Geopolitica
L’altro Israele protesta in autostrada: “Ma fare politica ora è impossibile”
LATRUN/ABU GOSH – Una lunga marcia iniziata due giorni fa da Tel Aviv, e destinata ad arrivare domenica a Gerusalemme. Ogni giorno una tappa o due, una ventina di chilometri, qualcuno si aggiunge al gruppone, qualcuno lo lascia lungo la strada e lo ritroverà più avanti, fino alla grande adunata finale. Ci sono famiglie con bambini, persone da sole, gruppi di amici ormai in età da pensione. “Noi ci siamo conosciuti facendo la guerra del Kippur, cinquant’anni fa” mi dice Menashe, indicando il suo compagno di marcia, che se tutto va bene come lui tornerà da figli e nipoti entro sera, per godersi il sabato ebraico in famiglia. Il programma di oggi prevede di iniziare a camminare nei pressi del Monastero cattolico di Latrun, proprio a metà strada tra le spiagge di Tel Aviv e la sacralità austera di Gerusalemme, per arrivare ad Abu Gosh, una decina di chilometri dopo, un villaggio arabo-israeliano famoso per i suoi eccellenti ristoranti di cucina araba. Curiosamente, per parlare di archeologia evangelica, entrambi i posti si sono litigati il titolo di vera Emmaus, il luogo venerato dai cristiani come quello della prima apparizione di Gesù dopo la risurrezione, la sera di Pasqua. Più recentemente, e con maggior certezza di fonti geografiche, la zona è stata campo di battaglia nella guerra dei Sei Giorni, e proprio lì corre un pezzetto del confine con la Cisgiordania, quel confine ridisegnato appunto nel 1967. Il popolo che chiede di riportare subito a casa tutti i prigionieri rapiti da Hamas – “Bring back home them now” – cammina sull’autostrada, scortato dalla polizia, accompagnato da decine di volontari che offrono panini, acqua nel sole cocente, datteri e snack.
“Camminiamo in autostrada anche perchè la prima marcia di protesta contro Netanyahu e la sua riforma costituzionale è stata qui, sulla highway numero 1. Molti di noi non hanno dimenticato. Adesso c’è la guerra e c’è un governo che non si assume responsabilità per quel che è successo, nè che dà priorità alla trattativa per gli ostaggi. Noi siamo qui per mettere pressione su questo, ma vigiliamo anche sul tentativo di riforma costituzionale, che non deve passare, non come voleva lui”, mi racconta Jack, uno dei compagni della gioventù d’armi di Manashe. In realtà, però, questo serpentone composto da circa diecimila persone di politica parla poco, o quasi niente, a livello ufficiale. “Ci sono state delle discussioni all’interno, e si è capito che l’unico modo per far partire queste proteste e rimettere pressione al governo era tenere il discorso più stretto possibile attorno agli ostaggi. Anche perchè, non dimentichiamocelo, l’anima di questo movimento sono i familiari e gli affetti delle persone che sono state rapite e uccise da Hamas il 7 ottobre”. Già: rapite e uccise. Che ovviamente non è la stessa cosa. “Perchè se un tuo caro ha perso la vita hai più voglia di chiedere a Netanyahu di sparire dalla faccia della terra; se invece un tuo caro è adesso nelle mani di Hamas, anche se non sopporti Netanyahu, preferisci resti al suo posto e dimostri di essere capace di fare almeno questo, dopo aver fallito totalmente nel difendere il paese e nel prevenire un attacco terroristico di quelle proporzioni”, mi spiega una manifestante sulla cinquantina, che è qui a supporto della protesta senza avere subito lutti o preoccupazioni dirette, per l’attacco del 7 ottobre. “Diventare qualcosa di politico, al momento, è impossibile”.
C’è infatti l’ombra della politica, la paura che qualcuno possa strumentalizzare questa protesta. Soprattutto dal lato di chi governava già prima del 7 ottobre, e che accusa di tradimento con facilità. Perchè è sicuramente vero che ci sono diverse connessione con quella che stava attraversando Israele da mesi per la riforma costituzionale. Ma, altrettanto, è vero che non tutti i presenti di oggi hanno un background di attivismo, visto che a costruire questa comunità, in qualche modo, è stata proprio Hamas il 7 di ottobre. È vero, nei kibbutz più colpiti dalle stragi era molto presente la vena di socialismo e accoglienza “delle origini”. E i ragazzi del rave erano sicuramente rappresentanti naturali dell’Israele laico e in certa parte anche progressista. Ma insomma, era comunque una festa, e in ogni caso le famiglie di provenienza di quei giovani sono diverse dai loro figli, per definizione. “Pensa che sono stato nella casa di un ragazzo che putroppo è morto, laggiù, e per la legge ebraica la casa è aperta per una settimana dopo il funerale, e altrettanto è obbligatorio per amici e parenti andare in visita. Così, con tre amici ci siamo trovati in mezzo a decine e decini di piccoli e grandi rabbini di ogni colore”, mi racconta un trentenne israeliano di quelli che, evidentemente, non rispetta le regole di Shabbat e tollera ancora meno che qualcuno voglia obbligare a tutta la sua città – Gerusalemme, naturalmente – di rispettarle. “È vero, comunque, la stragrande maggioranza di questo movimento è fatto da Israele laico e non religioso, è vero che non vedi nessuno con la kippah, anche se tanti uomini hanno il cappello per il sole, e qualche religioso ci sarà di sicuro” ride un manifestante.
Il 7 ottobre aleggia nei pensieri di tutti, non solo perchè senza quel giorno non ci sarebbero stati i giorni seguenti, la guerra a Gaza, i dodicimila morti, le proteste e tutto il resto. Aleggia perchè uscirne è difficile, fino a quando ci saranno ostaggi. Così, come più o mneo in tutte le conversazioni che sto avendo in questi giorni, da qualunque lato o punto di vista partano i miei interlocutori, arriva la domanda: “Secondo te cambierà l’opinione pubblica europea? Capiranno di più com’è la situazione, quaggiù? Cosa dicono i vostri media?”. Chi me lo chiede, oggi, pensa in realtà a quello che mi dice subito dopo: “Capiranno che questi di Hamas vogliono la Sharia e se potessero la porterebbero anche in Europa? Qualcuno si sta interrogando sulle conseguenze dell’immigrazione indiscriminata da voi?”. Un suo compagno di manifestazione interviene e cambia il tono del discorso: “Ne parlo spesso con mia moglie, anche stamattina mentre uscivo per venire e lei era perplessa. Dice che non è il momento. E invece è sempre il momento di ricordarci che tutto quello di cui ci lamentiamo, l’odio che ci rivolgono, e anche gran parte del nuovo antisemitismo nel mondo, non ci sarebbe se non ci fosse la nostra occupazione illegale dei territori palestinesi che sono fuori dai nostri confini, cioè della Cisgiordania e di Gaza. Fino a quando non la capiamo, non capiamo nulla di importante. Siamo prigionieri di un trucco mentale che non ci fa vedere l’evidenza, esattamente come siamo stati prigionieri di un trucco mentale che non ci ha fatto capire che Hamas stava preparando un grande attentato. In entrambi i casi, la colpa è stata ed è della nostra arroganza”. Netanyahu, aggiunge dopo, parlando solo a me, ha riempito di soldi coloni e religiosi per avere i loro voti in parlamento per portare avanti la sua riforma costituzionale: “Le cose peggiori stanno sempre tutte insieme”.
Poco dopo la bella sintesi le macchine ricominciano a superare la manifestazione. Viene liberata una corsia dell’autostrada. Camminiamo da un paio d’ore, e le automobili che sfrecciano in direzione opposta, spesso suonano il clacson. Nel codice condiviso è segno di supporto. Ma non c’è solo questo. C’è chi rallenta, abbassa il finestrino, e urla insulti. Uno, lo sento distintamente, grida “Gush Qatif!”. Decido che affiderò a queste parole il finale della mia mattinata, appena rientrato a Gerusalemme. A pochi passi da dove mi lasciano, infatti, c’è il Museo memoriale – appunto – di Gush Qatif, che era il nome dell’insieme delle colonie ebraiche che sono state presenti a Gaza City dal 1970 al 2005, quando Ariel Sharon decise di sfrattarle, nel primo – e poi rimasto unico, forse anche a causa della sua morte – ritiro unilaterale dai Territori Occupati. Chi, come me, era in zona già allora, ricorda quell’agosto come un momento di grandi speranze per il mondo, che volle vedere in quel gesto l’inizio di un processo di distensione, anche la riapertura – seppur unilaterale – di un percorso di pace. Nessuno ha dimenticato anche, tuttavia, che quell’estate e i mesi che la precedettero furono anche la spia di quanto vicina, e in fondo possibile, sia la guerra civile tra due Israeli che vivono sotto lo stesso cielo, hanno lo stesso passaporto, ma vedono la vita, il mondo, il tempo in cui vivono, in maniera semplicemente incompatibile. Da un lato chi marcia contro Netanyahu e crede che l’occupazione sia un crimine, e dall’altro chi crede che il crimine sia pensare di mandare via i coloni dalle case che sono state edificate illegalmente, in territori occupati illegalmente, naturalmente a patto di avere una minima considerazione del diritto internazionale. È esattamente questa voce quella che trovo al Museo di Gush Qatif.
Oded, custode e anima di questo stranissimo posto, mi guida nelle poche stanze del Museo, spiegandomi che lui non ha mai vissuto a Gush Qatif. Ma questo posto esiste per difendere “la memoria di un torto inconcepibile, un primo ministro ebreo che ha cacciato gli ebrei da casa loro”. Parla appunto di poche migliaia di coloni, che vivevano per lo più sulle spiaggie di Gaza, godendo della protezione di migliaia di soldati, in un contesto impossibile da ogni punto di vista. “Erano, come me, come noi, sostenitori di Eretz Israele (dell’idea del Grande Israele, dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, ndr), che è la Terra che Dio ci ha dato, come dice la Bibbia”. Mi fa vedere un lungo e lacrimoso documentario, in cui si celebra la bellezza del vivere a Gush Qatif, l’eroica resistenza dei coloni, il pianto a dirotto dei bimbi che han dovuto lasciare le loro case. Poi, come prevedibile, parliamo del presente. “Vedi, noi l’avevamo detto a Sharon… Avevamo spiegato a tutti che le cose non sarebbero cambiate, che una volta liberata la Striscia avrebbero voluto di più, avrebbero continuato a ucciderci. Il 7 di Ottobre è arrivato a dimostrarlo. Il discorso è molto semplice. Noi siamo un popolo pacifico che vuole vivere in pace. Loro ci odiamo, perchè siamo ebrei. Se non fossimo così forti militarmente ci ucciderebbero tutti, perchè è quello che vogliono. L’occupazione non c’entra nulla. Non era colpa di Gush Qatif”. Ma sognate di tornare laggiù, di ristabilire quelle colonie? “Questa è la nostra terra. Tutta. Per fortuna ci sono politici che lo sanno e lo dicono. E poi la gente, la gente sempre di più è con noi. Sai che adesso che nessuno ha voglia di uscire, per colpa della guerra, stiamo però ricevendo tantissimi ordini per le nostre magliette arancioni che inneggiano al ritorno di Gush Qatif?”.
Fuori, in un quartiere tradizionale di Gerusalemme, fervono i preparativi per il sabato. Il mercato di Mahane Yehuda è attraversato dalla solita frenesia, gli ultimi acquisti, la corsa a casa, la cena da preparare per oggi e domani, prima del divieto di lavoro. L’eterno presente di Israele, da oltre 5000 anni, incrocia l’eterno presente dello Stato: in teoria una nazione, in pratica una galassia di diversità sempre sul punto di esplodere. Hamas, apparentemente, ha ricompattato tutti, almeno per qualche settimana o qualche mese. È l’equilibrio precario e innaturale della guerra. Sembra riavvicinare i diversi: ma a guardare da vicino, si capisce bene che è vero il contrario, questa volta più che mai.
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