ingranaggi più preziosi e oliati? Quanto a lungo sarà sostenibile? E poi, l’ecosistema delle start-up è tutto fondato sugli investimenti. Capitali che vengono messi a disposizione di industrie che nascono promettenti, e all’interno di un sistema sicuro, affidabile e stabile, per restituire agli investitori i loro soldi moltiplicati, per tre, per quattro, per venti, in pochi anni. Serve, appunto, che non ci siano rischi esogeni, che è già abbastanza il rischio d’impresa. “Metteresti i tuoi soldi in un’impresa israeliana, oggi?”. Un’altra domanda, dalla risposta invero più semplice. Anche perché, “per la campagna di Gaza serviranno almeno altri due mesi”, dice Yoav Gallant, ministro della difesa e compagno di partito di Netanyahu. “Almeno”. E poi appunto c’è l’incognita del Nord. Uno stato di guerra senza scadenza, che non è alleato degli investimenti esteri, né di molte altre cose belle. Torna alla mente la “profezia” del fondatore di Hamas, Ahmed Yasin, eliminato da Israele ormai vent’anni fa, nella convinzione che eliminando lui si sarebbe risolto il problema. Aveva detto che Hamas per sconfiggere Israele avrebbe dovuto incunearsi nelle sue contraddizioni, per farlo esplodere dall’interno. Era cieco, lo Sciecco Yasin, ma ci vedeva bene.
Nello specchio dell’Occidente
Gallant, peraltro, risponde a una domanda che i più accorti nemmeno fanno. È LA domanda. Quanto durerà? Che domande, chi lo sa. “Fino alla vittoria definitiva su Hamas”. Già, certo. Facile a dirsi. Ma cos’è la vittoria definitiva su Hamas? Cosa vuol dire sconfiggere Hamas “una volta per tutte”, come dicono tutti, anche l’alto ufficiale Shemer che incontro ai confini meridionali della Striscia, dove Gaza, l’Israele e l’Egitto si incontrano in mezzo al deserto? Hamas, dopo tutto, come ogni organizzazione terroristica, è un’idea, non solo un’organizzazione. Ed è un’idea che laggiù prolifera, e non da oggi. “Anche il nazismo era un’idea di successo, ma dopo che fu sconfitto con grandi sofferenza… beh, fu un’idea senza successo, senza futuro”. Una scommessa che, evidentemente, pensa a Dresda rasa al suolo e a Berlino trasformata in un cumulo di macerie, come prodromi della nascita del più lungo periodo di pace e prosperità che i popoli europei abbiano mai conosciuto. Già. Ai tedeschi però, nel “subito dopo”, fu data una prospettiva democratica. Ai cittadini di Gaza, dopo le ultime, ennesime distruzioni, dopo il più grosso lago di sangue e lutti in una storia che ne è già piena, nessuno sa dire che prospettiva sarà data. In Israele, la maggioranza delle voci che si possono sentire, da quelle della borghesia gerosolimitana al popolo pacifico e moderato che sfila affianco ai familiari degli ostaggi, all’indotto delle start-up nella Tel Aviv che niente ha a che fare con il fanatismo nazional-religioso, che pure sul punto parla la stessa lingua, tutti questi e molti altri, dicono la stessa cosa: “con Hamas come vicino non si può più stare”. In diversi, soprattutto gli israeliani attorno ai 70 anni ma non solo loro, mi chiedono una immedesimazione piena nelle loro ragioni: “Dovreste capire, anche voi europei che avete tanti immigrati mussulmani, che quello che è successo qui, e quello che Hamas vuole qui, imponendo la Sharia, riguarda assolutamente anche voi. Anzi cosa state facendo per evitare che succeda, in Europa? La Germania sembra averla capita”. Il riferimento è sicuramente al divieto di manifestazioni pro-palestinesi, connesso al riemergere di antisemitismo classico, intrecciato a quello portato con sè dall’immigrazione dai paesi arabi e islamici, proprio nel paese che – in ragione del passato nazista e della responsabilità della Shoah – ha con più forza e maggior successo combattuto negli ultimi 75 anni i sentimenti anti-ebraici.
Lo sguardo dell’Europa e del Mondo, delle loro opinioni pubbliche, sulla guerra di oggi, viene indagato regolarmente. “Come la pensate? Cosa dicono i media europei?”. Nei Territori Occupati i palestinesi raccontano di aver visto le immagini delle grandi manifestazioni pro-palestinesi del Canada, con la speranza che sia l’inizio di un contagio globale. “Questa volta è diverso”, scommettono. In Israele è data per scontata invece l’ostilità nei confronti del proprio paese, e il mandato affidato al giornalista europeo è: “Mi raccomando, prova a riequilibrare un po’ i pesi, racconta che ci stiamo difendendo da chi ci vuole uccidere tutti”.
Fa una certa impressione che qualcuno, in quello stesso Israele fatto di sinceri sionisti di vario orientamento, persone che per età hanno magari anche combattuto guerre di sopravvivenza, come quella del Kippur, ci sia chi non ha paura di prendere sul serio le ragioni del complottismo. “Io non posso credere che Netanyahu, con la sua storia, abbia lasciato succedere quel che è capitato il 7 ottobre nella speranza di sopravvivere politicamente. È una teoria cospirativa che non posso accettare“. E però, ammette qualcuno, in una bella casa della Gerusalemme borghese e laica, o nei Kibbutz del sud dove si celebrano gli ultimi funerali delle vittime riconosciute per il dna di un brandello superstite, “per la prima volta nella mia vita, mi ritrovo ad ascoltare chi queste teorie le sostiene. E per un attimo mi accorgo che il dubbio è venuto anche a me”.
La versione ufficiale, ad ascoltarla bene, è altrettanto incredibile, anche se ragionevolmente vera. “Eravamo ingenui, siamo stati puniti nella nostra ingenuità, e non lo saremo più. Avevamo creduto che Hamas volesse vivere in pace con noi, e che fossero riconoscenti di tutte le opportunità di lavoro che stavamo offrendo loro facendoli entrare in Israele regolarmente. Questo è stato il ringraziamento”. Per questo e solo per questo, secondo il racconto del Governo, dall’8 Ottobre in poi, al confine con Gaza c’erano pochissime truppe, il controllo del muro e del perimetro di Gaza era allentato. Nella convinzione che un po’ di mesi senza tensioni e attacchi, e il beneficio dell’economia di rimessa gentilmente concessa dalle autorità israeliane bastassero a sedare la rabbia ultradecennale per la segregazione a Gaza e l’islamismo fondamentalista e terrorista cresciuto a dismisura negli ultimi vent’anni, elementi peraltro avvinti in un intricato quanto evidente rapporto di causa-effetto. “Ci brucia, oltre al dolore c’è la rabbia per l’umiliazione”, dicono un po’ tutti. “Hanno fatto i bravini per mesi, han lasciato che a lanciare i razzi fossero ogni tanto quelli dello Jihad, ma loro stavano fermi. Quando gli abbiamo creduto ci hanno fottuto”.
I palestinesi esistono
La questione palestinese, nella società israeliana, è diventata oggetto di una lunga rimozione. Quando ho iniziato a frequentare il paese, oltre vent’anni fa, non si parlava d’altro. Stava naufragando il processo di pace, la prima Intifada era appena dietro le spalle, vivida nella memoria di tutti. Dei palestinesi si parlava, li si vedeva, se ne aveva paura, o vi si riponeva speranza. C’era ancora Arafat, il suo carisma era riconosciuto, il suo popolo visibile. Poi, la costruzione del muro e la fine di ogni spazio politico di dialogo, il ritiro unilaterale da Gaza e il progressivo disimpegnarsi degli USA dall’area, la progressiva crescita di Hamas e la conseguente sempre più accentuata e “giustificata” segregazione dei palestinesi hanno congelato il processo di pace. Cioè, hanno cancellato l’obbligo di immaginare una pace, e quindi hanno fatto sparire gli avversari, come se non esistessero più. Si è diffusa l’idea condivisa che non fosse possibile nessuna pace strutturale, e che accontentandoli con qualche concessione se facevano i bravi i palestinesi sarebbero di fatto spariti dalla vita degli israeliani. In caso contrario, maniere forti, o fortissime. È significativo che anche la lunga e celebrata protesta degli oppositori di Netanyahu, quella che ha riempito le piazza per mesi e mesi con quel che resta della sinistra israeliana, fosse tutta centrata sulla riforma della giustizia, ma non sfiorasse neppure la questione palestinese. Che però, ovviamente, ha continuato ad esistere, e a vedere montare rabbia dentro alla pancia nascosta e rimossa di un popolo occupato, e sempre più esposto al cinismo geopolitico dell’islamismo di matrice iraniana.
La convinzione che fosse sufficiente consentire loro con regolarità di fare i lavori di cui gli israeliani hanno bisogno, prima di riaprire lori le porte della prigione di Gaza, ogni sera, racconta bene della disconnessione coloniale dalla realtà di un pezzo importante di società israeliana. Che, come mai prima, oggi si chiede se può fidarsi degli arabi israeliani, due milioni di palestinesi che vivono da cittadini nello stato d’Israele. “Continueranno a riconoscere i benefici dello stare con noi, nella nostra democrazia e nella prosperità economica e sociale che gli riconosciamo da sempre, o diventeranno la quinta colonna del terrorismo che vuole imporre la sharia?”, si chiede un israeliano laico, sui cinquant’anni, in visita in un kibbutz del sud. “L’altro giorno ho sentito un’amica, araba israeliana cristiana, pensavo fosse una naturale nemica di Hamas… Mi ha parlato solo dell’orrore dei morti bombardati a Gaza. Neanche una parola per il 7 ottobre. Niente di niente”, mi dice un’israeliana progressista che è scesa da un kibbutz che sta nella zona centrale del paese per aiutare gli sfollati dei kibbutz più colpiti. “Peraltro” aggiunge “è una donna laica, che sicuramente sta meglio in Israele che a Gaza”. Tutto vero: ma i meccanismi di appartenenza e immedesimazione sono ovviamente un’altra cosa, non si spiegano solo col calcolo di ciò che sarebbe più conveniente, e anche questo finisce con l’essere un rinfaccio, un po’ cinico e un po’ facile, della propria generosità.
La rivolta della Cisgiordania non c’è stata, anche grazie alla durissima repressione preventiva realizzata per mezzo di leggi speciali da Israele. Men che meno, si è sollevata “la quinta colonna” degli arabi cittadini d’Israele. Tuttavia, il 7 ottobre e le sue lunghe conseguenze hanno incrinato un equilibrio, anche se per ora solo a livello psicologico. Passando vicino all’Università di Beer Sheva la mia amica mi dice: “Pensa, quando ci studiavo io, 25 anni fa circa, una volta venne a lezione uno studente in uniforme militare. La professoressa disse che non era il caso, perché quella divisa avrebbe potuto offendere i nostri colleghi studenti arabi. Oggi come minimo per una frase del genere le riderebbero in faccia. Ma tanto nessun docente universitario, dopo il 7 ottobre, si sognerebbe mai di muovere un rimprovero del genere a un militare…”.
Quelli che non smettono di pensare al futuro
Andare e tornare nei territori palestinesi, oggi, è più complicato, molto più complicato di prima, anche per chi ha il privilegio del passaporto europeo. Per i palestinesi, al momento, valgono solo i permessi speciali per i “lavoratori indispensabili”: scuole, ospedali, poco altro, e con uscita fissata per tutti solo dalle 6 e mezza alle 7 del mattino. Gli altri che vanno e vengono, o sono stranieri, o sono cittadini israeliani, o hanno ragioni specifiche che devono dimostrare. Attendendo il minibus, in un crocevia disordinato, cani randagi e un blocco della strada improvvisato con le ruspe, conosco Mary, originaria dello Iowa, appartenente a una congregazione evangelica legata alla Società Biblica Palestinese. “Nel 2015 ho perso il marito, e ho deciso di impegnarmi di più ad aiutare gli altri”. Racconta la storia tipica dell’evangelica nordamericana, arrivata in Israele con l’idea “unica” di supportare lo stato ebraico. “Poi, un giorno, ho scoperto che i palestinesi esistevano, e avevano bisogno di aiuto, scuole, educazione, cure”. E così, a circa settant’anni, anche adesso, con la guerra, fa avanti e indietro: la sera dorme a Gerusalemme in Città Vecchia, ma la mattina presto viene a Betlemme, ed è a disposizione dei vari bisogni che le vengono segnalati dal suo gruppo.
Dove non ti puoi dimenticare neanche per un attimo che l’Altro esiste, è al Sira Pub, dove il nostro viaggio è iniziato, e dove finisce. “Qui dentro abbiamo sempre fatto in modo che non si potesse entrare con i fucili. Senza fare scene, ma abbiamo sempre fatto capire che non è il posto in cui venire armati. Dopo il 7 ottobre, è diventato praticamente impossibile…”. È sempre Arturo Cohen a spiegarmi l’aria che tira nelle viscere della sinistra degli attivisti israeliani, quella che insegna calcio a bimbi palestinesi di Gerusalemme, che usa anche la curva del Hapoel Jerusalem Football Club – maglia rossonera, falce e martello come simbolo – come luogo di identità politica e di battaglia storica e perfino storiografica contro la destra. È, quel pub, un mondo sottorraneo dove si incrociano le battaglie per i diritti sociali e quelle per i diritti civili, dove “quel ragazzo lo stiamo facendo lavorare tanto perché i suoi migliori amici son stati rapiti al rave e stava andando fuori di testa”, dove un ragazzo arabo e un ragazzo israeliano arrivano mano nella mano, dove un quarantenne con l’occhio di vetro è così da quando è rimasto vittima di un attentato dei martiri di Al Aqsa da ragazzino, una ventina di anni fa, ma dopo non ha smesso di credere alla pace: “si è impegnato ancora di più”.
Sono storie piccole, che si perdono nella risacca circolare di dolori, rabbie, vendette, violenze, sospetti. Un oceano che era smisurato già prima, e ora sembra destinato a coprire tutte le terre emerse. Per questo, proprio adesso che la mareggiata si fa alta come mai prima, raccontare il lavoro delle vedette e dei costruttori di argini è il poco che posso fare, e tutto quello che sento di dover fare davvero. Perché sarà solo grazie a loro se, sopravvissuti ad un’umanità sommersa, un giorno inatteso scopriremo di esserci salvati.
Grazie di questa testimonianza, Jacopo. Da lontano tutte queste cose si possono immaginare ma non percepire. Ovviamente, i dubbi e le domande senza risposta restano perché tutto è talmente intrecciato che venirne a capo è difficilissimo se non impossibile, anche perché dietro ogni ricordo di tutte quelle persone c’è la violenza e il sangue, e magari la perdita di una o più persone care, da tutte le parti in causa. Il problema del futuro è lì, quanti sono disposti a smettere di combattere per abbracciare una sorta di pace che riesca a far sorgere almeno una prospettiva di futuro?