Geopolitica
Le nazioni non reggono la globalizzazione: così rinasce l’indipendentismo
In questi anni di turbolenze sociali e ripiegamenti populistici spicca un elemento nuovo e allo stesso tempo antichissimo nello scenario politico e sociologico occidentale (e non solo): l’identità come affermazione di sé delle persone e dei Popoli. Da un lato il trionfo del sistema capitalista su ogni alternativa ha rafforzato la concentrazione delle persone sulla propria individualità, dall’altro l’ultima fortissima ondata di globalizzazione dei mercati ha reso il mondo un posto più piccolo in cui tutti i racconti culturali sono stati messi in improvvisa e fortissima concorrenza.
Grazie all’uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone avvenuta negli ultimi anni (in particolare in Asia) e alla diffusione dei sistemi di comunicazione e della rete, siamo tutti sempre più consapevoli del fatto che i comportamenti, i consumi e le abitudini della “classe media” globale a Milano come a Shangai, a Francoforte come a Chicago, a Pietroburgo come a Osaka, sono sempre più simili e vicini. Ed è sempre più semplice per chiunque, grazie alla riduzione del costo degli spostamenti, rendersene conto di persona, viaggiando.
Inoltre, la fondamentale esigenza di tutti i Paesi di rendersi competitivi e di sopravvivere in questo nuovo villaggio globale, ha comportato un profondo cambiamento di regole e abitudini che spesso, pur del tutto inefficienti e ingiustificate in senso economico, sono radicate nella storia e nelle tradizioni di ciascun territorio. Ad esempio, liberalizzare le farmacie è sacrosanto in termini di efficienza economica e per aprire e liberare nuove opportunità di lavoro e ridurre i costi di accesso ai medicinali ma, soprattutto nei contesti più piccoli, rischia di privare le comunità di un tradizionale punto di riferimento sociale che era rappresentato dal Farmacista, con conseguente spaesamento di chi vi ha fatto sempre conto. Creare degli standard di sicurezza alimentare è fondamentale per consentire di esportare i propri prodotti all’estero e garantire la salute dei cittadini, ma d’altra parte vietare la produzione di istituzioni culinarie come il Casu Marzu (il celebre e gustosissimo formaggio con i vermi sardo) significa turbare tradizioni tramandate da generazioni.
Nel mondo del lavoro, la forte concorrenza internazionale del capitale sta fornendo l’impressione ai lavoratori di essere una componente sempre più irrilevante e priva di ruolo nel sistema economico, sostituibile con facilità e sostanzialmente priva di riconoscimento sociale.
L’Unione Europea è l’unica dimensione possibile per consentire ai popoli del continente di presentarsi ad armi comparabili con gli altri grandi giocatori del nuovo mondo globalizzato (USA, Cina, India, Brasile, Russia) ma una dimensione istituzionale come quella della UE – senza dubbio efficiente, necessaria e portatrice di enormi benefici a tutti i suoi cittadini – priva anche questi ultimi di un riferimento identitario e storico riconoscibile in mancanza di una lingua e di una tradizione culturale davvero comuni.
Non è un caso che in questo contesto crescano forze politiche definite “populiste” (di destra e di sinistra) che promettono, in modo per lo più illusorio e scomposto, a quei cittadini non in prima fila nel raccogliere frutti e benefici del sistema, una voce, un ruolo una posizione nel Nuovo Mondo. E non è nemmeno un caso, che nel medesimo momento crescano in occidente le pulsioni autonomiste (da ultimo in Scozia, Catalogna, Belgio, Corsica, Quebec…). In tale contesto infatti, il riconoscimento delle “piccole patrie” è uno degli ovvi e necessari antidoti allo spaesamento che un contesto concorrenziale e globalizzato può generare, e sta generando, nei cittadini occidentali.
Quello che i cittadini catalani e scozzesi chiedono non è banalmente una rivendicazione economica come molti, minimizzando, ritengono, ma è soprattutto un riconoscimento della propria identità, della propria particolarità e, addirittura, del senso stesso della propria esistenza in vita. È il riconoscimento, nell’identità culturale più vicina a sé e meno diluita possibile, di un proprio ruolo nel mondo e nel Sistema che, pur avendo garantito benessere, salute e liberazione dal bisogno e dalla fame come mai prima nella storia dell’uomo, ha dato a molti l’impressione di essere solo una parte meccanica utile a far funzionare il tutto ma non dotata di senso in sé. Non coglie nel segno l’idea che chi rivendica l’autonomia sia ispirato da un banale nazionalismo in misura ridotta: tutti i movimenti autonomisti europei (oltre a essere programmaticamente progressisti) sono fortemente favorevoli a una Federazione Europea che riunisca in un solo corpo le varie identità regionali per consentire loro di sopravvivere nel mondo moderno. Ma è lo stato nazione ottocentesco che risulta ormai troppo grande per essere riferimento culturale e sociale efficace e “protettivo” e troppo piccolo per stare al passo del crudele gioco delle grandi potenze.
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