Geopolitica
Macron e la riforma che non piace a nessuno
Parigi brucia ma Monsieur le Président non molla. Lunedì 27 marzo Macron, davanti a 11 milioni di telespettatori, ha ribadito la fermezza con la quale avrebbe attuato la riforma delle pensioni, peraltro già presentata durante la campagna elettorale. L’11 marzo scorso il testo è stato approvato in Senato; mentre cinque giorni dopo il primo ministro Elisabeth Borne ha comunicato all’Assemblea nazionale che il governo, ricorrendo all’articolo 49/3 della costituzione, avrebbe fatto approvare la legge senza una formale votazione.
Visti i malumori politici e i gli spropositati disordini sociali sorti in seguito a questa decisione, Macron ha affidato al primo ministro il difficile compito di ampliare il numero di deputati, conducendo consultazioni nelle prossime settimane ai margini della maggioranza attuale. Il capo di stato ha inoltre dichiarato che il suo primo riguardo sarà quello di fermare le violenze lungo le strade della Francia. Infatti durante la scorsa settimana si sono verificati duri scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, con atti di vandalismo, feriti e arresti. Martedì 28 marzo, giorno della mobilitazione nazionale, stando alle stime del ministero degli interni sono scesi per le strade del paese 740.000 francesi; secondo gli organizzatori 2 milioni. Il giorno seguente Elisabeth Born ha invitato a Matignon i vari gruppi parlamentari e i sindacati alla ricerca di un dialogo per pacificare il paese. L’incontro con i gruppi sindacali è previsto per oggi, vigilia del nuova mobilitazione nazionale. Il governo teme che la Francia debba nuovamente prepararsi ad una lunga giornata di manifestazioni e disordini sociali.
Purtroppo per sindacati, Mélenchon e compagni, la concessione del sacro rituale della concertazione previsto per oggi, sui punti fondamentali della riforma, sarà un dialogo tra sordi. Infatti il presidente della Repubblica non può decidere di liberarsi dall’obbligo di promulgare una legge approvata in entrambe le camere. La riforma delle pensioni è cosa fatta. Si attende solo il via libera del Consiglio costituzionale che emetterà la sua decisione entro il 21 aprile.
In Italia, come in Francia, le maggiori reazioni sono state avverse alla decisione di Macron. Nel nostro paese si è scritto che il presidente francese sta attuando un golpe, che la riforma è inquietante. La sezione parigina del PD ha aderito alla manifestazione di martedì scorso: “Abbiamo visto nel nostro paese d’origine i danni enormi causati dalla regressione dei diritti sociali, in particolare di quelli dei giovani, dei lavoratori, delle fasce più povere e dei pensionati. Non lasciamo succedere lo stesso in Francia”. Nessun leader politico di rilievo ha rilasciato limpide dichiarazioni a favore della riforma in questione. A più livelli si sentono ripetere le medesime parole d’ordine, ossia che gli italiani dovrebbero imparare dei francesi e che le politiche di Macron, nonostante la sua storia politica, sono di destra, contro i giovani e contro i lavoratori.
Ma quale terribile sacrificio sta chiedendo al proprio popolo il presidente della Repubblica? La riforma in questione prevede un innalzamento dell’età pensionabile di 2 anni a partire dal 2030, da 62 anni si passa a 64. Nei prossimi sette anni l’età salirà di 3 mesi ogni anno. Il sistema di accesso alla pensione sarà penalizzante economicamente per coloro che non raggiungeranno 43 anni di lavoro ed incentivante per coloro che decideranno di posticipare il pensionamento. È previsto l’innalzamento della pensione minima fino a 1200 euro e l’abolizione dei i regimi speciali per alcune categorie di lavoratori.
Macron è già stato protagonista di decisioni impopolari. Durante il suo primo mandato, la riforma del mercato del lavoro e la decisione di innalzare le tasse sul gasolio scatenarono proteste su scala nazionale, nacque il movimento dei gilet gialli e la popolarità Macron calò vertiginosamente. Tuttavia venne rieletto. Inoltre, la situazione economica attuale della Francia, dopo sei anni di presidenza macroniana, è tutt’altro che fallimentare. Il tasso di disoccupazione registrato a fine 2022 era del 7,2%, il livello più basso dal 2008. Il tasso di disoccupazione giovanile è sceso al 16%, nel 1998 era pari al 22%. Dal 2000 al 2021 gli stipendi medi dei francesi sono cresciuti passando da 25.000 a 40.000 euro.
Ma la morale di questa storia è altrove. Non si tratta di argomentare sul fallimento o il successo politico del presidente francese. Nemmeno proporre interpretazioni su cosa sia di sinistra, e cosa no. Tantomeno discorrere sulla rinascita del conflitto sociale o sui funzionamenti del bicameralismo francese. Sarebbero dialoghi lunghi e interessanti. Ma la morale, dicevo, è altrove.
Il ripensamento dei sistemi pensionistici delle democrazie avanzate è una fondamentale priorità sulla quale costruire il futuro delle giovani generazioni.Viviamo in società dove l’invecchiamento corre mentre la natalità, ormai da decenni, frena. I numeri italiani che descrivono questa situazione, come di costume, sono tra i più allarmanti d’Europa, ma il processo sociale e demografico in corso riguarda tutto l’Occidente. Il nostro paese è uno dei più vecchi del Vecchio Continente, il 24% della popolazione ha più di 65 anni. La spesa pensionistica è superiore al 17% del Pil (la media europea è del 10%). Di contro, il tasso di natalità è, ormai da quarant’anni, ampiamente sotto il livello di equilibrio tra generazioni.
Nonostante ciò nel nostro paese l’età media di uscita dal mercato del lavoro è compresa tra 62 e 64 anni. Quindi, con il passare degli anni aumentano sempre più i gruppi di persone che escono dal mercato del lavoro; le dimensioni di questi gruppi sono di circa 800mila cittadini. I gruppi di persone attorno ai 10 anni di età, che fra una quindicina d’anni dovranno pagare pensioni a zii, genitori e nonni con aspettative di vita molto elevate, sono di circa 500mila persone. I nati al 1 gennaio 2022 sono stati 407.634.
È abbastanza intuitivo comprendere che una tale dinamica sociodemografica non sia sostenibile economicamente sul lungo periodo. Non è un caso che, ormai da vent’anni, gli oneri sociali pagati dai lavoratori non coprano il totale dei contributi pensionistici versati dallo Stato. I’INPS su un bilancio di 440 miliardi, nel 2022 presentava un buco di 130 miliardi. Lo stesso ente comunica candidamente ai giovani contribuenti che termineranno di lavorare oltre i settant’anni con pensioni miserrime e dovranno pagare contributi sociali sempre più elevati.
Nonostante l’inestimabile valore elettorale di 17 milioni di pensionati e di tutti coloro che stanno attendendo il fatidico momento, la realtà non ascolta le piazze, non ha orecchie per vuote ideologie o deprimenti populismi. Sindacati e partiti politici sono sempre in prima linea nell’ostacolare qualsiasi tentativo di riforma del sistema pensionistico. Tutto, sempre solo per ragioni elettorali: i giovani sono pochi, disinteressati alla politica e non votano.
Non so se le politiche di Macron siano di destra, di sinistra o di centro. Certamente tagliare drasticamente la spesa pensionistica e ripensare un sistema sostenibile è una necessità da cui dipende il futuro sociale, economico e culturale delle giovani generazioni. E non parlate di diritto acquisito.
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