Geopolitica

Nel Nordafrica del 2018: molte ombre e qualche luce

28 Luglio 2018

Non è passato neanche un decennio delle rivoluzioni che sembrarono sul punto di cambiare il volto del Nordafrica, eppure la sensazione è che sia passato un secolo. Soprattutto nel paese più importante della regione, l’Egitto. Che oggi versa in una situazione peggiore di quella che c’era ai tempi del pur autoritario Hosni Mubarak, quando si diceva che “gli egiziani aprono la bocca solo per andare dal dentista”.

«La rivoluzione egiziana del 2011? Il film più costoso mai girato in questo paese. Comunque non ne dubiti: quella fase è finita, la gente vuole soltanto andare avanti e vivere in pace». A dirlo a Gli Stati Generali è un imprenditore egiziano con passaporto americano, che pretende l’anonimato perché «di quest’argomento è meglio non parlare affatto». In effetti, discutere di politica nell’Egitto del generale Al Sisi non giova alla salute; nel paese sono ormai la norma i divieti di viaggio e il congelamento dei beni per le ONG, le detenzioni arbitrarie, le intimidazioni e gli arresti di manifestanti, dissidenti e giornalisti, la violenza e le peggiori violazioni dei diritti umani (cosa di cui questo giornale si è già occupato più volte).

Nel 2016, Reporters Without Borders definiva l’Egitto “una delle più grandi prigioni per giornalisti del mondo”. E quella che Amnesty International aveva battezzato “la generazione delle proteste”, ossia i giovani scesi per le strade durante la Rivoluzione del 25 gennaio 2011, ora ha un nuovo, ben più tragico soprannome: “la generazione del carcere”.

Il Cairo

«L’Egitto è tornato a essere una vera e propria autocrazia – dice da Copenaghen Rasmus Alenius Boserup, ricercatore senior del Danish Institute for International Studies –. L’intrusione delle forze di sicurezza nella vita privata delle persone è massiccia, molto più che ai tempi [dell’ex presidente] Mubarak». Alenius Boserup sa di cosa parla. «Ho vissuto nell’Egitto di Mubarak per quattro anni. Anche quella era un’autocrazia, ma sembra che l’odierna si sia spinta molto più in là. La gente è spaventata». L’entusiasmo un po’ utopico della Rivoluzione del 2011, che portò milioni di egiziani in piazza a reclamare “pane, libertà e giustizia sociale”, è ormai scomparso. E il paese si ritrova non solo meno libero, ma anche più povero.

E se l’Egitto non ride, la Libia piange. Dopo sette anni di conflitti interni seguiti all’intervento militare occidentale che condusse alla fine del regime di Gheddafi, gli osservatori internazionali esprimono cauto ottimismo sui negoziati tra le parti. Ma per la popolazione libica la vita è un inferno.

Secondo il World Food Programme dell’ONU, la Libia è immersa sino al collo in una grave crisi umanitaria, che comporta povertà, insicurezza, violenza di genere, sfollamenti di massa, carenza di cibo e di denaro nelle banche, e frequenti interruzioni della corrente elettrica. Su una popolazione di 6,4 milioni di persone, quasi un milione e mezzo ha bisogno di assistenza umanitaria.

«Negli ultimi mesi si è rimesso in moto un processo, se non di transizione, almeno di negoziazione. Certo, è un processo un po’ confuso perché gli attori coinvolti sono molti, ma ha portato senz’altro a un miglioramento delle prospettive – spiega a GSG Silvia Colombo, responsabile del programma Mediterraneo e Medioriente dell’Istituto Affari Internazionali a Roma –. Oltre al processo lanciato dall’inviato delle Nazioni Unite Ghassan Salamé, ci sono stati anche dei progressi significativi per ciò che concerne la stabilizzazione di alcune zone, e ciò è stato soprattutto grazie ad accordi raggiunti a livello locale».

E in un paese ricchissimo di idrocarburi, che durante i decenni di regime di Gheddafi si basava su un’economia di rendita, infuria la lotta per il controllo delle risorse. «Il processo politico non potrà condurre a risultati sostenibili senza una revisione del modello economico – continua Colombo –. L’economia di rendita legata agli idrocarburi ormai è diventata fonte di neopatrimonialismo e di corruzione». In effetti nel Corruption Perception Index 2017, la Libia si classifica 171esima su 180 paesi. «Il problema della divisione tra est e ovest è legato perlopiù a una questione di redistribuzione [dei profitti del settore idrocarburico] – sottolinea Colombo –. Di conseguenza è necessario mettere mano a questo dossier se l’auspicio è quello di una transizione politica e istituzionale che vada a buon fine».

Nel frattempo, la guerra civile scoppiata nel 2011 ha significato anche crimini di guerra, esecuzioni extragiudiziali, oltre 200mila sfollati interni, sparizioni forzate e l’assedio prolungato di città come Dena e Benghazi, con conseguenze drammatiche per i civili. Secondo Human Rights Watch, centinaia di civili – soprattutto donne e bambini –, tra cui anche cittadini stranieri, sono ancora detenuti in varie prigioni per presunti legami con membri dell’ISIS, senza alcuna prospettiva di essere rilasciati.  L’ONG per i diritti umani segnala anche le condizioni disumane e i gravissimi maltrattamenti subiti dai migranti e dai richiedenti asilo diretti verso l’Europa, tra percosse, violenze sessuali, estorsioni e lavoro forzato.

Tutto tace, invece, nell’altra potenza nordafricana, l’Algeria. Formalmente ancora guidata dal solito, inossidabile presidente Abdelaziz Bouteflika. In realtà, non si hanno certezze sullo stato di salute del politico, né si sa se sia davvero lui, ormai ottantunenne, a tenere in mano le redini del paese. Quel che è certo è che non pronuncia un discorso davanti alla nazione da sei anni, e che le sue apparizioni pubbliche hanno la stessa frequenza di quelle di un elefante bianco. Ciononostante, tutto indica che Bouteflika si candiderà per un quinto mandato alle elezioni presidenziali del 2019.

Secondo gli esperti sentiti da questo giornale, finché il presidente resterà al comando – anche soltanto formalmente – sarà difficile che si possano verificare veri cambiamenti di tipo politico, economico e sociale. «Nel contesto formale di una repubblica, il sistema politico reale è chiuso – nota Deborah Harrold, docente di politiche comparate all’Università della Pennsylvania, specializzata in Medio Oriente e Nord Africa –. Dietro al presidente c’è un gruppo dirigente di figure in gran parte militari».

Il terremoto della Primavera Araba, che altrove ha spazzato via regimi decennali, non ha smosso di un millimetro lo “scatolone di sabbia”. Non che le vite degli algerini siano facili. «Come la maggior parte dei grandi produttori di idrocarburi, l’Algeria non è stata in grado di sviluppare molto efficacemente il resto della sua economia – spiega Harrold –. Ovviamente si è venuta a creare una vasta economia informale. L’inflazione, la mancanza di opportunità e gli alti tassi di disoccupazione, specialmente fra i giovani, causano difficoltà molto serie».

Quella di Bouteflika è una repubblica fondata non sul consenso, ma sui traumi. È ancora vivissimo il ricordo degli orrori della lunga guerra civile che insanguinò il paese per oltre un decennio a partire dal 1991. E dire che gli algerini hanno guardato con interesse e partecipazione alle rivolte scoppiate in Tunisia ed Egitto, «ma non erano affatto disposti a prendere in considerazione la demolizione dello Stato» sottolinea Harrold. «Chi governa in Algeria sa che sono necessarie molte riforme, specie per quanto riguarda gli investimenti stranieri, e sa che questa situazione non è sostenibile a lungo termine – dice Alenius Boserup –. Ma credo che le situazioni degli altri paesi della regione, soprattutto di Libia e Mali, facciano prevalere una certa cautela rispetto all’idea di intraprendere un cammino di riforme e cambiamento, inclusa la successione di Bouteflika».

Ma oltre a (tantissime) ombre, in Nordafrica ci sono anche delle luci. È il caso della Tunisia, giovane democrazia avviatasi lungo un percorso di riforme importante, giudicato molto promettente dagli osservatori. Non a caso, nel 2015 il premio Nobel è andato proprio al Quartetto del Dialogo nazionale tunisino, formato da quattro organizzazioni della società civile, per il suo “decisivo contributo alla costruzione di una democrazia pluralistica nel paese, sulla scia della Rivoluzione dei gelsomini del 2011”.

Tunisi

«In Tunisia sono stati compiuti enormi progressi in materia di democrazia e giustizia sociale – dice Sarah Yerkes, ricercatrice del Middle East Program del Carnegie Endowment for International Peace –. Rimane del lavoro da fare in campo giudiziario: ad esempio, la Corte costituzionale, incaricata di garantire la costituzionalità della legislazione, non è ancora stata istituita. Ma il ramo esecutivo e quello legislativo funzionano come in qualunque altra democrazia».

Il confronto con il resto dei paesi nordafricani, in effetti, vede la Tunisia in testa in molti settori. Per quanto riguarda la libertà di stampa, ad esempio, nel World press freedom index 2018 di RSF la piccola repubblica si classifica 97esima. Marocco, Algeria, Libia ed Egitto, da parte loro, seguono rispettivamente alle posizioni 135, 136, 162 e 161 su 180 paesi. E nel Corruption perceptions index 2017 si classifica 74esima, seguita da Marocco (81), Algeria (112), Egitto (117) e Libia (171).

Ancora, «la Costituzione tunisina è la più avanzata di tutto il mondo arabo, e rappresenta davvero una rottura con il passato – nota Colombo –; le speranze e le aspettative sulla Tunisia sono molto alte, ed esiste un evidente filo rosso che collega il paese di oggi con gli eventi del 2011». I progressi riguardano pure i diritti delle donne. Lo scorso settembre, ad esempio, il governo tunisino ha revocato la legge che impediva alle donne di sposarsi con uomini non musulmani. Un mese prima, il presidente Essebsi aveva proposto anche l’abrogazione della norma che concede agli uomini il diritto di ereditare il doppio rispetto alle donne.

Molto resta da fare sul piano economico. «La disparità tra regioni e la marginalizzazione economica, tra i principali motori della rivoluzione del 2011, costituiscono ancora dei problemi molto seri – sottolinea Yerkes –. Inoltre, l’economia del paese, che sta appena iniziando a migliorare, deve ancora fare progressi per soddisfare i bisogni della gente, afflitta da tassi di disoccupazione elevati, specie tra i giovani».

Un settore, quello economico, in cui invece se la cava bene il Marocco, considerato uno degli astri nascenti dell’economia mondiale. Secondo il FMI, nel 2017 il PIL è cresciuto del 4%, e quest’anno dovrebbe aumentare del 3%. Nel paese africano è in corso una forte industrializzazione, specie in aree proiettate verso l’Europa come il porto di Tangeri.

Sia chiaro però: non tutto è oro quel che luccica. Anche se l’economia va bene, resta comunque molto da fare. «Il Marocco è caratterizzato da differenze interne molto profonde a livello di sviluppo socio-economico – spiega Sara Borrillo, ricercatrice presso il Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo dell’Università L’Orientale di Napoli –, e le riforme politiche adottate negli ultimi anni non si sono sempre tradotte in miglioramenti tangibili, specie nelle aree più marginalizzate del paese». Il regno marocchino rimane al 123esimo posto nell’indice di sviluppo umano 2015 dello UNDP, facendo peggio di Egitto (111) e Tunisia (97).

Rabat

Secondo l’Unesco, nel 2012 il tasso di alfabetizzazione della popolazione di più di 15 anni era del 69%, e in particolare dell’80% per gli uomini e del 60% circa per le donne. E se in città i poveri (secondo gli standard locali) sono il 5% della popolazione, nelle zone rurali (dove vive quasi la metà della popolazione marocchina) salgono al 14%. Non a caso anche il Marocco, nel 2011, era stato investito da proteste simili a quelle di Egitto e Tunisia, con i manifestanti che chiedevano giustizia sociale, dignità ed eguaglianza, pane e lavoro.

Alcuni parlano del Marocco come della “tigre nordafricana”. Ma per molti la vita è segnata da una drammatica povertà. «Nell’autunno del 2016 un commerciante di pesce morì schiacciato cercando di recuperare il pesce che la polizia gli aveva sequestrato, e gettato in un autocompattatore – spiega Borrillo – un caso che, con le dovute differenze, ricorda quello di Mohamed Bouazizi, il tunisino che diede inizio alla Primavera Araba immolandosi dopo il sequestro della sua merce».

La morte del commerciante, Mohsen Fikri, scatenò una grande mobilitazione nel Rif, la regione montuosa affacciata sulla costa settentrionale del paese, e centinaia di migliaia di persone scesero in piazza in diverse città dando vita al cosiddetto Movimento popolare. «All’inizio del 2017 le forze dell’ordine hanno iniziato a reprimere le manifestazioni, in cui si reclamava lavoro, infrastrutture, ospedali, insomma misure per lo sviluppo locale – continua Borrillo –. E un mese fa il tribunale di Casablanca ha impartito sentenze durissime ai militanti arrestati, con detenzioni fino a 20 anni».

Un’asprezza, sottolinea la studiosa, che lancia un segnale importante. «I manifestanti si erano rivolti direttamente al re – dice – e le sentenze dimostrano che quando migliaia di persone si sollevano in maniera chiara e diretta nei confronti del regime, la reazione è durissima. Intanto le politiche di modernizzazione procedono spedite, e intere bidonville vengono sostituite da progetti di riqualificazione urbana, molto spesso ai danni delle comunità locali».

 

 

Immagini: courtesy of Valentina Saini

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