Geopolitica
Libano, nuove elezioni per un nuovo Paese
Il Libano si sta avvicinando a una delle elezioni più importanti della sua storia, e lo sta facendo nel bel mezzo di una profonda crisi economica, sociale e politica. È un territorio cruciale per la geopolitica internazionale, da molti considerato come la Svizzera del Medio Oriente: uno stato fulcro tra Oriente e Occidente per via degli interessi commerciali.
Dal 1943 (data della sua indipendenza) il Libano è un esempio virtuoso di convivenza tra popoli e culture differenti. Questa commistione conta circa diciotto confessioni: un modus vivendi atto alla condivisione del potere politico. Attualmente il 54% sono musulmani (principalmente sunniti, ma anche sciiti), il 40% sono cristiani (la maggior parte maroniti e greco-ortodossi) e il 6% sono drusi.
La spartizione delle cariche avviene per via confessionale, per avere un equilibrio istituzionale basato sulla rappresentanza delle diverse comunità e delle religioni. Per un principio di proporzionalità il ruolo di Presidente della Repubblica spetta a un maronita, quello di Presidente del Consiglio a un sunnita, mentre la carica di Presidente del Parlamento spetta ad un rappresentante della comunità sciita.
Nel settembre 2021 si era formato un nuovo Governo, ma dopo un solo mese il Consiglio dei Ministri smise di riunirsi. Furono indette dunque nuove elezioni per maggio, poi anticipate al 27 marzo, ma – essendo i tempi molto stretti – vennero ri-posticipate nuovamente al 15 maggio.
La paralisi governativa ha avuto delle conseguenze dirette sugli aiuti internazionali. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, infatti, ha dichiarato che il Paese non sarebbe stato aiutato se prima non fosse uscito dallo stallo: il governo a febbraio ha dunque timidamente ripreso a dialogare.
Per questo blocco istituzionale il presidente del Libano Michel Aoun ha accusato Hezbollah – partito islamista sciita del Libano -, che aveva chiesto la destituzione del giudice incaricato delle indagini sull’esplosione al porto di Beirut, con l’accusa di averle insabbiate. In quel tragico 4 agosto del 2020 morirono 215 persone, rimasero feriti in 5000 e furono distrutte intere zone della capitale. Oggi sono ancora troppe le ombre che avvolgono questo drammatico evento, ma quel che è certo è che il Libano è rimasto in ginocchio e stenta a rialzarsi.
La crisi economica, però, aveva preso piede ben prima, nel 2019.
Le cause erano inizialmente due: gli strascichi della guerra civile – che ancora oggi condiziona il Paese e mai effettivamente terminata – e la grande migrazione dei siriani del 2011, la quale, solo inizialmente e con molta fatica, è stata in una qualche misura sostenibile.
Il Libano, che ha subito per trent’anni l’occupazione siriana (conclusasi ufficialmente nel 2005), si è ritrovato a gestire nel 2011 una delle più grandi migrazioni di massa degli ultimi decenni.
Dopo lo scoppio della guerra in Siria ha infatti accolto in pochi mesi più di 2 milioni di rifugiati siriani.
Questo è un grande esempio di accoglienza degli ultimi e ciò avvalora il concetto di Libano come “Paese-messaggio” (definizione coniata da Giovanni Paolo II nel 1997).
Il territorio libanese, dopo aver subito decenni di assoggettamento da parte dei siriani, ha dato rifugio incondizionatamente – senza espellere nessuno – mettendo da parte qualsiasi remora a due milioni di persone.
Un Paese grande meno della metà della Lombardia, con una popolazione di 4 milioni di abitanti, ha gestito l’arrivo di 2 milioni di profughi, che attualmente non sono ancora tornati in patria.
Le Nazioni Unite, per fronteggiare questa emergenza migratoria, avevano promesso al Libano 7 miliardi.
Nel 2016 è stato raccolto solo il 46% dei fondi del piano di risposta umanitaria per l’emergenza siriana (3.18 miliardi), poi non è arrivato più nulla.
Il Libano ha chiesto dunque all’ONU di incentivare e creare le condizioni affinché avvenisse un graduale ritorno dei migranti siriani nelle loro terre, quantomeno in quelle non più a rischio.
La risposta negativa è stata giustificata col timore di legittimare il regime di Assad, quando invece sono i primi a dialogarci costantemente stipulando accordi.
Tutto questo è avvenuto dopo 15 anni di guerra civile alla quale si è giunti a causa delle mire espansionistiche di Israele, i fazionalismi e le interferenze esterne.
Ma la retorica della guerra civile durata dal 1975 al 1990 non regge: perché concretamente gli accordi di Taif – firmati in Arabia Saudita – hanno sancito una fine del conflitto solo formale.
Non c’è stato alcun tipo di processo di analisi del passato, nessun dialogo, nessun confronto: si è semplicemente voltato pagina, lasciando astio e rancori irrisolti, tant’è che le conseguenze della guerra si sono rivelate peggiori della guerra stessa.
E ce lo spiega Mounir Khairallah, vescovo maronita di Batroun, al quale ho chiesto quali siano gli strascichi e le conseguenze della guerra civile che si sta portando dietro il Libano attuale.
“Dallo scoppio della guerra, dal 1975, tutti noi libanesi abbiamo sentito la vicinanza dei nostri amici italiani – ma anche francesi, che ci stanno accompagnando in questo lungo percorso. Una guerra lunga che non è ancora finita. Stiamo ancora pagando il prezzo di quello che è stato lo scoppio della guerra in Libano mentre era in ballo la costruzione dell’identità libanese. Il Libano, che come lo chiami tu e lo chiamiamo noi “la Svizzera del Medio Oriente” rappresenta un valore quasi unico nel mondo di oggi: 18 comunità diverse che sono riuscite a convivere assieme riuscendo a fondare quello che chiamiamo “Paese-messaggio”. Questo mosaico di 18 comunità, vivendo assieme, hanno dimostrato a tutto il mondo che il vivere comune nelle diversità è possibile. Il mutuo rispetto, la pace e la convivialità in un Paese che vorrebbe riconoscere ad ogni cittadino il diritto di vivere nella dignità: nei suoi obblighi e nei suoi diritti. La guerra è terminata nel ‘90 con gli accordi di Taif sotto tutela internazionale, ma non ha sancito la fine della guerra perché non c’è stato un dialogo vero e sincero: non c’è stata una purificazione della memoria degli anni della guerra. Anzi, gli accordi hanno suscitato altri conflitti all’interno del Libano, lasciando aperte le porte a ingerenze internazionali, arabe e regionali nel governare il paese. Nuovi conflitti sorgono adesso ponendoci di fronte a una grande sfida: ricostruire quel Libano ‘paese-messaggio’ ”.
La situazione attuale
L’esplosione nel porto di Beirut e il covid-19 sono stati solo gli ultimi durissimi colpi che hanno aggravato una situazione già precaria.
Ad oggi la lira libanese ha perso il 90% del suo valore in due anni e l’impoverimento della popolazione ha portato l’82% dei libanesi a vivere sotto la soglia di povertà.
Facciamo alcuni esempi.
Se lo stipendio di un professore universitario era di 3 milioni di lire libanesi (che valevano circa 6.000 euro), ora il suo stipendio vale poco più di 300 euro.
Se nel 2019 servivano 10.000 lire libanesi per fare un pieno, oggi servono 1 milione di lire.
Se nel 2018 arrivavano più di 2 milioni di turisti, il covid 19 e la crisi economica hanno distrutto completamente un settore cardine del Paese.
I giovani hanno perso il lavoro e da ormai tre anni partono emigrando – con ogni probabilità in modo definitivo – verso l’America, il Canada, il Brasile, e l’Australia.
Molto difficilmente questi ragazzi faranno ritorno in Libano, eppure è proprio dei giovani che il Libano ha bisogno per rialzarsi. Gli stessi giovani che nell’ottobre del 2019 scesero in piazza chiedendo nuove elezioni immediate. Questi moti sono stati arginati sul nascere dalla classe politica che ha troncato qualsiasi possibilità di dialogo e cambiamento.
Infine le banche libanesi, l’ultima linea di difesa del Paese, sono crollate ed i libanesi si sono visti negati tutti i loro risparmi: il paese è così fallito.
Ma Mons. Khairallah sostiene che “il Libano non è un paese fallito, il Libano è un paese che è stato rubato dai suoi responsabili politici” infatti “per anni, col susseguirsi delle elezioni legislative, si è rinnovato un sistema politico fortemente corrotto”.
Citando il patriarca Béchara Boutros Pierre Raï, il quale sostiene che queste elezioni non siano solo un discorso di nomi, ma vi è la necessità di pensare a ricostruire sui valori del Libano, ho dunque chiesto a Mounir Khairallah quali fossero questi valori e come è possibile ricostruire il Libano che si era immaginati assieme nel ‘43.
“Una delle conseguenze degli accordi di Taif è stato un nuovo regime politico che ha dato la possibilità ai responsabili politici (che sono capitalisti) di governare in concordia tra di loro con una corruzione impensabile, e hanno finito per rubare il paese. Il Libano era un paese ricco, c’era benessere. Solo che questa classe politica, da trent’anni in avanti, è stata una classe corrotta, mafiosa. Ci hanno detto nell’ottobre 2019, quando è scoppiata la rivoluzione popolare per contestare la classe politica, ci hanno detto che lo stato era fallito. Ma non è un paese fallito, è un paese rubato dalla classe politica. Bisogna assolutamente cambiare questa classe politica. Le prossime elezioni sono un’occasione di cambiamento, anche se sappiamo che è difficile perché tengono in ostaggio i cittadini libanesi. Nonostante tutto crediamo che il cambiamento sia possibile: magari non di colpo, ma almeno cerchiamo di cambiare qualcuno. Vogliamo gente capace, sincera, onesta e che cominci veramente a costruire un nuovo Libano: un paese democratico che rispetta i diritti e le diversità, con un’economia volta allo sviluppo facendo cessare la corruzione”.
Nonostante tutte le difficoltà, il popolo libanese crede ancora nel cambiamento.
La speranza è che il 15 maggio le urne restituiscano al Libano una nuova classe dirigente che ripensi il concetto di Libano, mettendo da parte gli interessi personali.
Il Libano può tornare ad essere il ricco stato che funge da fulcro economico tra Oriente e Occidente, e quell’esempio di accoglienza e convivenza tra popoli, culture e religioni differenti.
Inshallah
Tommaso Proverbio
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