Geopolitica
La Catalogna mente per giustificare la secessione?
(La foto di copertina, diffusa nel corso della giornata di domenica da mezzi d’informazione vicini ai sovranisti, è un montaggio. La rivendicativa bandiera catalana, la estelada, è stata successivamente aggiunta per aumentare l’emotività dell’immagine)
Ci sono articoli che vanno per scritti per amore della verità, anche se possono scomodare amici e colleghi. Questo è uno di quegli articoli. Non sapevo se scriverlo dopo aver ascoltato il discorso di martedì, quando il Re di Spagna Filippo VI è intervenuto in via eccezionale dopo i gravi fatti accaduti domenica in Catalogna. Mi sono deciso dopo aver letto i titoli dei quotidiani italiani. Copio e incollo dal sito del Corriere della Sera: “Il discorso di Filippo in TV spacca la Spagna”, e copio incollo da quello di Repubblica: “Spagna: Re Felipe difende unità Paese. Discorso breve e duro, senza accenni alle violenze sul voto”. Entrambi i nostri quotidiani di bandiera riportano poi il commento del sindaco di Barcellona, Ada Colau: “Re indegno” e “Non degno di un capo di Stato”.
Mettiamo subito le cose in chiaro. Il Re Filippo VI è il garante dell’unità del Paese, da almeno trent’anni la Corona spagnola svolge funzioni simili a quelle che in Italia sono proprie del Presidente della Repubblica: che difenda (e non spacchi) l’unità della Spagna, oltre a un’ovvietà, è anche il suo dovere. Il ruolo del Re è sancito dalla Costituzione approvata nel 1978 con il voto di oltre 15 milioni persone (in Catalogna ottenne più del 90%). Ada Colau è il sindaco di Barcellona. Per intendersi, sarebbe come se Sergio Mattarella difendesse l’unità d’Italia contro una sedicente minaccia secessionista veneta, e gli rispondesse il sindaco di Venezia. Le due posizioni, per peso nazionale e internazionale, autorevolezza (questa grande nemica del nostro secolo) e ruolo all’interno dello Stato, non hanno paragone. Ma andiamo al nocciolo della questione. L’Italia, o almeno i suoi principali quotidiani, è ancora convinta che domenica in tutta la Catalogna, ma a Barcellona in particolare, si sia consumata una vera e propria carneficina ai danni di una popolazione inerme che reclamava un suo sacrosanto diritto: votare. Mi dedicherò prima alla carneficina e poi al sacrosanto diritto di voto.
Le cifre diffuse dalle autorità catalane sono impressionanti: 893 tra feriti e contusi. Durante la giornata di domenica, il Servizio Medico Catalano ha spiegato che in realtà di quegli 893, che comprendevano già “persone affette da attacchi d’ansia”, oltre 800 erano quelli che si erano semplicemente rivolte a un medico. È evidente che non tutti coloro che si rivolgono a un medico possono essere considerati “feriti” o “contusi”. Tale cifra, tuttavia, ha indotto il presidente dell’Assemblea Nazionale Catalana (ANC), a parlare della “più grave repressione dalla Seconda Guerra Mondiale a questa parte”. Ha anche suggerito al Presidente catalano Carles Puigdemont di chiedere “il ritiro delle forze di polizia dal nostro territorio”, come se si trattasse di forze di occupazione. La cifra è stata poi usata per giustificare la risposta degl’indipendentisti alle “violenze della polizia”, che hanno convocato uno sciopero generale di protesta nella giornata di martedì (non avvallato da CC.OO né da UGT, i due principali sindacati “confederali”) a cui hanno aderito centinaia di migliaia di persone. Quella cifra, 893 feriti e contusi, in definitiva, è stata utilizzata per dare al mondo l’impressione che in Catalogna ci fosse un popolo oppresso da una polizia che usava metodi dittatoriali, post-franchisti dicono loro, cileni diremmo noi.
Le cariche della polizia ci sono state, certo, ma quei numeri sono sembrati da subito esagerati, perché anche osservando i video più crudi, nei quali si possono vedere le ingiustificate violenze di alcuni poliziotti (che devono essere investigate e sanzionate) si stentava davvero a mettere insieme gli elementi sufficienti per arrivare a una cifra così spaventosa: 893 feriti: roba da G8 a Genova. I primi seri dubbi sono cominciati a circolare al momento dell’annuncio dei risultati del referendum: 90,09% di sì su un totale di 2.262.424 schede elettorali “non sequestrate”, corrispondenti al 42,34% degli aventi diritto, molto meno della metà. I no sarebbero stati il 7,87%, 2,03% le schede bianche e 0,89% i voti nulli, per uno strabiliante totale del 100,88%. Il referendum, pur mancanti tutti i voti non pervenuti, cioè sequestrati dalle autorità, e in mancanza dei dati definitivi, viene considerato valido. Ma come? Le autorità catalane erano state in grado, in appena poche ore dalla chiusura dei seggi, di svolgere l’intero spoglio di oltre due milioni di schede e si erano confuse nel calcolare le percentuali? I numeri forniti sono impossibili da confermare o da smentire, dato che le stesse autorità catalane non si sono degnate di spiegare il metodo seguito per identificare gli aventi diritto, visto che i dati dell’anagrafe ufficiale gli erano stati negati dallo Stato perché il referendum era stato dichiarato illegale dal Tribunal Constitucional, la nostra Corte Costituzionale; né hanno poi fornito alcun aggiornamento sulle percentuali nelle ore a seguire. Sono le stesse autorità che parlavano della possibilità di “stamparsi le schede a casa”, della libertà di votare “in qualsiasi seggio si trovasse aperto”, e che hanno lasciato che più persone votassero almeno due volte. E sono le stesse autorità che parlavano di 893 feriti sul campo di battaglia.
Diversi giornalisti, intellettuali e uomini politici hanno analizzato il dato degli 893 tra feriti e contusi nei giorni seguenti, cioè lunedì e martedì, e sin dai primi riscontri si è confermato che la cifra era, almeno, ambigua. È venuto fuori, per esempio, che in tutta la Catalogna risultano ricoverate 4 persone in seguito agli episodi legati agli scontri. Due di queste persone hanno una prognosi “lieve” negli ospedali di Sant Pau e Vall d’Hebron, altre due con prognosi “grave”, in località Calella e Manresa. Dei due ricoverati con prognosi “grave”, uno è un signore che ha avuto un attacco di cuore durante i disordini, una responsabilità solo indirettamente attribuibile alla polizia. Rimane un ricoverato grave. Si tratta di una persona raggiunta da una pallottola di gomma. È stata senz’altro colpita dalla Policia Nacional, perché quella catalana non dispone di munizioni di quel tipo. Speriamo naturalmente che non subisca danni permanenti. Capirete bene, tuttavia, che la cifra di 893 feriti corrisponde poco a una realtà ospedaliera che conosce soltanto 2 ricoverati lievi e 1 grave. A levare la loro voce, in un clima che non incoraggerebbe a farlo, sono stati tra gli altri Felix Ovejero, scrittore, Fernando Savater, filosofo e attivista politico, insieme a diversi giornalisti di numerose testate tra le quali El País, che come forse saprete non è l’organo ufficiale della Santa Inquisizione, ma il giornale d’ispirazione liberal-democratica più diffuso nel Paese. Ma i “fraintesi” non finiscono qui.
Molti di voi ricorderanno certamente una delle testimonianze più indignanti della giornata di domenica. Una ragazza affermava di essere stata vittima di violenze, oltraggi e insulti da parte dei poliziotti spagnoli mentre cercava di raggiungere il suo posto di scrutatrice. “Mi hanno rotto tutte le dita di una mano, una per una, quanta malvagità!” si udiva chiaramente nell’audio della sua intervista. Ora, io sono scettico per natura, e mi chiedevo se fosse possibile che una ragazza con cinque dita della mano rotte potesse rilasciare un’intervista e non invece strillare dal dolore ai quattro venti. Per fortuna ci hanno pensato i giornalisti catalani a fugare i miei dubbi indiscreti. L’hanno invitata a un programma televisivo quella sera stessa, e tra i mezzi sorrisi di molti, la ragazza, con una mano fasciata, ha rivelato che in realtà aveva riportato solo una contusione a un dito. Contusione, non frattura, e a un dito, non a tutti e cinque le dita. Perché lo dico? Non perché ritenga inevitabile che una ragazza che vuol manifestare liberamente le proprie opinioni subisca una seppur meno grave contusione a un dito, ma perché è importante che si sappia, in Italia, dove vedo molta indignazione prêt-à-porter, che si tratta della stessa ragazza la cui testimonianza ha fatto il giro del mondo.
Sono accuse come queste che sembrano servire da giustificazione alla decisione che probabilmente verrà presa lunedì prossimo, cioè di procedere alla cosiddetta DUI, la Dichiarazione Unilaterale d’Indipendenza, come se fosse la logica e normale conseguenza delle violenze di domenica. Le due cose non potrebbero essere più distanti, invece, visto che la secessione della Repubblica Catalana era già prevista dalla polemica Legge di Disconnessione, approvata tra il 6 e il 7 settembre di quest’anno. In quell’occasione vennero commesse due gravi illegalità: il Parlament de Catalunya si auto-attribuì competenze che non aveva, e che non ha, come quella di dichiarare l’indipendenza dallo Stato a cui appartiene, e non si permise alle forze di opposizione di partecipare al dibattito, contingentando i tempi di approvazioni a suon di tappe forzate. È piuttosto semplice: sarebbe come se la Sicilia dichiarasse unilateralmente la secessione dalla Repubblica Italiana con metà del Consiglio Regionale fuori per protesta e poi denunciasse l’aggressione dello Stato centralista che cerca di far notare che non si può, che una cosa sono i discorsi che si fanno al bar, tra una birra e un chinotto; altra, ben diversa, le istituzioni di uno Stato che aspira a definirsi “democratico”.
Queste mie parole non vogliono in alcun modo giustificare gli abusi commessi dalle forze dell’ordine durante il giorno del referendum. Va tuttavia ricordato, e qui veniamo al sacrosanto diritto al voto, che il Tribunal Constitucional aveva dichiarato illegale lo svolgimento di tale consultazione, e che la Magistratura aveva espressamente ordinato ai Mossos d’Esquadra, la polizia regionale, di chiudere anticipatamente i seggi elettorali. Si voleva evitare, appunto, che venissero occupati, e che si rendesse poi inevitabile, appunto, il loro sgombero. Perché i Mossos d’Esquadra non hanno proceduto secondo gli ordini? Perché hanno permesso che venissero occupati i seggi da persone che agivano certamente in buona fede, ma contravvenendo alla legge? Forse per obbligare la Policia Nacional spagnola a occuparsi del lavoro sporco? Sono domande alle quali stanno cercando di dare una risposta in queste ore i magistrati, ma l’ipotesi di reato che si configura più chiaramente è quella di “insubordinazione”. In altre parole, molti di quei Mossos rischiano il posto di lavoro.
E ancora, perché invece di entrare in azione prima che i simpatizzanti del referendum mettessero a repentaglio la loro sicurezza e quella degli altri, nella giornata di domenica, i Mossos sono andati sì ai seggi, ma in ritardo, quando erano già pieni di gente, per chiedere gentilmente se gli fosse consentito entrare? E perché, difronte alla sorprendente risposta, No, hanno girato i tacchi e se ne sono andati? Badate che i Mossos (letteralmente mozzi) non sono soliti comportarsi in modo così premuroso con la popolazione. Nelle proteste del Movimento 15M, a Barcellona e in altre città della Catalogna, seppero anche loro usare i famosi manganelli, che tutto a un tratto sembrano diventati il segno distintivo dei cattivi poliziotti spagnoli. Solo che allora la svolta indipendentista non era arrivata al punto di non ritorno di adesso. Sì, va bene, ci arrivo anch’io, ma lo Stato di Diritto, allora, che fine fa?
È bene essere chiari fino in fondo, in un clima così esasperato, nel quale si usano i termini “spagnoli” e “catalani” con tutte le attenzioni del caso, come se si stessero trasformando in sinonimi di “israeliani” e “palestinesi”, una soluzione può arrivare soltanto da una seria trattativa ai massimi livelli istituzionali. Una trattativa che metta sul piatto le necessarie modifiche costituzionali affinché la Catalogna torni a sentirsi parte integrante dello Stato spagnolo, visto sempre più come il nemico da combattere, oppure che scelga un’altra strada attraverso un referendum le cui regole vengano stabilite dalle due parti in modo consensuale, con le necessarie garanzie giuridiche che servano a creare un nuovo soggetto statale letteralmente immerso nell’Unione Europea. Qualcosa di simile suggerisce oggi Alfredo Pérez Rubalcaba, ex Segretario del Partito Socialista, in un suo editoriale. Chi non è favorevole a una simile iniziativa politica sottovaluta i seri rischi di radicalizzazione che minacciano un paese che nella sua storia recente ha già conosciuto orribili scontri ideologici tra fronti mortalmente contrapposti, fronti che si ha purtroppo la sensazione vadano ricostituendosi.
È altrettanto evidente che l’attuale esecutivo, guidato da Mariano Rajoy, è del tutto incapace di offrire una simile soluzione. Sono anni che da ogni parte gli s’ingiunge di agire, di sedersi a un tavolo con le autorità catalane, un atto che a cui incredibilmente si nega ancora oggi. Ma non si capirebbe lo scenario che abbiamo davanti senza sapere che è proprio il Partido Popular ad aver frenato, ormai nel 2006, l’ultimo, estremo tentativo del Governo nazionale, allora guidato da Jose Luís Zapatero, di approvare un nuovo Statuto d’Autonomia che godesse di un ampio appoggio anche tra gli scalpitanti partiti indipendentisti catalani. Il Partido Popular lo ha affossato perché intuiva alla perfezione – l’ottusità non è detto che non si traduca in scaltrezza politica – che in un clima di scontro radicale avrebbe rappresentato uno dei poli in lotta, con tutti i vantaggi che una balcanizzazione incipiente avrebbe comportato per una simile posizione: ha finito per attrarre consensi come una calamita in ogni regione di Spagna tranne, ovviamente, la Catalogna.
Fronteggiare una simile irresponsabilità istituzionale convocando un referendum che va contro le vigenti leggi è un atto azzardato, incomprensibile, che finisce per svalutare le legittime pretese di un popolo che si sente offeso. Non capirlo, o far finta di non capirlo, è giocare al tanto peggio tanto meglio sulla pelle di milioni di cittadini catalani, e non solo catalani, che desiderano vivere in pace e godersi le libertà conquistate a caro prezzo. L’atmosfera di contrapposizione che si percepisce in queste ore nelle strade della Catalogna, malgrado l’esemplare tradizione non violenta dei suoi cittadini, e che va generando una reazione di segno opposto in tutto il resto del Paese, non potrà mai essere la base della soluzione di cui ha bisogno la Spagna. Aiutiamola, perché è un paese amico che si sente nostro amico, ma per farlo è necessario distinguere con rigore e un minimo di serietà chi lavora per la concordia e chi, invece, sa soltanto soffiare sul fuoco.
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