Geopolitica

Matteino, Jean Claude e il troncio della Val Clavicola

17 Gennaio 2016

Inutile girarci intorno: se ci sono due mondi lontani ben più dei chilometri che li separano sono Rignano e Redange-sur-Attert. L’uno dagli oratori marciò su Firenze, Provincia prima e Comune poi, grazie ai voti comunisti sui quali camminò da buon cattolico con spregiudicata nonchalance; e il resto è cronaca. L’altro, che dimostra più anni di quanti ne abbia, pupillo di quel Jaques Santer la cui Commissione Europea dovette dimettersi travolta dagli scandali, non avendo il Luxembourg particolari problemi amministrativi si dedicò ad una vita non immune da piaceri e, nel tempo libero, si occupò di politica: della presidenza della Banca Mondiale, del governatorato del Fondo Monetario Internazionale e poi della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. È escluso abbia attraversato i portoni tristi quanto finto efficienti delle grandi Istituzioni senza incrociare i guantoni ma li ha sempre accompagnati con qualche buona idea, serene riflessioni serali nella lingua più appropriata e gli ambrati colori di uno scotch d’annata. Un Lussemburghese è sempre un ottimo Second Best in Europa come accadde proprio con Santer quando gli, al solito, irremovibili Brits di Major bruciarono il candidato franco-tedesco Jean Luc Dehaene.

C’è oggi molto di personale nei rapporti tra Italia e Unione Europea ed è un cattivo segno dei tempi; eravamo abituati a scontri duri, durissimi sugli interessi nazionali tra gli Stati membri ma dalla personalizzazione della politica che coincide con la caduta della sua portata tecnica, qualitativa e riformatrice pare non si salvi nessuno e quel “verrò a Roma a Febbraio” è un togliersi i guanti per infilarsi i guantoni in una sfida dal sapore molto caratteriale.
Io non credo che Matteino faccia l’errore dei molti presidenti del consiglio italiani che usavano la politica estera e comunitaria come paravento populista al servizio della politica romana. Credo invece che le divergenze con Bruxelles e alcuni partner lui le conosca bene, siano autentiche, siano ovviamente di natura economica e strategica: quando indica l’Eni come parte dell’interesse nazionale attribuisce alla politica energetica un ruolo esplicito a valenza indisponibile per mediazioni comunitarie perchè l’Europa intergovernativa è quella roba lì, la difesa dei singoli interessi.

Matteino invece ci racconta, perché le ragioni del suo successo impongono questa narrazione, che la scarsa credibilità dell’Italia prima di lui derivi da ciò che lui dice di aver visto, un po’ da lontano, nei suoi ventanni di esperienza politica, e cioè un succedersi di leader italiani che in Europa andavano con il cappello in mano. Se è una narrazione faccia pure, purchè si sappia che non è cosi. Silvio Berlusconi, come sostenne l’Economist, era Unfit to lead Italy ma per formazione personale tutto si può dire tranne che non sapesse trattare. Romano Prodi usò la doppiezza del navigatissimo politico, altro che Mortadella, e trattò a tal punto da finire Presidente della Commissione, cosa non frequente per i grandi paesi fondatori. Due dei migliori commissari europei nella storia comunitaria furono gli italiani Bonino e Monti; il paludato professore fu poi un premier con più sponsor che voti e forte di quelli nelle notti belghe usò più minacce che sorrisi. Non so se Matteino si riferiva al solito Letta, il suo bersaglio preferito nelle beghe tra ragazzotti, ma se pensa agli altri tre di cui sopra sbaglia grossolanamente. La diffidenza europea nei confronti dell’Italia non deriva dalla caratura personali delle sue leadership ma semmai dai difetti congeniti della politica italiana e, ancora di più, dal suo punto debole fondamentale: e cioè dal fatto che un debitore non è mai libero.

Juncker verrà a controllare qui in Val Clavicola quanti fiammiferi si fanno con un troncio; magari vorrebbe anche vedere se rispettano le norme dimensionali delle direttive europee e se il laboratorio è in regola. Matteino gli risponderà a muso duro “Uno!” e si volterà dall’altra parte. Sarà un dialogo tra sordi, certo seguito dai sorrisi e dal “tutto come prima” perchè nessuno dei due è in grado di mettere mano ai due grandi problemi all’origine della tensione tra noi e Bruxelles e chi pagherà il conto saremo noi, europei ed italiani. Come europei paghiamo questa sciagurata Europa intergovernativa, una cosa che non può funzionare perché è una Versailles continua, una serie di trattati di pace tra governi raggiunti ad ogni riunione del Consiglio. Obnubilati dalla “dittatura di Bruxelles”, dai “compiti a casa”, dalla impopolarità della Germania continueremo ad urlare contro Bruxelles rischiando di portare indietro di un paio di secoli la storia dell’Europa non rendendoci conto che a noi di Europa ne serve di più perché financo una Europa Unita di fronte alla Cina, il nostro futuro competitor strategico, appare dimensionalmente inadeguata; la “personalizzazione degli interessi nazionali” iniziata da Berlusconi ma con molti concorrenti sulla scena europea è un tremendo segnale di quel provincialismo diffuso, ancor più del populismo, così lontano dalla cultura cosmopolita necessaria per tenere insieme i difetti di tutti e goderne dei pregi. In questa europa Intergovernativa dove non solo non si sogna ma non si fanno progetti ci siamo persi e abbiamo perso la Mogherini: la scelta di avere MR. PESC si è rivelata un errore perchè quell’incarico, debole per definizione, richiede una spiccata posizione super partes mentre i guantoni intergovernativi abbisognano di sponde. Sbagliammo quindi non solo la persona, come si disse subito, ma pure il ruolo e adesso dobbiamo leggere con preoccupazione che forse l’Unione la sosterrà per la imminente gara alla segreteria dell’ONU (così magari ci giochiamo anche il seggio al Consiglio di Sicurezza su cui lavoriamo da tempo). Un disastro.

Come italiani poi, beh, paghiamo da troppo tempo conti spaventosi. È dalla notte tra il 9 e 10 Luglio 1992, quella della Repubblica sull’orlo del baratro come disse Amato, che ogni anno assistiamo a manovre di aggiustamento dei conti dello Stato: ogni manovra significa un contentino e una bastonata fiscale. In 23 anni di cure, che cure non furono mai ma solo manutenzioni, e di bastonate, che tali invece furono sempre, il debito pubblico è cresciuto più del reddito ed è passato dagli 850 miliardi di Amato ai 2.200 di Renzi con, se non bastasse, una economia che all’epoca reagì partorendo gli anni del Nord Est e oggi arranca sfibrata tra i capannoni vuoti. Vogliamo davvero discutere sul perché in Europa abbiamo il cappello in mano? I debiti si pagano, non si manutengono per un quarto di secolo perchè il creditore non ci abbocca più.

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