Geopolitica

La via difficile per un Islam italiano: moschee, soldi e un concordato possibile

20 Giugno 2017

I tempi sono maturi. E forse questo è il periodo migliore per arrivare a un risultato, spinti dagli eventi internazionali, come la storia di uno dei terroristi kamikaze dell’attentato di Londra, Youssef Zaghba, di madre italiana e cresciuto a Bologna. Stiamo parlando di un’intesa che regoli e disciplini i rapporti tra Stato italiano e comunità islamiche presenti sul nostro Paese. Una legge auspicata da anni, che però sembra difficilissima da portare a casa. Un’accelerazione in tal senso è il “Patto nazionale per un Islam italiano” sancito a febbraio fa tra il ministero dell’Interno e le principali comunità islamiche nostrane, tra cui Ucoii e Coreis. Un documento che fissa alcuni capisaldi che potranno rappresentare l’inizio per la messa a punto di un vero e proprio concordato tra Stato e Islam italiano.

Ma perché c’è bisogno di regolare questo rapporto? I motivi sono diversi, ma i principali sono tre. Il primo è la costruzione delle moschee. In Italia ci sono un milione e mezzo di musulmani, la seconda religione del Paese, che nella maggior parte dei casi non sanno dove pregare. Le moschee vere e proprie, infatti, in Italia sono 4: la grande moschea di Roma (l’unica che vanta lo status ufficiale di moschea), quella di Segrate, alle porte di Milano, quella di Catania e quella di Colle Val d’Elsa. Una grande moschea ora è in fase di progettazione a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. Poi ci sono circa 1250 luoghi di culto, dove i musulmani si ritrovano per pregare: in alcuni casi sono locali all’interno di normali palazzi oppure addirittura scantinati. Ed è chiaro che obbligare i musulmani a pregare in locali angusti non è un buon viatico per costruire ponti tra le diverse culture ed evitare forme di radicalismo.

In secondo luogo, c’è la formazione degli Imam, che sono fondamentali nella guida delle comunità. Su questo punto occorre una premessa: per gli immigrati musulmani andare in moschea è una forma di aggregazione e di socialità. Ecco perché in Italia si ritrovano nei luoghi di culto pure musulmani che non li frequentavano nei loro Paesi di origine. Per questo motivo la figura dell’Imam assume una funzione fondamentale nella formazione spirituale dei fedeli ed è essenziale nell’evitare, o accelerare, forme di radicalismo che possono portare alla nascita di terroristi. Il patto tra Viminale e comunità islamiche prevede sermoni in italiano e un controllo sulla loro formazione, in modo che nessuno si possa improvvisare Imam.

Infine, una futura legge, secondo gli esperti, dovrà prevedere un maggiore controllo e trasparenza sui finanziamenti. Il maggiore sponsor economico dei luoghi di culto in Italia, infatti, è il Qatar, paese arabo da molti anni sospettato di finanziare anche le frange più estreme e i movimenti jihadisti. La Qatar Charity – una Ong connessa al fondo sovrano del Qatar – negli ultimi tre anni ha elargito circa 25 milioni di euro all’Ucoii per la costruzione di 43 luoghi di culto. Subito dopo questo piccolo e ricco Paese del Golfo, tra i finanziatori dell’Islam italiano c’è l’Arabia Saudita, seguita dalla Turchia e dal Marocco. Insomma, diversi Paesi arabi, specie i più ricchi, dedicano una parte del loro budget finanziario alla promozione dell’Islam in Europa e nel mondo.

“Il controllo dei finanziamenti serve anche a non aprire le porte ad altri modelli di Islam nel nostro Paese. Perché spesso, dietro i soldi, c’è la volontà di influenzare le politiche della comunità islamica secondo i vari modelli: marocchino, tunisino, dell’Arabia Saudita, del Qatar. I centri islamici, insomma, non devono diventare le ambasciate dei Paesi da cui ricevono i soldi. La nostra deve essere una via italiana all’Islam”, osserva l’imam Yahya Pallavicini, vicepresidente di Coreis, associazione musulmana che ha sottoscritto il patto con il Viminale. La Coreis è una comunità religiosa nata negli anni 90 che conta un centinaio di membri, quasi tutti italiani convertiti all’Islam. Ben diversa dall’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia), che aggrega gli immigrati musulmani e circa 200 luoghi di culto nel nostro Paese. Il presidente è Izzedin Eldir. Da una costola dell’Ucoii, nel 2008 è nata l’Unione musulmani in Italia, che raggruppa circa 150 centri di culto di origine marocchina. Poi c’è il Centro islamico culturale d’Italia, anch’esso di origine marocchina, che gestisce la Grande Moschea di Roma. Infine, l’Alleanza Islamica d’Italia, che si è formata ufficialmente nel 2010.

Ma cosa si dice in questo patto? Scorrendo i punti dell’accordo, gli obbiettivi sono “favorire la crescita del dialogo e del confronto tra governo e comunità islamiche”; “proseguire nell’azione di contrasto dei fenomeni di radicalismo religioso”; “promuovere un processo di organizzazione giuridica delle associazioni islamiche”; “incentivare la formazione di imam e guide religiose affinché possano assumere il ruolo di efficaci mediatori per assicurare la piena attuazione dei principi civili di convivenza”. E poi ancora: “garantire che i luoghi di preghiera mantengano standard decorosi e di rispetto delle norme vigenti, secondo le normative in materia urbanistica, igienica e di sicurezza”; “facilitare i contatti tra le istituzioni, la società civile e le associazioni islamiche”; “adoperarsi affinché il sermone del venerdì sia svolto o tradotto in Italiano”; “assicurare la massima trasparenza nella gestione e documentazione dei finanziamenti ricevuti dall’Italia e dall’estero”; “favorire percorsi per elaborare modelli statutari delle associazioni coerenti con l’ordinamento giuridico italiano”. L’auspicio è che i principi sottoscritti nel patto siano poi la base per una vera e propria intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche. Il concordato potrebbe poi consentire anche l’accesso all’8 per mille. Finora una delle principali difficoltà è il fatto che l’Islam italiano è frammentato e non c’è un unico interlocutore accreditato a parlare con il governo. “Questo è un falso problema, perché lo Stato ha sottoscritto otto intese diverse con i cattolici e due con i buddisti, quindi si può diversificare anche con noi musulmani. La sensazione è che questo argomento finora sia stato utilizzato come una scusa”, osserva l’imam Pallavicini. La divisione tra le comunità ha spesso portato a scontri all’interno dei musulmani nostrani, con l’Ucoii che ha cercato di esercitare una sorta di leadership, grazie anche al legame con i Fratelli musulmani, una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali, caratterizzata da un approccio politico all’Islam, sviluppata soprattutto in Egitto e nella striscia di Gaza. E sono proprio questi legami ad aver reso difficile in passato il dialogo con le istituzioni italiane. “Ora però i tempi sono maturi”, osserva Pallavicini, “e l’accelerazione imposta dal ministro dell’Interno Marco Minniti, dopo le varie ‘consulte islamiche” e tavoli vari messi in piedi dai precedenti ministri, è un’occasione da sfruttare. Sta ora ai rappresentanti dei musulmani in Italia dimostrare di avere l’intelligenza per raggiungere un’intesa attesa da anni. Solo in questo modo si potrà capire la differenza tra le comunità serie e chi invece preferisce muoversi in aree torbide e ambigue”.

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