Geopolitica
L’Italia apre ad Assad, ma non è l’unica
Nella giornata di oggi il Ministro Milanesi, titolare della Farnesina, ha confermato che l’Italia sta valutando la riapertura della propria ambasciata a Damasco.
Milanesi ha poi aggiunto vagamente che l’eventualità è legata al miglioramento della situazione in Siria.
L’Italia non è però l’unico paese ad avere preso in considerazione una ripresa dei rapporti diplomatici con il regime siriano.
Il processo infatti è già ben avviato in Medio Oriente, dove i continui successi militari di al-Assad hanno portato gli storici finanziatori della ribellione siriana a riconsiderare le loro posizioni.
Nell’ottobre scorso ha causato grande stupore un incontro molto cordiale, e non programmato, tra il ministro degli esteri del Bahrein e il suo omologo siriano.
Il Bahrein, in quanto stretto alleato dell’Arabia Saudita, ha mantenuto negli ultimi 7 anni posizioni politiche e diplomatiche di forte opposizione e condanna nei confronti del regime siriano.
La rapida ma affettuosa chiacchierata fra i due ministri ha scatenato un grande dibattito fra osservatori e analisti, riguardo alla possibile apertura dei paesi del golfo (quelli alleati coi sauditi) al governo siriano.
Un segnale simile lo aveva in realtà già dato il principe ereditario dell’Arabia Saudita stesso.
Mohammed Bin Salman, intervistato l’aprile scorso dal “TIME“, ha espresso una sostanziale apertura a Bashar al-Assad e al suo regime, a patto che Damasco mitigasse la sua dipendenza dall’Iran, l’arcinemico regionale dell’Arabia Saudita.
“Non so se alcune persone si arrabbieranno per questa mia risposta, ma non voglio mentire […] credo che Bashar rimarrà al potere per ora […] ma credo anche che sia nell’interesse siriano non permettere all’Iran di fare ciò che vuole in Siria […] Bashar diventerebbe un pupazzo dell’Iran”.
Nella seconda metà del mese scorso sono poi giunti due veri e propri successi diplomatici per il governo siriano.
Il 17 Dicembre il Presidente Bashar al-Assad ha ricevuto a Damasco la sua controparte sudanese, Omar al-Bashir.
L’autocrate del Sudan è divenuto il primo leader arabo a recarsi in Siria dopo lo scoppio della guerra civile.
La visita a sorpresa ha sollevato diverse speculazioni riguardo la possibile luce verde dell’Arabia Saudita all’incontro; al-Bashir è infatti un alleato chiave dei reali sauditi, che appoggia militarmente nella sanguinosa guerra in Yemen.
Dieci giorni dopo ha riaperto a Damasco l’ambasciata emiratina in Siria, chiusa poco dopo lo scoppio della guerra civile.
Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno sempre mantenuto un basso profilo nei riguardi del conflitto siriano, preferendo un coinvolgimento limitato, ma assieme ai loro alleati occidentali e mediorientali anch’essi nel 2011 hanno troncato qualsiasi rapporto diplomatico con la Siria.
Nell’immediato giorno successivo si è aggiunto agli EAU il Bahrein; in un comunicato il piccolo regno è tornato pubblicamente a sostenere Damasco, affermando di non aver mai completamente interrotto i rapporti ufficiali con la Siria di al-Assad che, riporta la nota, è “un grande paese arabo nella regione”.
Il prossimo importante banco di prova per la Siria è la ri-ammissione nella “Lega Araba”.
Damasco è stato espulsa nel Novembre del 2011 dall’organizzazione che riunisce i 22 paesi arabi mediorientali, a seguito dei massacri commessi dalle forze di sicurezza del regime ai danni di coloro che protestavano contro la presidenza di al-Assad.
Alcuni paesi, come il Libano, la Giordania e l’Iraq, premono dietro le quinte perché la Siria ottenga nuovamente il suo seggio al prossimo summit, che si terrà in Tunisia alla fine di marzo.
Fonti diplomatiche riportano con convinzione che la resistenza al re-integro della Siria all’interno della Lega Araba è oramai quasi inesistente.
Ma perché gli acerrimi nemici di al-Assad ora cercano una riappacificazione politica e diplomatica?
Damasco deve i suoi successi militari, oltre che ai russi e alla loro campagna aerea, all’assistenza militare dell’Iran; Teheran ha dislocato al fianco dell’Esercito Siriano diverse migliaia di suoi ufficiali (Guardie della Rivoluzione Islamica) a sostegno di altrettante decine di migliaia di miliziani sciiti, provenienti da ogni angolo del Medio Oriente.
I paesi del golfo, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, temono che la Siria diventi completamente dipendente dall’Iran, e desiderano quindi ritagliarsi una sempre maggiore sfera di influenza.
La precedente citata dichiarazione di Mohammed Bin Salman è emblematica.
Grandi preoccupazioni causa anche la Turchia di Erdogan, che occupa militarmente parte del Nord della Siria.
L’Esercito Turco ha invaso la Siria per contrastare l’espansionismo delle forze curde, le Unità di Protezione Popolare(YPG), alleate degli USA in chiave anti-ISIS.
La Turchia accusa le YPG di essere dipendenti dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan, un’organizzazione da decenni in lotta per i diritti della popolazione curda in Turchia e per questo posto fuori legge.
Le grandi potenze arabe del golfo sono quindi spaventate dall’espansionismo politico e militare di Erdogan in Siria, soprattutto alla luce dell’imminente ritiro delle forze armate statunitensi.
I prossimi mesi del 2019 saranno quindi cruciali per il futuro della Siria.
Un ritorno del regime di al-Assad nella comunità internazionale potrebbe portare a un allentamento dell’embargo che da anni strozza Damasco, alleviando quindi le sofferenze di milioni di persone e facilitando la ricostruzione del paese.
Ma al tempo stesso, legittimando prematuramente al-Assad, i paesi arabi e occidentali rischiano di sferrare un colpo mortale all’opposizione politica siriana, mettendo sempre più in forse la possibilità di risolvere politicamente il conflitto.
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