Geopolitica

Movimenti, ‘Dal Cile a Hong Kong, i rischi dell’inesperienza’

9 Novembre 2019

Intervista ad Antonio Moscato

Il mondo è attraversato da una serie di mobilitazioni sociali di massa che, a differenza delle primavere arabe del 2011, non si concentrano in un’area circoscritta, ma esplodono, pur con caratteristiche diverse, dall’America Latina al Libano, da paesi africani come Algeria e Sudan fino all’Iraq e a Hong Kong. Per chi pensa che il conflitto sociale sia un fattore politico centrale si tratta di fenomeni che esprimono dinamiche sociali che, se analizzate con cura, permettono di trarne delle lezioni. La sconfitta sociale dei lavoratori e la crisi storica della sinistra, invece, sembrano aver prodotto una perdita della capacità di analizzare ciò che avviene nel mondo in modo autonomo, a conferma che non solo la storia anche la cronaca spesso viene scritta dai vincitori. Per cercare di recuperare il filo di un metodo di analisi indipendente ci siamo rivolti ad Antonio Moscato, per lunghi anni docente di Storia del Movimento Operaio all’Università di Lecce, studioso di orientamento marxista con una lunga militanza politica alle spalle. Con lui iniziamo a discutere cercando di capire se sotto le particolarità nazionali sia possibile individuare una tendenza più generale.

In America Latina come in Libano, in Algeria e in Sudan fino a Hong Kong: le masse ritornano protagoniste e la questione sociale rimanda immediatamente a quella democratica. Possiamo inquadrare tutti questi movimenti in una tendenza generale, un po’ come si è fatto nel 2011 parlando di ‘Primavera Araba’?

E’ la tentazione di molti, tra cui i complottisti, che naturalmente però escludono da quest’analisi paesi come la Bolivia, che considerano un paese diretto da un governo progressista. L’elemento comune in realtà è che c’è un peggioramento della situazione economica in molti paesi, iniziato nel 2008 e acutizzatosi nel 2011, un processo che è iniziato in ordine sparso e che poi si è sincronizzato all’improvviso, tanto che qualcuno l’ha paragonato al 1968 o addirittura al 1848. In effetti è possibile scorgere alcune analogie, ma queste esistono soltanto come riflesso della crisi, dell’aumento generalizzato delle disuguaglianze e dei livelli di corruzione manifestatosi quasi ovunque, come emerge dalle rivendicazioni di questi movimenti.

Dal punto di vista analitico siamo schiacciati tra due letture. Una è quella ipersemplificata per cui la storia è fatta dai leader, dai parlamenti e dai governi e che ignora quello che gli americani chiamano il deep state, apparati spesso privi di colore politico ma non per questo meno decisivi, anzi. Il ‘complottismo’ cerca di scavare dietro queste verità ufficiali, ma a sua volta cade in un’altra banalizzazione, cioè l’idea delle cricche che pilotano milioni di persone col telecomando: Soros, la CIA, il Gruppo Bilderberg… Come se ne esce?

Uscirne è molto difficile, perché il complottismo è una tendenza radicata e che deriva dal socialismo reale, da una visione del mondo per cui qualunque espressione di dissenso era frutto di una manovra della CIA, senza tuttavia riuscire a spiegare l’incapacità dell’URSS di ricambiare l’Occidente con la stessa moneta. E’ una visione che è stata fatta propria anche dal movimento operaio di paesi come l’Italia, in cui il PCI veniva considerato un partito particolarmente avanzato. Questo spiega, ad esempio, l’enorme ostilità nei confronti della mobilitazione della classe operaia polacca contro il proprio governo oppure di quella ungherese nel 1956. E’ un modo di analizzare la realtà che è entrato nel senso comune e che, del resto, ha origini lontane. Nei Promessi Sposi Manzoni racconta che Renzo viene additato come un agente della Francia semplicemente perché ha cercato di fare da paciere durante il moto dei forni a Milano. Questo tipo di lettura, ad esempio il fatto che si attribuisca in qualche misura la fine del socialismo reale alle manovre di Papa Woityla, oltre che distorcere la realtà ostacola la creazione di un coordinamento internazionale tra le diverse lotte.

Prendiamo l’America Latina…

In America Latina vedi che quella lettura dei fatti non regge perché la ribellione popolare si rivolge contro governi molto diversi tra loro. Capita in Cile, ma anche a governi considerati dai complottisti progressisti come quelli del Venezuela, del Nicaragua, della Bolivia, così come è successo in Brasile nel 2013 coi corpi speciali che sparavano sulla gente che protestava contro gli aumenti delle tariffe del trasporto pubblico. In realtà, anzi, l’unico elemento comune è che ogni paese, persino nelle regioni più povere dell’Africa o dell’America Latina, dispone di corpi speciali dotati delle attrezzature più costose e sofisticate per reprimere l’opposizione sociale.

Spesso sono gli stessi governi ‘progressisti’ a incoraggiare quel tipo di narrazione dei fatti…

Nel 2011 ero in Venezuela e mi ha impressionato molto il modo in cui venivano raccontate le primavere arabe e l’interpretazione complessiva del mondo che veniva data. Era un atteggiamento che rivelava i prodromi della successiva crisi del chavismo. Su Telesur giornalisti cubani e argentini di matrice politica stalinista avevano adottato un taglio assolutamente fazioso e apologetico nei confronti di personaggi come Assad e Gheddafi. Tutto ciò, come dicevo, ostacola la possibilità che si crei un coordinamento tra le diverse mobilitazioni nei paesi dell’America Latina. Un ostacolo che si aggiunge a una difficoltà legata anche a problemi di carattere strutturale, economici e culturali. In Venezuela e in Ecuador, ad esempio, mi ha colpito la scarsa conoscenza della situazione politica e sociale degli altri paesi dell’America Latina, con l’eccezione di alcuni settori cattolici, che invece producono riviste e analisi interessanti su ciò che avviene intorno a loro.

Possiamo considerarlo l’effetto di una sconfitta della sinistra antistalinista?

Sì, una sconfitta a cui di recente si è aggiunta la delusione provocata dal voltafaccia di Syriza, che in qualche modo ha chiuso la prospettiva che la crisi iniziata nel 2008 e acuitasi nel 2011 potesse avere una soluzione da sinistra. Nel 2015 le mobilitazioni erano ancora in una fase ascendente. L’accettazione del memorandum da parte di Tsipras coincide anche temporalmente con l’inizio del riflusso.

Tra le grandi mobilitazioni che attraversano il mondo quali sono secondo te i casi più interessanti?

I casi più interessanti mi sembrano Libano e Iraq, dove però mi pare difficile che le mobilitazioni abbiano successo a breve scadenza, perché ci sono fattori esterni che possono intervenire pesantemente.

La posta in gioco è la posizione geopolitica dell’Iran nella regione…

Certo, quando dico fattori esterni mi riferisco proprio all’Iran. I pasdaran sono già intervenuti alcune volte in quei paesi. Tutto sommato per i movimenti popolari avere a che fare con la polizia tradizionale è più semplice, ma in Libano, così come in Bolivia e in Venezuela abbiamo visto entrare in azione milizie formate dai sostenitori del governo. E uno degli scenari possibili è proprio quello delle controrivoluzioni preventive, un po’ come in Germania un secolo fa e come nel 2011 è successo in Bahrein, con un intervento durissimo che ha stroncato la rivolta sul nascere.

Un pericolo rafforzato dal fatto che questi movimenti sono estremamente deboli.

In effetti ci troviamo di fronte a una situazione molto interessante, ma in cui emerge l’assenza di una direzione politica. E’ positivo, naturalmente, che nella società emergano forze nuove, ma questo implica che si manifesti una dose di inesperienza. Prendi gli avvenimenti dell’Argentina nel 2001. In nome del ‘que se vayan todos’ e dell’assemblearismo quel movimento ha escluso qualunque partecipazione alle elezioni, col risultato che dopo una dura lotta contro l’agenda neoliberista di quegli anni si sono ritrovati con un peronista e neppure di sinistra come Kirchner al governo, senza che quella lotta abbia sedimentato nulla. Io non condivido l’ossessione elettoralista che affligge la sinistra italiana, ma penso che quando c’è una mobilitazione sociale importante anche lo strumento elettorale possa essere preso in considerazione.

Quindi, tu dici, di fronte a questa impreparazione il rischio di un intervento repressivo è forte.

Sì ed è un rischio che si corre un po’ dappertutto. Ho fatto l’esempio del 1919 in Germania, la rivoluzione in cui morì la Luxemburg. Quella che viene abitualmente presentata come un’insurrezione irresponsabile in realtà fu una manifestazione di oltre un milione di persone senza una direzione riconosciuta , che, proprio per questa ragione, fu possibile stroncare con relativa facilità. In Sudan, dove oggi c’è un preaccordo tra opposizione e militari per una transizione democratica, c’è questo rischio. Ma anche a Hong Kong la situazione si sta facendo pericolosa. Ripeto: che entrino in campo forze nuove e inesperte, meno avvezze alle compromissioni, è positivo, ma dove non c’è una direzione politica visibile c’è il rischio che l’inesperienza conduca a giudicare in modo errato i rapporti di forza senza rendersi conto che, nel caso specifico, la valutazione va fatta su un terreno complessivo e che la posta in gioco riguarda non solo Hong Kong ma l’intera Cina. L’imprudenza e la leggerezza poi espongono anche a provocazioni e interventi esterni.  Abbiamo visto le bandiere americane e britanniche, che magari sono cinque, ma finiscono per giocare a sfavore della mobilitazione.

Veniamo all’Italia. L’antinomia establishment–antiestablishment, europeismo-sovranismo coprono il fatto che Lega e M5S esprimono la rabbia sociale della piccola borghesia, colpita dalla crisi e scaricata dal grande capitale da Monti in poi.

Sono d’accordo, ma tra le due forze ci sono alcune differenze. La Lega ha una struttura più forte e radici più profonde ed è caratterizzata dalla centralità del discorso xenofobo. I cinque stelle non hanno alcun punto di riferimento saldo in termini ideologici e culturali e quindi oscillano al vento e sono espressione di un malessere con cui una sinistra meno stupida avrebbe potuto cercare di interloquire, magari elaborando una tattica ad hoc. A Taranto, ad esempio, dove i cinque stelle avevano preso una posizione più corretta sull’ILVA, un intervento in questo senso avrebbe potuto essere messo in campo. Invece ci si è limitati a insultare i cinque stelle finendo per spingerli nelle braccia della Lega.

Buona parte della sinistra ha bollato i cinque stelle come fascisti e in generale c’è quest’abitudine di vedere il fascismo ovunque, trascurando il fatto che il fascismo è stato un fenomeno maturato in un contesto storico determinato come reazione a un’avanzata dei lavoratori.

Il problema è che ogni movimento spontaneo e imprevisto, ad esempio i gilet gialli, può essere utilizzato anche dalla destra. La sinistra però ha dimostrato una scarsissima capacità di stabilire un rapporto con questi movimenti. Prima di sparare a zero su di essi si sarebbe dovuto capire come potevano evolvere e chi stava cercando di appropriarsene. Del resto lo stesso fascismo alle sue origini è stato caratterizzato da una forte ambiguità, pensa ad esempio, all’iniziale rapporto che ebbe con fenomeni come l’interventismo e l’arditismo, e più in generale con i larghi settori piccolo borghesi e anche popolari esasperati dalla crisi del dopoguerra. L’iniziale ambiguità però fu eliminata rapidamente, in Germania con la Notte dei Lunghi Coltelli, in Italia definitivamente con l’assassinio di Matteotti. E quando qualcuno a sinistra pensò che era necessaria una tattica per intervenire sull’ambiguità questa ormai era scomparsa.

A questa situazione la sinistra, sia politica che sindacale, reagisce con gli appelli all’unità fine a se stessa, il cretinismo parlamentare e l’assoluta assenza di una strategia politica indipendente da investire sul terreno sociale.

Esistono solo la tattica elettorale e la ricerca del personaggio da candidare. Anche per quanto riguarda il PD in Umbria è impressionante che di fronte alla crisi l’unica cosa che sono riusciti a fare è stata trovare un albergatore dietro al quale nascondersi e che quel partito sia diretto da uno il cui merito maggiore è essere fratello del commissario Montalbano.

Più a sinistra invece sembra che ci sia il mito della magistratura e dei tribunali. Se passiamo in rassegna le personalità in voga a sinistra troviamo Ingroia, Grasso, De Magistris, Pisapia.

Sì, Rivoluzione Civile tra queste ha segnato forse il massimo punto di caduta ed è il mito di un legalitarismo che sembra ignorare il fatto che invece la popolazione abbia spesso una pessima considerazione della magistratura perché si rende conto che questa non tutela gli interessi dei più deboli. Ma tutto questo è frutto del problema più generale che dicevo prima e cioè che si cercano intese finalizzate alle prossime elezioni invece di aprire una discussione comune su come unificare e dare una prospettiva strategica realmente anticapitalistica alle molte lotte settoriali e parziali, utili e in cui è necessario continuare a impegnarsi, ma inevitabilmente insufficienti.

L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info dell’8 novembre.

Analisi di Antonio Moscato e materiale internazionale si trovano sul blog Movimento Operaio.

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