Geopolitica
Lo scontro tra governo federale e statale sulla riforma elettorale
Dopo essere uscito dalla Casa Bianca il 20 gennaio dell’anno in corso Donald Trump è rimasto in grande misura silenzioso anche perché ha perduto l’accesso ai social media e in particolar modo Twitter che era divenuto il suo meccanismo favorito per comunicare. Il recente raduno annuale del COPAC (Conservative political action conference) tenutosi in Florida gli ha offerto l’opportunità di ritornare a galla. L’ex presidente ha ripreso le sue consuete tematiche annunciando che il suo viaggio politico è “lungi da essere terminato” e che si potrebbe ricandidare per “sconfiggere i democratici una terza volta”. L’asserzione è vera solo nel fatto che vinse l’elezione presidenziale del 2016. Per il resto, sotto la sua guida i repubblicani non hanno avuto esiti elettorali positivi. Lo ha anche riconosciuto il senatore repubblicano della Louisiana Bill Cassidy il quale ha detto che “negli ultimi quattro anni il suo partito ha perso la maggioranza alla Camera (2018), la presidenza e la maggioranza al Senato (2020)”.
Quando un partito perde di solito la leadership fa un esame di coscienza per capire cos’è successo, scegliendo nuovi candidati e apportando cambiamenti alla piattaforma che conducano a esiti favorevoli alle prossime elezioni. Il Partito Repubblicano sembra essersi però congelato con la continua leadership all’ex presidente perdente, anomalia in tempi recenti, poiché un candidato presidenziale sconfitto si fa da parte dando l’opportunità ad altri. Trump però non intende seguire questa strada e vuole che i 17 legislatori repubblicani, 10 alla Camera, 7 al Senato, che hanno votato coi democratici nella vicenda del suo secondo impeachment, vengano cacciati tutti. In effetti, Trump si riconferma il “padrone” del Partito Repubblicano.
L’ex presidente continua a non guardare in faccia la realtà, ripetendo che la vittoria nel 2020 gli è stata rubata. Partendo dalla falsariga della frode elettorale il Partito Repubblicano ha iniziato una campagna legislativa al livello statale di imporre seri limiti all’esercizio del voto. In effetti, quando i repubblicani perdono, la colpa non è dei loro candidati e i programmi offerti ma dal fatto che i loro avversari hanno abusato il sistema e quindi bisogna cambiare le regole del gioco. La strada repubblicana per non essere derubati di nuovo è già emersa con una lunga serie di nuove proposte legislative che mirano a ridurre la possibilità degli americani di votare.
A causa della pandemia, nell’elezione del 2020 il voto per corrispondenza è aumentato notevolmente per ovvie ragioni di sicurezza. In parte ciò ha condotto a un flusso storico alle urne. 158 milioni di americani hanno votato, ossia il 66 percento degli aventi diritto al voto. Queste cifre dovrebbero essere celebrate come vittoria della democrazia ma non per i repubblicani i quali si interessano solo alla loro vittoria e non all’importanza dell’esercizio della democrazia. In passato il voto per corrispondenza era completamente accettabile perché era usato più dai repubblicani che dai democratici, specialmente negli Stati come la Florida e l’Arizona con molti elettori anziani e le zone rurali del Paese. Nell’elezione del 2020 però il voto per corrispondenza è stato usato in massa anche dai democratici. Trump aveva attaccato il voto per posta citando frode elettorale, che secondo tutti gli studi è inesistente. Paradossalmente questa sua campagna lo ha danneggiato in Georgia, Stato critico, ribaltato da Biden con un margine di 12 mila voti. Secondo alcuni analisti però più di 20 mila elettori repubblicani non hanno votato nel Peach State, avendo creduto la retorica di Trump sull’inaffidabilità del voto per posta.
“The big lie” (la grande bugia) che Trump abbia vinto l’elezione del 2020 ha spinto 33 Stati controllati dai repubblicani (in 23 controllo assoluto di legislature e governatori) a introdurre nuove leggi elettorali che ridurrebbero le opportunità per l’esercizio del voto. Queste leggi colpirebbero principalmente i gruppi minoritari e includono anche Stati tipicamente in bilico come la Georgia, l’Arizona, la Florida, Il Texas, e l’Ohio. Il Brennan Center for Justice della Facoltà di Giurisprudenza alla New York University, gruppo tendente a sinistra, ha calcolato che ben 235 nuove proposte di leggi elettorali sono già state introdotte. In linea generale ridurrebbero il numero di giorni disponibili di voto anticipato, aumenterebbero i controlli delle carte di identità, richiesti al momento da solo sei Stati. In Arizona, un disegno di legge darebbe alla legislatura statale il controllo totale di scegliere i voti elettorali per l’elezione presidenziale, ignorando il volere degli elettori.
I risultati elettorali del 2020 hanno sorriso ai democratici poiché hanno mantenuto la maggioranza alla Camera e con il voto della vicepresidente Kamala Harris in casi di parità (50 a 50) anche una lieve maggioranza al Senato. I democratici stanno però anche loro agendo con il loro potere legislativo per una riforma elettorale. Hanno già approvato HR 1 (For the People Act of 2021) alla Camera che riformerebbe le elezioni in America. Creerebbe un minimo di uniformità per assicurare tutte le opportunità all’esercizio del voto. Imporrebbe la possibilità di votare anche prima del giorno ufficiale delle elezioni come già avviene in molti ma non tutti gli Stati. Fornirebbe fondi agli Stati per spese elettorali, imporrebbe regole per le ristrutturazioni distrettuali che spesso favoriscono i repubblicani, e richiederebbe che i candidati presidenziali rendano pubblichi i loro redditi. Quest’ultimo requisito è una stoccata a Trump il quale, come va ricordato, è stato l’unico candidato presidenziale in tempi recenti a mantenere segreti i suoi redditi, aumentando sospetti sui conflitti di interesse.
HR1 avrà strada in salita al Senato come tutte le altre leggi poiché alla Camera Alta bisogna raggiungere la soglia di 60 voti su 100 per avanzare ai voti a causa della regola del filibuster. I democratici potrebbero eliminare la regola del filibuster al Senato e convertirla a semplice maggioranza ma due dei senatori democratici, Joe Manchin (West Virginia), e Kyrsten Sinema (Arizona) fino al momento si sono opposti.
Le due strade per la riforma elettorale mirano a tirare l’acqua al proprio mulino ma quella dei democratici riflette una consapevolezza dei principi democratici. Più gente vota, meglio è per i democratici ma anche per confermare gli Stati Uniti come Paese democratico per eccellenza. La strada dei repubblicani di limitare il voto e renderlo più difficile riflette la poca fedeltà ai principi democratici confermata da Trump. Attualmente si tratta di un’ideologia del suo partito che continua a venerarlo come loro salvatore e mantenere il potere dei bianchi in un Paese in cui i gruppi minoritari continuano a fare sentire la loro voce e fare valere i loro diritti.
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