Geopolitica
L’Europa che fatica a spezzare il pane con gli ebrei
Di seguito, la seconda puntata nelle pieghe del risorgente antisemitismo europeo, mentre molti ebrei lasciano il Vecchio continente per compiere la Aliyah (salita) verso Israele. Per la prima puntata, leggere 2014, L’Europa non è un continente per ebrei
Quanti di noi oserebbero girare per la periferia di una grande città europea con in testa una kippah? Lo ha provato a fare Patrick Reilly, un giornalista irlandese dell’edizione svedese del quotidiano in lingua inglese The Local. Lo scorso autunno ha passato una giornata per le strade di Malmö, città portuale della Svezia meridionale, con addosso una kippah. Il risultato? Nel giro di qualche ora si è attirato molte occhiate indiscrete. «Fottuto ebreo», è stato apostrofato. Un risultato non troppo dissimile da quello a cui si sono abituati gli ebrei parigini, che in certi posti non ci mettono neppure piede portando il copricapo tradizionale. Dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, l’attacco all’ipermercato kosher di Parigi non ha fatto che confermare le loro paure: quelle di chi pensa, ormai da tempo, che l’Europa è di nuovo un continente scomodo per i figli di Giacobbe.
Per la prima volta, dai tempi della Seconda guerra mondiale, la Grande sinagoga di Parigi è rimasta chiuso nel giorno di Shabbat. Non è un caso che proprio la Francia sia il paese che più di ogni altro sta alimentando il flusso migratorio ebraico verso Israele (Aliyah). A giugno scorso, il presidente dell’Agenzia ebraica Natan Sharansky stimava che nel 2014 – per la prima volta nella storia – una comunità ebraica occidentale avrebbe mandato un punto percentuale tondo dei suoi membri a costruirsi una vita in Israele: «Credo che si arriverà a 6mila olim» (immigrati). Bene a fine anno si è arrivati a oltre 7 mila. Dall’ Europa, e dalla Francia in particolare, gli ebrei se ne vanno. Per quest’anno Sharansky prevede che si arriverà alla soglia dei 10mila. «Negli ultimi tre, quattro mesi sono stato chiamato “fottuto ebreo” due volte – ha raccontato a Gli Stati Generali Auguste, un giovane ebreo francese che preferisce mantenere riservato il suo cognome. «Non voglio attirare le attenzioni di qualche pazzo fanatico», dice.
Ma Auguste non è solo in questo sentimento di insicurezza, che un po’ ovunque in Europa pervade le comunità ebraiche. «Come irlandese all’estero non mi sono mai sentito minimamente minacciato, ma indossare una kippah per poche ore è stato abbastanza per farmi sentire un po’ di paura», ha scritto Reilly nel suo articolo che raccontava il viaggio di un ebreo, con segni tangibili della sua religione, in periferia. Dalla Grecia all’Austria al Belgio, sono pochi i paesi europei che non devono fare i conti con rigurgiti anti-ebraici. Certo, Malmö non è il classico borgo scandinavo da cartolina. Con i suoi quasi 300mila abitanti è una grossa città, almeno per gli standard svedesi (la terza del paese, per la precisione), ed è senz’altro la più multietnica, con una forte componente di immigrati di religione islamica. Non a caso simbolo di Malmö è il campione di calcio Zlatan Ibrahimović, capitano della nazionale, figlio di due immigrati jugoslavi. Negli ultimi anni la città è stata teatro di gravi episodi di antisemitismo, e lo stesso sindaco IImar Reepalu, un socialdemocratico al potere dal 1994 al 2013, è stato criticato per certi suoi commenti a dir poco improvvidi. «La comunità ebraica svedese sta lentamente venendo buttata fuori; sta morendo di ‘mille ferite’», diceva nel 2012 il presidente del Congresso Ebraico Europeo, Moshe Kantor. Nell’agosto del 2013, l’attivista Annika Hernroth-Rothstein, fu vittima insieme al figlio di cinque anni di uno sgradevole episodio di antisemitismo: «Mio figlio non indossa più la sua kippah in pubblico».
È importante sottolineare che in Svezia l’antisemitismo non trova terreno facile. Molti svedesi sono orgogliosi che il loro paese fu, durante la Seconda Guerra Mondiale, un rifugio sicuro per gli ebrei (in primo luogo danesi) in fuga delle persecuzioni naziste. Nonostante i periodici rigurgiti xenofobi, raccontati, per esempio, nello splendido ma durissimo romanzo “L’uomo laser” di Gellert Tamas, la Svezia rimane una delle nazioni meno antisemite del mondo. È vero che alle ultime elezioni il partito di estrema destra Sverigedemokraterna (Democratici svedesi) ha ricevuto quasi il 13% dei voti, ma si tratta di una forza politica che ostenta simpatie filo-israeliane, famosa soprattutto per la sua posizione intransigente nei confronti di immigrati e Islam. Lo scorso anno due parlamentari degli Sverigedemokraterna hanno presentato un disegno di legge per vietare la circoncisione maschile, però la mozione non prendeva di mira tanto i 20mila ebrei svedesi, quanto il mezzo milione di musulmani che risiede nel paese.
Un altro paese dove l’antisemitismo si fa sentire relativamente poco è quello che più di ogni altro ha contribuito alla distruzione degli ebrei europei: la Germania. Nei decenni sembra davvero aver voluto fare i conti con la terribile eredità del nazismo. La parola-chiave è Vergangenheitsbewältigung, ossia “superamento del passato”, però in modo consapevole, riconoscendo gli errori compiuti e traendone le dovute lezioni. Questo sforzo i tedeschi lo hanno compiuto. Ne è un esempio il successo del saggio “I volenterosi carnefici di Hitler”, scritto dall’accademico americano Daniel Jonah Goldhagen. Tradotto in tedesco nel 1996, il libro denuncia “la grande disponibilità della maggior parte dei tedeschi comuni a tollerare prima e a sostenere poi, spesso persino collaborando attivamente, la furiosa persecuzione degli ebrei negli anni Trenta, e a partecipare, infine, anche al loro sterminio (ciò vale, almeno, per coloro che ne avevano ricevuto l’ordine). Senza tale disponibilità, il regime non avrebbe potuto uccidere sei milioni di ebrei». Non soltanto il libro di Goldhagen è stato un bestseller in tutta la Germania, ma la maggior parte dei lettori tedeschi ha sposato le tesi dello studioso americano, che nel 1997 ha persino ricevuto un prestigioso premio nazionale per aver “scosso profondamente la coscienza del pubblico tedesco”.
Secondo Daniel Cohn Bendit, politico tedesco di origine ebraica, non c’è mai stato nella storia un posto più sicuro per gli ebrei della Germania di oggi. In effetti la comunità ebraica locale, che ammonta ufficialmente a circa centomila persone, è in espansione, e Berlino, con le sue macellerie e negozi kosher, le sue sinagoghe e scuole ebraiche, è una delle città europee dove più fiorisce la cultura ebraica. Accanto alle luci però non mancano un po’ di ombre. In estate, mentre infuriava il conflitto in Palestina, c’è stata un’impennata di incidenti antisemiti. Per esempio a Wuppertal, grosso centro della Renania Settentrionale-Vestfalia, sono state lanciate bombe molotov contro una sinagoga, e a Berlino degli ebrei che indossavano la kippah sono stati aggrediti da manifestanti anti-Israele. La reazione della politica non si è fatta attendere:«È nostro dovere nazionale e civile combattere l’antisemitismo – ha dichiarato la cancelliera Angela Merkel, che da sempre vanta ottime relazioni con la comunità ebraica locale e con lo Stato di Israele. La cancelliera non è stata l’unica esponente di punta del governo tedesco a prendere le difese della comunità ebraica.
Già a luglio il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier, insieme ai suoi omologhi francese e italiano Laurent Fabius e Federica Mogherini, aveva attaccato la retorica antisemita e l’ostilità anti-ebraica esplose nei giorni dell’invasione israeliana di Gaza. E in realtà sono davvero una manciata, in Europa occidentale, i politici di rilievo inclini ai toni antisemiti. Pure nell’estrema destra. «I partiti di estrema destra in Europa occidentale, ad esempio il Front National in Francia o il FPÖ in Austria sono tutti pro-Israele. Heinz-Christian Strache è persino venuto a Gerusalemme – sottolinea Quer – Il loro appoggio alla causa israeliana, tuttavia, si limita a sostenere il diritto degli israeliani di difendersi contro quella che la Le Pen ha definito “l’Internazionale islamica”. Insomma, costoro sono grandi amici di Israele perché lo vedono come uno stato che combatte il nemico musulmano. Ma non si sono mai adoperati nella lotta all’antisemitismo. A mio parere la loro trasformazione pro-Israele non nasce da una rielaborazione del loro passato, e infatti ci sono voci antisemite nei loro partiti, benché marginalizzate». Invece, nota Quer, «Nell’Europa orientale sono rimasti profondamente e visceralmente antisemiti. In Ungheria ha avuto grande successo lo Jobbik, in Slovacchia c’è il Partito del Popolo e così via…».
Prima della Seconda Guerra Mondiale, in Polonia, vivevano oltre 3 milioni di ebrei, contro i 25mila di oggi. Nonostante questo, quasi il 50% dei polacchi pensa che gli ebrei abbiano troppa influenza nel paese, e il 72% che gli ebrei cerchino di utilizzare l’Olocausto a loro vantaggio. Ben il 63% ritiene che esista un complotto ebraico per controllare i media e il sistema bancario internazionale. Ancora, quasi un quarto incolpa i “giudei” della morte di Gesù Cristo (l’antichissima accusa di deicidio) o ritiene che gli ebrei usino sangue cristiano per i loro riti segreti. I pregiudizi non conoscono età: secondo un sondaggio commissionato nel 2013 dalla comunità ebraica della capitale, oltre il 40% dei ragazzi di Varsavia tra i 17 e i 18 anni preferirebbe non avere compagni di classe ebrei, e il 60% non sarebbe disposto ad avere un partner ebreo. Curiosamente, l’antisemitismo polacco è più forte nei voivodati di Łódź e Lublino, dove prima della guerra abitavano folte comunità ebraiche, mentre oggi non c’è quasi nessun ebreo: un antisemitismo senza ebrei, come dicono gli esperti, tenuto in vita da pregiudizi tanto arcaici quanto diffusi.
Ma l’antisemitismo trova terreno ancora più fertile nella confinante Ungheria, paese che cerca faticosamente di uscire dalle secche della crisi economica (-6,8% nel 2009, +1,1% nel 2013). Il 69% degli ungheresi pensa che gli ebrei siano troppo influenti, il 68% che cerchino di trarre beneficio dall’Olocausto, quasi il 51% che gli ebrei si interessino solo dei loro simili. Gli ebrei sono spesso visti come agenti occulti degli Stati Uniti, di Israele, delle banche e di Bruxelles. Alle ultime elezioni politiche il partito di estrema destra Jobbik ha conquistato ben 23 seggi allo Országgyűlés, il parlamento magiaro, diventando la terza forza politica del paese. «Si tratta di un risultato molto preoccupante ha dichiarato allo Jerusalem Post Andras Heisler, presidente della Federazione delle Comunità Ebraiche Ungheresi. I timori di Heisler sono comprensibili. Nel novembre del 2012 Marton Gyongyosi, uno dei parlamentari di punta dello Jobbik, ha chiesto che gli ebrei ungheresi venissero catalogati e valutati come potenziali minacce nazionali. E un altro deputato dello Jobbik non ha esitato a riesumare vecchissime, assurde dicerie sugli ebrei che uccidono i cristiani e ne usano il sangue.
In un’Europa così è più che comprensibile che gli ebrei abbiano paura. E che alcuni di loro vogliano andarsene. E dire che la civiltà europea deve tantissimo a uomini e donne che il nazismo ha o avrebbe spazzato via. Da Marx a Freud, da Kafka ad Einstein, da Svevo ad Adorno, da Heine a Kelsen, l’elenco è davvero infinito. Come sottolinea Francesco Matteo Cataluccio, saggista e profondo conoscitore della cultura ebraica, «gli ebrei hanno giocato un ruolo centrale nella nascita della modernità, sono stati uno dei suoi motori». Che fare, dunque? Né restare in Europa né andarsene sono scelte facili. Da un lato l’antisemitismo crescente, la sensazione di essere (talvolta) ospiti sgraditi in casa propria, l’eco dei racconti terribili dei nonni e dei padri. Dall’altro Israele, che è sì la casa di tutti gli ebrei ma si trova in un altro continente, in una terra senza pace. Alla fine, non ci si può non chiedere: dov’è la casa degli ebrei d’Europa? Dov’è?
Leggi: 2014, L’Europa non è un continente per ebrei
Nella foto, la Boulangerie Murciano al Marais di Parigi, © Boulangerie Murciano, 2010, tratta da Flickr
Devi fare login per commentare
Accedi