Geopolitica

Dietro alla missione in Niger c’è di più, molto di più

27 Dicembre 2017

Che gran fascino deve avere una notte in un ex Fortino della Legione Straniera dalle mura rosse e cotte sotto il sole dei 50 gradi del deserto del Tenerè, un nome che da solo evoca i suggestivi occhi profondi seminascosti dalla Tagelmust dei Tuareg che osservavano le moto della Parigi Dakar filanti nel nulla delle sabbie in uno stridio esotico da preglobalizzazione. Peccato che la corsa non si tenga più, che i soldati italiani vi alloggeranno per ben più di una notte e non saranno in un viaggio avventura ma solo in una avventura dai contorni bui come una notte nel deserto. Tanto per sapere cosa sia e dove sia il Niger del fortino Madama vediamolo in due-dati-due rubati dal sito della CIA che sì, è come Wikipedia ma più fico da citare.

Grande più o meno due volte il Texas (famo a capisse, dicono gli americani) è una nazione senza sbocchi sul mare, circondata da nazioni in guerra (Ciad, Mali, Libia, Nigeria) a rischio guerra (Algeria, Benin) e affamate (Burkina Fasu). 20 milioni di abitanti su 8 gruppi etnici che per l’80% pregano Allah. Il 50% della popolazione è sotto i 15 anni, il tasso di fertilità è tra i più alti del pianeta con una mortalità infantile entro i primi 4 anni di vita pari al 25% per la malnutrizione. Il deserto copre tre quarti del paese, il reddito è tra i più bassi del mondo e si aggira sui 1000 U$D, il 19% sa leggere e scrivere ma le cose più geopoliticamente rilevanti sono che la lingua ufficiale è il Francese, la moneta il Franco CFA, la risorsa principale l’Uranio e la prima azienda del paese è Areva, la multinazionale dell’energia naturalmente statale e naturalmente francese che gestisce l’intera filiera nucleare e che come di tradizione lascia ai nigerini le briciole della ricchezza cavata.

Rinvio i maniaci della materia a un reportage di Analisidifesa  http://www.analisidifesa.it/wp-content/uploads/2014/07/Niger.pdf  che non lascia altri spazi alle fantasie e mi limito a ripetere la domanda: che ci andiamo a fare?

In Niger ci sono i “buoni”: francesi, americani e tedeschi che stanno combattendo i “Cattivi” terroristi dell’integralismo islamico di più o meno tutte le sigle conosciute. E ci sono quelli di un mondo di mezzo che noi annoveriamo tra i “cattivi” e che pensano invece di vivere la loro vita: i cosiddetti trafficanti di uomini. Il Niger è da sempre un luogo di passaggio tra est e ovest dell’Africa subsahariana e di recente il principale punto di transito delle carovane che trasportano sui pick up quei poveracci che finiscono sui barconi libici dopo un viaggio di una crudeltà inimmaginabile. Lo snodo è la città di Agadez, persa nel deserto più deserto che da sempre vive della economia connessa con le migrazioni: una Casablanca lontana anni luce dal Cafè Americain di Rick ma ancor più affollata di gente in cerca di un posto dove fuggire per sopravvivere. I francesi lo sanno benissimo e in questi anni non hanno fatto nulla per interrompere il passaggio giacchè avrebbe significato perdere il supporto delle tribù locali e della popolazione della città, fondamentale nella guerra ai terroristi. Queste carovane puntano a nord verso il passo al confine libico che dovrebbe essere presidiato dal Fortino Madama, nuova caserma degli italiani. Dire che i 470 uomini della prima spedizione possano minimamente influire sul traffico delle carovane è una bugia alla quale è difficile anche voler credere volendolo fortemente: perché sono pochi e perché il governo non ci ha detto la cosa fondamentale e cioè quali siano le regole di ingaggio. Che faranno bersaglieri e paracadutisti, si metteranno a sparare sulle carovane? Escluso, ovviamente. Controlleranno i documenti? E con quale autorità? E con che poteri? E dati da chi? E chi potranno fermare? No, il traffico dei migranti in quelle zone è cosa da soft power, non da manu militari. Tu puoi pensare di intervenire offrendo una opportunità economica alla popolazione locale diversa da quella generata dal traffico delle carovane e per quanto sia stato firmato un accordo economico tra alcuni paesi europei e il Niger non se ne vedono i presupposti e gli effetti non potranno essere che di lungo periodo.

Ne discende che nostri saranno il chip del governo sull’altra partita, quella guidata dalla Francia e tesa a combattere il terrorismo islamico e stabilizzare la regione. Non che sia meno importante, anzi: ma andrebbe detto! E andrebbero chiarite oltre alle regole di ingaggio e alla copertura giuridica per il nostro contingente anche chi comanda la missione. E, ancora, sarebbe il caso di capire quale sia il quadro delle relazioni internazionali all’interno del quale essa si dispiega perché sarebbe una assoluta novità, una inversione di tendenza storica vedere la politica estera italiana con un riferimento a Parigi e non a Washington e Bruxelles.

Eppure sembra proprio questa la strada scelta dal governo Gentiloni: un cambio di linea sottaciuto come da stile del personaggio ma quasi rivoluzionario nella tradizione italiana post conflitto mondiale, un atto di realismo in un momento in cui è venuta a mancare la sponda del liberalismo internazionale americano anche solo nella sciagurata declinazione isolazionista di Barak Obama. Con una America che pensa a se stessa, che sceglie manicheisticamente amici e nemici in una votazione Onu su Gerusalemme Capitale forse voluta più da Washington (per contrastarla e per definirsi) che dagli arabi (costretti a sostenerla), gli spazi per la tradizionale diplomazia militare atlantica italiana si sono ridotti al minimo. Con il Quai d’Orsay invece abbiamo una marea di dossier aperti che riguardano in Libia la rottura tra Tripolitania amica (se ben pagata) e Cirenaica russofrancese, il Fezzan nel quale Minniti voleva mettere mano ma nel quale la scoperta di miniere d’oro fa ai francesi più gola che il controllo dei migranti. E poi Unicredit, Generali, Leonardo, Fincantieri…. Qualcosa avevamo già scritto qui: http://www.glistatigenerali.com/geopolitica/immigrati-macron-e-noi-perche-la-difesa-e-compito-dello-stato/

 

Insomma, se la globalizzazione parla inglese e cinese alla Farnesina riscoprono il francese e a Palazzo Chigi chissà se sono arrivate telefonate da SciencePo’, la Grande École Des Sciences Politiques Internationales, fucina dell’Universalité della politica francese dove, stando sereno, insegna guardacaso quel vecchio amico di Gentiloni che di nome fa Enrico Letta.

Certo, se ce lo spiegassero anche….

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