Geopolitica
L’equidistanza resta una virtù. Ricordiamocene adesso che sembra impossibile
Come prima, più che mai, questa guerra polarizza le nostre opinioni, incendia le sensibilità, i pensieri e le parole. Era inevitabile, ed era un destino già scritto. Era nella traiettoria composita di quel che è nuovo e inedito, di cui abbiamo provato a dire, e di quel che invece è antico, trito e ritrito, delle divisioni ideologiche ereditate dal Novecento, dalle scorie lunghe di una storia ricominciata l’11 settembre del 2001, ed evidentemente lontana dall’essere conclusa. È una guerra di altri eppure invade le nostre strade, le parole della televisione e quelle dei bar. Spinge squilibrati e marginali in giro per la nostra quieta Europa a ricordarsi di essere “dell’Isis”, e poco importa se l’Isis e Hamas hanno poco o niente a che fare. Si svolge in un tempo in cui dai fondatori dei grandi social network agli autori dei talk show della provincia dell’impero, senza trascurare ciascun partecipante ai primi o ai secondi, tutti rischiamo di essere travolti dal dovere algoritmico di essere parte, di stare con due mani, due gambe, tutto il cuore e quel che resta dei cervelli da un parte sola.
È una storia relativamente nuova, che si nutre di meccaniche ormai consolidate ma complessivamente recenti – nel 2001 Bin Laden fa visita a New York, pochi anni dopo Mark Zuckerberg decide di avere un miliardo di amici – e che incrocia, rinfocola e irrora istinti atavici e storie ben più lontane, quando i muri e i fili spinati non separavano solo Israele e Palestina, ma l’est dall’ovest, il capitalismo democratico e il socialismo totalitario. E la deterrenza atomica era un’inquietudine lunga eppure a suo modo confortevole, perchè per decenni aveva dato prova di reggere. Tutto sembra dire che non decidere da che parte stare sia già un omicidio, anzi: un genocidio. E in tanti, nel dichiarare la propria parte, sono certi di stare da quella giusta, la migliore possibile per difendere la libertà e per proteggere la debolezza dei “loro”. A chi mostra la prigione a cielo aperto di Gaza e le migliaia di fondate denunce per le violazioni dei diritti umani commesse dallo stato d’Israele, altri rispondono con le vessazioni islamiste di Hamas e l’odio programmatico per Israele che ha la colpa primigenia di esistere. A chi celebra l’unica democrazia del Medioriente, si risponde coi corpi dei bambini palestinesi martoriati in un raid. A chi denuncia un massacro gigantesco, quello commesso da Hamas, condito da stupri e rapimenti di massa, e che ha dato il là a questo disastro, si ricorda che il disastro è iniziato prima e dipende essenzialmente dall’occupazione israeliana. A dati oggettivi se ne contrappongono altri, non meno oggettivi, in un crescendo di rabbia e rinfacci, di grida che servono forse a tacitare il sussurrare di un dubbio: ma perchè dobbiamo parlare di un’ingiustizia sola, di un torto solo, di una ragione sola?
È quello che continua a succedere, nel grande talk show pieno di comparse che popoliamo tutti, tutti i giorni. Imbracciare un fucile, indossare una kefiah, aderire immediatamente alla versione di Hamas o a quella del governo israeliano, prima di leggere le cronache di giornaliasti preparati e obiettivi – ne esistono ancora, sì, ma niente può far riconoscere ciò che si è deciso fideisticamente di negare -, prima di provare a capire. Perchè anche una strage di bambini ha delle cause precise, è stata qualcuno a farla succedere, ed il compito di chi racconta la realtà è raccogliere e restituire tutti gli elementi che servono a sapere, per capire. Dietro l’angolo, non mi sfugge, c’è l’accusa di freddezza e di cinismo. C’è la voglia di tornare al punto di partenza per dire che considerare laicamente, passo a passo e guardando da lontano una storia così piena di sangue e di desideri, è sicuramente sbagliato. Perchè giusto è essere parte, prendere parte, dire con chi si sta. E naturalmente insultare come idiota o servo chi sta dall’altra, in un crescendo di idiozia e servilismo. Si dimentica così la fortuna e il privilegio, ma anche il merito storico della classe dirigente che ha voluto la democrazia europea dopo il disastro del Nazifascismo, di non aver mai conosciuto l’obbligo della guerra. E si cancella il merito e il dovere dell’equidistanza, che ormai è diventato sostantivo che sostanzia l’insulto, invece di ricordare che solo gli equidistanti sanno mediare, e possono infine costruire un percorso di pace.
Gli equidistanti non cancellano i torti e le ragioni, non nascondono che chi è più forte ha più doveri, non dimenticano che chi ha molto subito non ha il dovere di essere più buono, sanno che sapere è importante, e per questo si sforzano di sapere di più. Non rimuovono che leggere la storia a corpo intero è sovrumano, eppure solo umano. Ricordano a tutti che la ragione fonda i diritti, e le emozioni a volte li distruggono, assieme alle vite che ne sono titolari. Gli equidistanti non hanno paura di dire i torti e le ragioni, ma sanno che sono confini da maneggiare con prudenza.
Di mestieri sono buoni giudici, giornalisti e politici. Speriamo ne siano rimasti almeno un po’, in giro per il mondo, perchè sono gli unici umani nei quali riporre speranza e futuro.
Caro caro caro Jacopo! come non essere d’accordo? Finalmente una parola “distante”, “differente”, ora che invece la distanza e la differenza sembrano essere additate a difetto, anzi a colpa. Soprattutto riflettere là dove scrivi che è il più forte ad avere il dovere di pensare, prima di agire. Ma oggi sembra che l’obbligo sia di schierarsi, non di cercare, se possibile, la verità, o quanto meno ciò che attendibilmente è la verità. Ho paura di ciò che ne potrà seguire. E, nel caso, tenere presente che una parte del mondo arabo, che lo dice chiaramente, ma anche del resto del mondo che o per pudore o per astuzia non lo dice, vuole la scomparsa dello Stato di Israele, così come può darsi che la minoranza fondamentalista degli israeliani amerebbe vedere scomparire i Palestinesi. Che poi sono i Filistei. Qualcuno lo ricorda? Il conflitto dura da più di 3.000 anni. Ma avere scelto Netanyahu è stata da parte di una parte degli israeliani una sfida alla razionalità, o se sembra troppo astratto, alla ragionevolezza. Ciò che mi sorprende, in ogni caso, è la dimensione microscopica dei contendenti di oggi. Dove sono finiti i Rabin, gli Arafat, i Kennedy, i Krusciov? E da noi i De Gasperi, i Togliatti, i Pertini?