Geopolitica
L’Africa secondo Giorgia Meloni. Il Piano Mattei e la strategia dell’Italia
L’attesa è stata lunga, ma alla fine il tanto invocato Piano Mattei, oggetto di annunci e promesse di Giorgia Meloni già dall’estate 2022, ha fatto la sua comparsa nella solenne ambientazione dell’aula di Palazzo Madama, lunedì 29 gennaio. O, almeno, ha fatto la sua comparsa un quadro un po’ più chiaro di che cosa sia tale iniziativa, rispetto alla vaghezza dei diciotto mesi precedenti. Dopo l’immancabile cena di benvenuto al Quirinale della sera prima, le delegazioni di quarantasei paesi africani hanno preso posto sui banchi del Senato e hanno ascoltato il discorso programmatico della Presidente del Consiglio italiana e quelli dei vertici di Unione Europea e Unione Africana, per poi partecipare a panel tematici introdotti dai ministri del governo di Roma. Fin qui il cerimoniale, mentre si dovrà aspettare i prossimi mesi per capire in cosa consisterà davvero il Piano, quando Palazzo Chigi, tramite dpcm, darà sostanza ai propositi fin qui enunciati, con il finanziamento di progetti di cooperazione e di partnership economica distribuiti su tutto il continente africano. Si capirà allora forse anche in cosa consisterà il più volte proclamato nuovo metodo di approccio ai rapporti con l’Africa, non più caratterizzato da quelle che Giorgia Meloni definisce “logiche predatorie”, ma rispondente invece al proposito di instaurare un partenariato tra attori con pari status e dignità. L’Italia aspira dunque a presentarsi come ponte tra Africa ed Europa, e come nazione leader nella postura del Vecchio Continente verso la sponda meridionale del Mediterraneo, sebbene sarà da verificare se l’iniziativa sarà maggiormente rispondente a criteri improntati alla cooperazione allo sviluppo o piuttosto ad indirizzi geopolitici. Per il momento, non si può non notare come sul Piano Mattei il governo italiano stia ponendo tutto il suo peso diplomatico, con grande cattura di interesse mediatico che, sebbene utile a finalità di propaganda politica interna, genera un importante ruolo e una speculare responsabilità in capo al nostro paese.
Il Piano Mattei, dal nome dello storico fondatore dell’ENI, è un’iniziativa per la cui tramite il governo italiano si propone di orientare e dirigere una serie di attività di cooperazione internazionale, programmi culturali ed investimenti diretti esteri nel continente africano, da realizzare sotto la regia e supervisione della Presidenza del Consiglio. Tale azione trova la sua cornice istituzionale nel decreto legge di inizio gennaio in cui il governo ha stanziato i fondi necessari alla predisposizione della struttura amministrativa, che sarà collocata, come detto, a Palazzo Chigi, mentre i finanziamenti di competenza governativa dei singoli progetti attingeranno dal fondo italiano per il clima, per il valore di tre miliardi, e da quello per la cooperazione allo sviluppo, per due miliardi e mezzo. Nessun nuovo reale stanziamento economico, quindi, per un’iniziativa presentata trionfalmente come una svolta epocale per la politica estera italiana. Tuttavia, la stessa Meloni fa notare nel discorso in Senato come una delle principali novità rispetto al passato sarà il superamento della “logica di risorse su micro-interventi che non producono risultati significativi”, ora sostituita da “interventi strategici di medio e lungo periodo”, che sembrerebbero individuare in un plus di direzione strategica da parte del governo italiano la più evidente soluzione di continuità con il passato. I progetti saranno distribuiti su cinque aree tematiche, identificate in istruzione e formazione, sanità, agricoltura, acqua ed energia, e la loro ideazione e attuazione vedrà auspicabilmente il coinvolgimento, oltre che di istituzioni finanziarie internazionali e altri stati, anche di aziende private e, naturalmente dell’ingente schieramento di società pubbliche e partecipate, con Eni, Enel, Cdp, Terna, Leonardo e Fincantieri in prima fila. Alcuni particolari interventi già ideati sono stati citati dalla premier, spaziando dalla formazione professionale in Marocco a progetti di irrigazione in Tunisia e Congo, fino al sostegno alle produzioni agro-alimentari in Egitto e Mozambico e al sistema sanitario in Costa d’Avorio, ma sono stati ricordati anche l’interconnessione elettrica Elmed tra Italia e Tunisia, e un progetto legato alla produzione di biocarburanti in Kenya, pur essendo progetti già avviati negli anni scorsi. E’ però innegabile come la maggior scommessa di Giorgia Meloni sia da identificare nel proposito, più volte annunciato, di inaugurare una nuova epoca di partnership con l’Africa basata su un piano “non calato dall’alto” ma definito da una “piattaforma programmatica condivisa”, non rispondente ad “un’impostazione predatoria o caritatevole”. Al di là dello sfoggio di retorica di tali locuzioni, saranno le parole pronunciate poco dopo da Moussa Faki, presidente della Commissione dell’Unione Africana (sì, proprio lui, il politico impersonato dai due comici russi nell’ormai celebre “scherzo telefonico” alla nostra premier), a riportare tutti alla realtà e rovinare parzialmente la ribalta mediatica, ricordando alla platea che l’Africa auspica una partnership basata su “libertà e vantaggi reciproci”, che “non impone nulla” e “si traduca in fatti, perché l’Africa non si accontenta più di semplici promesse”, non mancando infine di far notare che gli Africani avrebbero “auspicato di essere consultati”.
Il Piano Mattei, con il suo obiettivo di supportare lo sviluppo del continente africano, si inserisce nel più ampio contesto della cooperazione internazionale promossa dall’Italia, che si materializza tramite l’attuazione tecnico-operativa ad opera dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), sotto la supervisione del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI). I fondi per la cooperazione allo sviluppo stanziati dal nostro paese per l’anno 2024, secondo dati forniti da Openpolis ammontano a 6,5 miliardi di Euro, in aumento del 5,6% rispetto allo scorso anno, pur essendo questo un dato “drogato” sia dalla comprensione in esso dei fondi per la gestione dei rifugiati nel nostro paese, sia dall’enorme spesa “una tantum” prevista per quest’anno in infrastrutture in Libia, in virtù dell’attuazione del trattato italo-libico del 2009. Lo stato italiano, come sottolineano le associazioni del terzo settore impegnate nella cooperazione, rimane in ogni caso lontano dall’obiettivo di portare tali stanziamenti allo 0,7% del RNL entro il 2030, essendo questo rapporto fermo allo 0,32% del 2023, pur in aumento rispetto agli anni precedenti. Niente a che vedere, ad esempio, con i 22 miliardi messi in capo nel 2022 dall’Agence Francaise de Developpement (AFD), la metà dei quali investiti proprio in Africa. Il mondo della cooperazione italiana si è espresso anche sulla nuova iniziativa presentata a Palazzo Madama dal governo Meloni, verso la quale, pur manifestando interesse e speranze, ha riservato critiche per lo scarso coinvolgimento delle parti africane nell’ideazione, in particolare della società civile, e per il forte sospetto che il Piano Mattei si materializzerà in realtà in gran parte in programmi di investimenti nel settore oil & gas per il mercato europeo, con scarso ritorno economico e sociale per le popolazioni autoctone. L’importante ruolo, che pare sarà assegnato all’ENI, a questo fa pensare, anche in virtù di esperienze recenti pregresse, come il caso dello sviluppo dei campi metaniferi di Cabo Delgado, in Mozambico, il cui gas prodotto sta andando, per la quasi totalità, a destinatari stranieri, oltre a contribuire negativamente alla conflittualità e all’instabilità locale. Le stesse preoccupazioni sono state espresse da decine di organizzazioni africane, che le hanno messe nero su bianco in una lettera indirizzata alla premier e al presidente Mattarella, in cui, tra le altre cose, hanno ricordato la necessità di formulare gli interventi secondo criteri rispondenti ad un modello di sviluppo non basato sui combustibili fossili, ma su tecnologie moderne in linea con gli obiettivi di transizione ecologica.
Il gran peso riservato al comparto energetico nel piano del governo italiano non è un mistero. Fin dai primi mesi di incarico Giorgia Meloni non si è risparmiata nel sottolineare come la sicurezza degli approvvigionamenti di fonti di energia sia in cima alla lista degli obiettivi del suo esecutivo, in continuità con l’operato di Mario Draghi, che, insieme all’ex ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, era riuscito ad impostare con successo una non facile strategia di sostituzione del gas russo dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina. L’Africa è oggi una delle principali aree del mondo, sia in quanto a produzione che a riserve provate di petrolio e gas naturale, in particolare con Nigeria, Algeria, Angola, Egitto e, conflitti permettendo, Libia, che riforniscono in gran quantità l’Europa. L’Eni, da sempre braccio armato della politica estera ed energetica italiana, detiene circa la metà delle sue riserve e una quota ancor maggiore di produzione nel continente, dove opera in tredici paesi, e il suo Amministratore Delegato Claudio Descalzi accompagna regolarmente la premier nelle visite di stato a sud del Mediterraneo. Come lo scorso anno, in occasione degli accordi firmati in Libia e Algeria per lo sviluppo di giacimenti ed esportazione di metano verso l’Italia. Ma l’idea alla base della strategia italiana è di andare oltre l’acquisizione di idrocarburi necessari al consumo nazionale, per arrivare a costituire in futuro un vero e proprio hub del gas, in previsione della successiva distribuzione in Europa, dove si punta a prendere il posto della Germania, pivot fino a poco tempo fa per la commercializzazione del gas di Mosca. Obiettivo non facile da raggiungere, per il quale, oltre agli approvvigionamenti della materia prima, sono necessari la costruzione o il potenziamento della capacità di gasdotti e rigassificatori, e l’adeguamento della rete interna, secondo la direttrice sud-nord, ma al quale la maggioranza di centrodestra assegna una grande importanza, anche in virtù dell’azione di contrasto ad una diffusa narrazione in tema di transizione ecologica, considerata da Roma troppo rigida e nociva per l’economia italiana ed europea. Nel piano non manca naturalmente lo spazio per investimenti su progetti di produzione di fonti di energia rinnovabili e sulle interconnessioni elettriche, come la già citata condotta Elmed con la Tunisia, e gli stessi nuovi gasdotti, nelle intenzioni del governo italiano, dovrebbero essere in futuro utilizzabili anche per il trasporto dell’idrogeno. Sarà interessante capire, nei prossimi mesi, come saranno programmati gli interventi nel settore, considerato anche il vincolo di destinazione presente per gli importi che saranno stanziati tramite il Fondo Italiano per il Clima, naturalmente riservati a progetti finalizzati al contrasto al riscaldamento globale.
L’altro motore dell’interesse della politica estera italiana per l’Africa, in particolare ai tempi del governo Meloni, ma in sostanziale continuità con il passato, è rappresentato dalla difficile gestione dei flussi migratori. Più volte la premier ha legato la realizzazione di piani di sviluppo per il continente africano all’obiettivo di migliorare in loco le condizioni di vita delle popolazioni che lo abitano, contribuendo, a suo dire, a garantire loro il “diritto di non migrare”, e di non finire, conseguentemente, nelle maglie delle organizzazioni criminali che gestiscono i flussi. Accanto ad esso, vi è nel Piano Mattei la spinta verso la collaborazione su progetti di formazione professionale, finalizzati a far crescere capacità e competenze, utili sia per lo sviluppo dei paesi di origine, ma anche per le necessità di manodopera in Europa e, in particolare, in Italia, dove anche l’attuale maggioranza di governo sembra aver compreso l’importanza della mobilità internazionale dei lavoratori, favorita dagli ingenti aumenti di posti previsti dall’ultimo decreto flussi. La collaborazione con i paesi di origine rimane fondamentale anche per stipulare gli accordi di riammissione dei migranti ai quali non è riconosciuto il diritto a rimanere in territorio italiano e, sebbene quest’aspetto non sia stato esplicitamente trattato dalla premier nel suo discorso, non vi è dubbio che esso sia uno dei principali dividendi attesi dal governo e dalla sua base elettorale. Il “modello Tunisia” per il ricollocamento e trattenimento dei migranti, delineato attraverso gli accordi della scorsa estate con l’assenso della Commissione Europea, rimane teoricamente un proposito valido, nonostante le difficoltà di attuazione e, fino ad ora, il sostanziale insuccesso. I patimenti europei, e in particolare italiani, sul tema delle migrazioni rischiano però di crescere in conseguenza delle crisi dovute ai recenti colpi di stato nei paesi del Sahel, dove le giunte militari non sembrano disponibili a perpetrare i rapporti di collaborazione con gli stati del vecchio continente, sia in ambito di sicurezza che di contrasto ai flussi di profughi. L’esempio ultimo di questo fenomeno è il Niger, dove i golpisti, al potere dall’estate scorsa, hanno abrogato la legge del 2015 che combatteva il traffico di esseri umani, riaprendo quindi anche formalmente le vie di comunicazioni passanti per Agadez, perno delle principali rotte verso il Mediterraneo attraverso il Sahara. Nell’ampia fascia desertica tra il Mare Nostrum e il Golfo di Guinea, strategica per il contrasto al jihadismo, oltre che alle migrazioni irregolari, si sta concretizzando la minaccia dell’influenza russa, che approfitta del diffuso sentimento anti-francese. Parigi si sta trovando infatti a fronteggiare un’ostilità esplosa tutto di un colpo, a causa principalmente di suoi errori di valutazione nei rapporti con i paesi dell’area, che si sono sommati all’insofferenza delle popolazioni per la storica ingerenza dell’ex potenza coloniale e alla presenza di un contesto caotico, caratterizzato negli ultimi anni da frequenti guerre e insurrezioni. E’ inevitabile che tale malcontento si rifletta sui rapporti di questi paesi con tutti gli europei, sebbene l’Italia si proponga con un modello di partnership diverso e alternativo rispetto a quello francese.
Dal meeting romano della settimana scorsa emerge certamente la consapevolezza, da parte del governo italiano, della grande importanza dell’Africa nello scenario globale dei prossimi decenni, e della necessità di instaurare con esso un rapporto che garantisca benefici per entrambe le parti. In particolare, il ruolo del continente africano risulta cruciale ai fini dell’efficacia delle politiche in materia di energia, immigrazione, sicurezza e contrasto al cambiamento climatico. Secondo dati ONU qui risiederà nel 2050 un quarto della popolazione mondiale, fino ad arrivare al 38% nel 2100, ed è evidente come alcuni stati stiano già ora aumentando il loro livello di soggettività geopolitica, a cominciare da Nigeria, Algeria, Egitto, Etiopia e Sudafrica. Approfittando anche delle crescenti tensioni globali, diversi paesi si stanno muovendo in modo maggiormente spregiudicato e autonomo tra le partnership con le ex potenze coloniali e il resto dell’Occidente e quelle con Cina, Russia e altri attori di media grandezza, ma dotati di notevole attivismo, quali la Turchia e i paesi del Golfo Persico. In particolare negli ultimi due decenni è stata la Cina ad incrementare la propria presenza nel continente, con investimenti in gran misura di natura infrastrutturale, veicolati dal 2013 attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), che in alcuni casi hanno però generato ritorni negativi in termini di indebitamento dei paesi che li hanno ospitati, in virtù della cosiddetta “trappola del debito”, da qualche anno denunciata anche da parte occidentale come un metodo spregiudicato per aumentare l’influenza geopolitica. E’ chiaro come di questo complicato contesto debba tenere conto qualsiasi soggetto voglia interfacciarsi con tale area, ben sapendo che i rapporti di collaborazione, lungi dal poter essere dati per scontati, andranno sempre più ottenuti con un dialogo il più possibile paritario, in cui le aspirazioni dei paesi africani, in particolare la lotta a fenomeni endemici quali la povertà, la malnutrizione, la mancanza di accesso all’energia e il riscaldamento globale, non potranno essere lasciati in secondo piano o trovare solo risposte con tanta retorica e pochi fatti. La sfida per noi occidentali sarà anche riuscire a controbilanciare la necessità di rispondere alle richieste di finanziamenti provenienti dall’Africa impiegando maggior celerità e minor burocrazia, con la necessaria attenzione al rispetto della democrazia e dei diritti umani, anche se è noto che una corrente di pensiero di matrice realista-conservatrice tenderebbe a non assegnare molta importanza a questi ultimi, privilegiando il soddisfacimento degli interessi da noi delineati. Ciò vale per l’UE, anch’essa da parte sua impegnata nella partnership con l’Africa, attraverso il Global Gateway, lanciato nel 2021 con l’obiettivo di mobilitare fino a 300 miliardi di Euro di interventi entro il 2027, e naturalmente per l’Italia. I prossimi mesi e anni diranno se il nostro paese sarà in grado di mantenere fede alle promesse e se il nuovo approccio annunciato da Giorgia Meloni valorizzerà effettivamente il ruolo degli africani o, invece, si rivelerà solo retorica utile a mascherare i flussi di gas e petrolio da una parte, e la cooperazione tesa a limitare i movimenti di migranti, dall’altra. L’onore riservato a Giorgia Meloni e all’Italia dai governanti africani e dal sistema mediatico, non solo nazionale, è stato alto. L’onere, immaginiamo, sarà conseguente.
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