Geopolitica
Libia ed Europa, aspettando il 18 maggio: due narrazioni per una sola missione
Premessa: Considerazioni su un’ipotesi militare, Gli Stati Generali.
Il Consiglio Europeo degli Affari Esteri previsto per lunedì 18 maggio dovrebbe contribuire a fare un po’ più di chiarezza sulla questione del contrasto ai trafficanti che dalla Libia organizzano partenze illegali di migranti alla volta delle coste europee: in quel giorno, ha detto l’Alta Rappresentante dell’Unione Europea Federica Mogherini, arriveranno i dettagli della missione che Bruxelles intraprenderà nel Mediterraneo.
Fino ad ora, però, questa avarità di dettagli dimostrata dall’Alta Rappresentante nei suoi due interventi ufficiali – l’11 maggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e il 13 maggio alla presentazione dell’Agenda sulla migrazione, quando parlò rispettivamente di «una possibile operazione navale nel contesto delle politiche di sicurezza e difesa comuni dell’Unione Europea» e di un’operazione «differente ma complementare a Triton e Poseidon» – ha lasciato ampio spazio di crescita ad una narrazione ufficiosa condotta da diversi organi di stampa britannici e italiani; appartenenti cioè alle due nazioni più coinvolte sia nella stesura della bozza ad uso interno europeo sia di quella che verrà presentata, presumbilmente in giugno, alle Nazioni Unite.
Proprio il 13 maggio, con l’intervento in conferenza stampa del corrispondente del Guardian, le due versioni si sono, per così dire, guardate negli occhi.
È possibile che l’intervista rilasciata il 16 maggio dal Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni a Paolo Valentino del Corriere della Sera cercasse di dissipare, nelle intenzioni, le ombre chiarendo in cosa consistano di fatto i piani europei per questa lotta ai trafficanti. Ma non è detto che ci sia riuscita del tutto.
Una narrazione alternativa: la versione del Guardian.
In almeno due suoi articoli, avvalorando le proprie dichiarazioni nel primo caso con testimonianze anonime di addetti ai lavori, nel secondo con la presunta visione di un testo di 19 pagine, Ian Traynor aveva fornito una versione dell’operazione molto distante dalla semplice operazione navale senza ulteriori dettagli fornita da Federica Mogherini.
Nella prima parte dell’articolo del 10 maggio, il giornalista aveva sostenuto che la bozza che il Regno Unito stava vagliando per poi consegnarla al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite trattasse di – parole sue – «un mandato per un’azione armata nelle acque territoriali libiche». Proseguiva poi: «[La missione] sarebbe posta sotto il comando italiano e vedrebbe la partecipazione di circa dieci paesi dell’Unione Europea, inclusa la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna e l’Italia, trascinando forse dentro la NATO, anche se non ci sono piani per un iniziale coinvolgimento dell’alleanza [atlantica]». Introduceva quindi la possibilità di un appello al Capitolo 7 dello Statuto delle Nazioni Unite e citava direttamente dal testo della bozza – non è specificato se per presa visione personale o per riferimento diretto di una fonte – che la stessa avrebbe alluso all’«uso di tutti i mezzi per distruggere il modello di business dei trafficanti».
Sempre sulla NATO specificava, riferendosi all’eventuale uso di elicotteri in aggiunta delle navi, «al fine di neutralizzare le imbarcazioni dei trafficanti identificate»: «Attacchi alle navi o all’aviazione europea potrebbero innescare un’escalation e costringere la NATO a intromettersi, hanno detto alcuni politici a Bruxelles».
Conclude poi la questione del possibile contrasto violento ai trafficanti sostenendo che si riteneva che la Russia e la Cina – paesi con diritto di veto alle Nazioni Unite – non avrebbero posto particolari opposizioni a un’operazione che per il momento avrebbe raccolto l’adesione di solo sei paesi europei su ventotto.
Nell’articolo del 13 maggio, invece, Traynor conferma, grazie alla bozza ora in suo possesso, quanto da lui scritto nel precedente pezzo – campagna navale e aerea nelle acque territoriali libiche – ma aggiunge un altro aspetto molto importante così citato con un supposto passo della bozza stessa: «Una presenza sul terreno potrebbe essere prevista se un accordo è stato raggiunto con le autorità pertinenti». «L’operazione richiederebbe un largo spettro di mezzi aerei, marittimi e di terra. Che includerebbero: intelligence, sorveglianza e riconoscimento; squadre di abbordaggio; unità – aeree e marittime – di pattugliamento; mezzi anfibi; [unità?] di distruzione di aria, terra e mare, incluse unità di forze speciali». Potrebbe inoltre riferirsi, geograficamente ad «azioni lungo le coste, nelle baie o all’ancora [contro] i mezzi e le imbarcazioni dei trafficanti prima del loro uso».
Infine il documento chiariva che, per la presenza di milizie di vario tipo, «un’azione di terra potrebbe essere intrapresa in un ambiente ostile» e che le eventuali «operazioni di abbordaggio contro i trafficanti in presenza di migranti ha [hanno] un alto rischio di danni collaterali, inclusa la perdita di vite».
Per quanto riguarda l’assenso di Russia e Cina, se il precedente articolo le dava in entrambi i casi per ottenibile senza troppi problemi, qui la Russia è descritta come un caso più problematico.
Chi scrive può confermare che l’articolo era già visibile la mattina del 13, ora italiana, prima della conferenza stampa, ma dopo la conferenza è stato aggiornato con le risposte dell’Alta Rappresentante europea Federica Mogherini: la quale ha rigettato completamente la possibilità di operazioni sul terreno, così come, in generale, di interventi militari in Libia.
Ancora una narrazione alternativa: tre articoli dalla stampa italiana.
Anche la stampa italiana, come il britannico Guardian, ha dimostrato di tenersi distante dalla narrazione ufficiale di questa missione anti scafisti nel Mediterraneo.
Innanzi tutto, l’11 maggio, l’articolo scritto da Marco Galluzzo per il Corriere della Sera non presenta di per sé sostanziali novità rispetto all’articolo di Traynor, ma è comunque interessante perché fornisce informazioni inedite sull’attività diplomatica italiana riguardo la questione.
Come già Ian Traynor nel suo primo articolo, anche Marco Galluzzo non dice esplicitamente di aver potuto leggere la bozza del documento, il cui testo «originariamente in italiano, poi tradotto in inglese ed avanzato da Londra — visto che l’Italia non fa parte del Consiglio di Sicurezza —, è attualmente in visione presso gli uffici di tutti e quattordici le rappresentanze diplomatiche coinvolte»; ma è comunque in grado – non si sa allora se per visione diretta o per informazione mediata dalle sue fonti – di confermare un passo significativo già citato dal collega britannico, laddove parla dell’«uso di tutti i mezzi per distruggere il modello di business dei trafficanti di esseri umani».
Come Traynor, ma probabilmente basandosi su fonti interne alla diplomazia italiana, Galluzzo riporta anche lui del problema, non insormontabile, costituito da Russia e Cina e aggiunge però anche gli Stati Uniti; dà per «scontato», invece, il parere favorevole di Gran Bretagna, Francia e Spagna, cui potrebbero aggiungersi Ciad, Angola e Nigeria.
Mosca, scrive Galluzzo, «è favorevole a una risoluzione che abbia come confine netto le sole acque territoriali libiche e non le coste, e che non preveda l’uso di mezzi aerei».
Anche Galluzzo, come Traynor, parla del Capitolo 7 dello Statuto delle Nazioni Unite, specificando però che il problema riguardrerebbe i paragrafi 42 e 43 e l’uso di mezzi navali, aerei e di terra: «un altro problema – si legge – è la consistenza di eventuali mezzi armati di contraerea presenti nelle coste libiche e in mano ai trafficanti di esseri umani. L’uso di elicotteri armati è una delle opzioni allo studio».
Più dettagliato, in seconda battuta, l’articolo di Marco Zatterin per La Stampa, datato 13 maggio. Zatterin dichiara esplicitamente di aver potuto visionare «la bozza della decisione che sarà discussa lunedì [18 maggio] dai ministri degli Esteri UE»: una bozza – si legge – lunga 30 pagine, mentre quella vista da Ian Traynor del Guardian, destinata alle Nazioni Unite, era di 19.
Secondo il giornalista la bozza destinata al Consiglio Affari Esteri dell’Unione Europea licenzia la struttura che coordinerà la missione anti trafficanti in Libia, probabilmente coordinata dall’Ammiraglio italiano Enrico Credendino, i cui scopi sono così identificati: «Cattura e/o distruzione delle strutture che consento il contrabbando, nelle acque libiche, all’ancora, attraccate o a terra».
Nelle battute conclusive del suo articolo, Zatterin conferma per altro alcuni dettagli già noti:
«Di qui l’auspicio di «interrompere il modello di business dei trafficanti, con sforzi sistematici per identificare, catturare/sequestrare, e distruggere le barche e le strutture usate» dai contrabbandieri di essere umani». La missione avrà pertanto «un mandato esecutivo» e «potrebbe essere militare e congiunta (navale e aerea)». Si evidenzia che in assenza di accordo dei libici, la sorveglianze e l’azione delle acque non internazionali può avvenire solo con una risoluzione Onu «Capitolo 7», cosa che si va discutendo in queste ore.
L’operazione «dipenderà dalle attività di Intelligence», la cui condivisione «sarà fondamentale». Si porrà «l’alto rischio di danni collaterali» (vittime fra i migrati) e l’esigenza di un quadro per stabilire cosa fare di eventuali criminali arrestati. Le risorse saranno messe a disposizione dagli stati, con Francia, Regno Unito e Italia pronti a salpare. Potranno agire anche a terra, «anche se sarebbe ideale che vi fosse il consenso locale» (non dall’aria, chiedono i russi). Obiettivi: barche, depositi di carburante, strutture di attracco. Più la deterrenza: con le navi da guerra davanti alle sponde dorate della Libia, qualcuno potrebbe desistere. Difficile, ma non si sa mai. Quando si ha il colpo in canna, si finisce per sparare».
Il 15 maggio, infine, sempre per La Stampa, Paolo Mastrolilli dichiara di aver visualizzato la bozza da proporre alle Nazioni Unite.
Rispetto alle 19 pagine visualizzate da Ian Traynor due giorni prima e alle 30 del documento parallelo visualizzate sempre il 13 maggio da Marco Zatterin, Mastrolilli dichiara di aver visionato un documento – in elaborazione – di appena 3 pagine: il che starebbe a indicare un corposo sfoltimento avvenuto in un brevissimo lasso di tempo o comunque importanti differenze tra la bozza britannica e quella italiana dalla quale quella britannica a sua volta dipenderebbe.
Con le parole del giornalista, il testo «invoca il Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite per consentire tre tipi di operazioni militari: nelle acque internazionali, nelle acque territoriali di Tripoli, e nei porti, con la possibilità quindi di scendere a terra, se fosse necessario per rendere inutilizzabili i barconi».
Mastrolilli individua due punti nodali: il Capitolo 7 che permetterebbe di intervenire senza il consenso del governo riconosciuto di Tobruk, che potrebbe essere incluso come possibilità ma che si vorrebbe evitare venendo ad accordi sia con Tripoli che con Tobruk; e l’atteggiamento russo che vorrebbe assicurarsi che l’intervento esterno in Libia non si trasformi in un nuovo 2011.
Secondo Mastrolilli la versione in lingua inglese del documento ha sostituito il verbo destroy – distruggere – proposto dagli italiani, con un più neutro dispose, eliminare, che però non sarebbe ancora il termine definitivo.
La narrazione di Paolo Gentiloni: legittimazione delle versioni ufficiose?
Dopo il 13 maggio e l’articolo di Paolo Mastrolilli per La Stampa il 15, la voce dell’ufficialità è intervenuta nuovamente e questa volta, duplice, è stata italiana: da un lato la Ministra della Difesa Roberta Pinotti dichiarava proprio il 15 che più che di un’operazione militare si dovesse parlare di un’operazione di polizia, dall’altro il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni rilasciava un’intervista al Corriere della Sera.
Gentiloni non a caso, perché sempre il 15 maggio le agenzie raccoglievano una sua esternazione televisiva che parlava di «individuazione, attraverso meccanismi di intelligence, e la eventuale distruzione di barconi nelle acque territoriali e sulle spiagge libiche prima che imbarchino migranti». Qualcosa di molto insidioso che alludeva a un’intervento a terra e che richiedeva quindi delucidazioni.
Intervistato, come già detto, dal giornalista Paolo Valentino, dice Gentiloni: «Non saranno operazioni di bombardamento da aerei o da navi in mare dei barconi e non sarà un intervento di occupazione con boots on the ground, forze militari sul terreno. Escluso ciò, restano un enorme lavoro di intelligence teso a individuare i trafficanti, le operazioni navali di sequestro e confisca in mare dei mezzi una volta salvati i migranti e incursioni mirate sulle coste. Per questo è essenziale avere una risoluzione ONU: lo richiedono anche solo il sequestro e la confisca al largo o l’eliminazione a riva dei mezzi».
Rimane da capire come conciliare l’espressione «incursioni mirate sulle coste» con quella risposta – «no boots on the ground. I said no», «nessun piede a terra. Ho detto no» – registrata da Traynor in sede europea.
Ma l’intervista a Gentiloni è importante perché conferma con l’ufficialità del Ministro di un paese, l’Italia, che la missione si candida «a guidarla, offrendo anche Roma come sede del comando» alcune delle cose riferite nei giorni precedenti: Roma come base delle operazioni, appunto, ma anche il possibile ingresso in acque o in territorio libico e poi le preoccupazioni russe e l’appello al Capitolo 7 dello Statuto delle Nazioni Unite.
La vicinanza tra la versione – da considerare quindi ufficiale – di Gentiloni e quelle ufficiose divulgate dai vari organi di stampa, si vede bene in un passo come questo:
«Entro il mese – dice il Ministro al Corriere – capiremo se la risoluzione del Consiglio di Sicurezza va a buon fine. I due snodi essenziali sono: rassicurare i membri permanenti che il riferimento al Capitolo 7, cioè il ricorso all’uso della forza, non prelude a interventi militari in Libia, motivo di forte preoccupazione per Mosca e Pechino. Noi sappiamo bene di non avere intenzioni del genere. Ma Lavrov [Sergej Viktorovič, Ministro degli Esteri russo] a Mosca mi ha sottolineato la necessità che la risoluzione sia molto chiara su questo punto. Secondo snodo, l’ingaggio delle autorità libiche a questo tipo di intervento, a partire dal Parlamento di Tobruk. Sapendo che in Libia non c’è un solo governo e quindi nulla è semplice su questo piano».
In un passo dell’articolo di Paolo Mastrolilli per La Stampa si leggeva il giorno prima: «Essendo basata sul Capitolo 7, sul piano legale non avrebbe bisogno del via libera del Paese interessato. I partecipanti però non vogliono dare l’impressione di invadere, e quindi stanno discutendo con il governo in esilio di Tobruk l’invio di una lettera che inviti l’intervento. Il problema è gestire il rapporto con l’esecutivo islamico di Tripoli, che controlla le coste da dove partono i barconi».
E ancora, sempre da Mastrolilli: «La Russia vuole evitare che si ripeta il 2011, quando la risoluzione per aiutare i civili libici venne usata per rovesciare Gheddafi, e quindi chiede un linguaggio in cui sia chiaro che l’intervento è consentito solo per contrastare il traffico».
Date le parole di Gentiloni, non sembra insomma che la stampa britannica e quall italiana siano mal informate sulla questione dell’operazione mediterranea.
Conclusioni: una narrativa ufficiale non del tutto lineare non dirada i dubbi sull’intervento di terra.
L’intervento di Gentiloni ha finito col legittimare una parte della narrativa ufficiosa che la secca risposta di Fedrica Mogherini alle esternazioni del Guardian sembrava aver invece delegittimato. E si noti qui per inciso che Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea presente anche lui alla conferenza stampa del 13 maggio, quando usava l’espressione «disrupting their business model», parafrasava di fatto, quasi letteralmente, quella anticipata da Ian Traynor, tre giorni prima, nel suo articolo e confermata poi da Marco Zatterin il giorno stesso.
Rimane pur sempre la questione boots on the ground, l’intervento di terra: Gentiloni stesso in prima battuta lo nega e in seconda, invece, sembra circoscriverlo, mentre Federica Mogherini l’ha espressamente escluso. La cosa che le voci ufficiali – dalla Pinotti alla stessa Mogherini il 13 maggio – si sono premurate di suggerire è di non interpretare il tutto come un’azione militare contro la Libia, ma piuttosto come un’operazione di polizia contro i trafficanti che risiedono in Libia: cambio semantico – per altro non giustificato dalle presunte anticipazioni letterali di Zatterin della bozza del 18 maggio – evidentemente rassicurativo per i governi libici e per alcuni Stati esteri, ma che però non nasconde la necessità di ricorrere in ogni caso – almeno in via teorica se poi alla fine non arrivassero i consensi libici – al Capitolo 7 delle Nazioni Unite per l’uso della forza all’interno di un paese senza il consenso del governo riconosciuto.
Nel frattempo la stampa britannica continua ad avvalorare, almeno come possibile, la tesi dell’operazione terrestre: il 15 maggio il Telegraph, con Nick Squires, cita anonime fonti che accerterebbero che le Nazioni Unite «stanno considerando di dare il verde all’azione militare europea contro i trafficanti nelle acque territoriali libiche e persino all’interno delle baie e dei porti della costa libica», mentre l’Independent titola il 17 che «i ministri europei si incontrano domani per considerare azioni di terra in Libia e attacchi ai trafficanti». Il tutto mostrando ben scarsa considerazione della narrazione ufficiale.
Una domanda sorge spontanea e non troverà forse risposta fino a quando non vi sarà un testo ufficiale su cui ragionare: perché le narrative ufficiose delle fonti stampa che hanno trovato almeno in parte una legittimazione ufficiale sull’atteggiamento russo, sulla diplomazia con le autorità libiche e sul Capitolo 7 delle Nazioni Unite, mostrando quindi di essere ben informate sui fatti, dovrebbero sbagliare in pieno solo sulla questione delle operazioni di terra?
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