Geopolitica
La Russia, l’Ucraina, la guerra e noi
Quanto sta accadendo in Ucraina segnerà con molta probabilità una nuova consapevolezza nei popoli europei. O almeno si spera. Non viviamo in una campana di vetro protetti dalla guerra e dalla violenza. Al contrario, essa è alle nostre porte, appena al di là dei confini dell’Ue. Lo è stata anche nel passato recente, ma avevamo ricondotto gli eventi a piccole e rapide scaramucce, o a caratteri genetici incorreggibili di nazioni balcaniche, oppure ancora alla inferiore civiltà di popoli nordafricani e mediorientali. Oggi invece assistiamo allo sfoggio di potenza del più grande esercito presente sul continente europeo, rivolto direttamente contro uno stato confinante la cui forza è infinitamente inferiore e con il quale deteniamo rapporti di buon vicinato e partnership economica. Tuttavia, se l’Ucraina è l’oggetto diretto dell’invasione russa, noi (europei, occidentali) rappresentiamo il secondo destinatario, in via indiretta, dell’azione di Mosca. Il messaggio è chiaro: la vasta area corrispondente ai confini dell’Ex URSS (riguardo alle repubbliche baltiche per ora glissiamo) è da considerarsi sotto l’influenza e il controllo russo, e tale deve rimanere. Europei e Americani devono scordarsi di inglobare anche solo uno dei paesi appartenenti a tale area nelle loro strutture economiche, politiche e militari, indipendentemente dalla volontà dei loro popoli. In caso contrario la Russia è pronta ad agire di conseguenza, usando la forza militare e finanche le armi nucleari, contro chiunque si frapponga d’ostacolo a tale obiettivo. Cogente massima geopolitica: mai permettere al nemico di posizionarsi ai propri confini.
Molto si potrebbe discutere della politica estera americana e dei paesi europei nei confronti dell’Ucraina negli ultimi vent’anni. Dalla “rivoluzione colorata” del 2004 e dalle offerte di adesione alla Nato avanzate dall’amministrazione Bush e poi lasciate successivamente a decantare, al coinvolgimento neanche troppo nascosto nel regime change del 2014 seguito alle manifestazioni di Jevromaidan in risposta alle violenze perpetrate dagli apparati di sicurezza legati al presidente Yanukovich. L’Occidente ha flirtato con l’Ucraina, ne ha rappresentato esempio di modello politico e culturale da emulare, le ha offerto l’adesione al proprio sistema economico tramite l’accordo di associazione e libero scambio del 2013 con l’UE, oltre che a quello di difesa. Ne è stata prontamente ricambiata, almeno da gran parte della sua popolazione, attraverso la scelta di campo inequivocabile del 2014, ribadita con le successive elezioni del 2015 e del 2019. Partecipare al sistema valoriale occidentale, entrare a far parte della società aperta o del mondo libero, come si diceva un tempo. Legittime aspirazioni di un popolo. Le quali però confliggono con gli imperativi in tema di sicurezza gravanti sul suo potente vicino, la Russia, come si è scritto in precedenza. Per Mosca è inaccettabile la presenza di uno stato anche solo potenzialmente utilizzabile dal nemico ai propri confini e così incuneato nel proprio territorio nazionale. A maggior ragione una nazione considerata sorella (minore). Due popoli e due differenti e confliggenti prospettive.
Da qui alla guerra il passo non sarebbe tuttavia automatico. La Storia rifugge il determinismo. La fiammata di tensione tra Russia e Ucraina avvampata nel 2014 con i fatti di Jevromaidan, Odessa, Crimea e Donbass era calata, sebbene il fuoco covasse sotto la cenere degli Accordi di Minsk 2 del 2015, mai completamente applicati. L’adesione alla Nato per Kiev rimaneva un miraggio, proprio perché ai soci dell’Alleanza non sfuggivano i pericoli di includere un paese considerato giardino di casa da un’altra grande potenza, e in ogni caso essa risultava impossibile in presenza di contenziosi ai confini e addirittura conflitti armati, se pur a bassa intensità. Joe Biden, nelle settimane precedenti l’attacco russo aveva chiaramente segnalato a Mosca che non riteneva l’Ucraina parte della sua sfera d’influenza, comunicando apertamente l’indisponibilità alla sua difesa militare. Tali rassicurazioni non sono state però sufficienti per Putin, il quale pretendeva una rinuncia formale e scritta da parte di Kiev e Washington. Richiesta inaccettabile, se non al termine di lunghe e complesse trattative, che il Cremlino non ha voluto attendere, tantomeno da intraprendere con gli ucraini, mai incontrati nei mesi precedenti l’invasione.
L’attacco iniziato oltre due settimane fa non si spiega solo con le paure di Mosca in fatto di sicurezza nazionale. Vladimir Putin ne ha ben rappresentato le motivazioni nei due discorsi alla nazione del 21 e 24 Febbraio nella sua cruda esposizione in diretta tv: all’Ucraina non viene riconosciuta dal presidente russo la dignità di nazione, e di conseguenza di legittimo stato indipendente. In una lunga e puntigliosa ricostruzione storica Putin ha incolpato i dirigenti sovietici del riconoscimento delle nazionalità facenti parte dell’Ex Impero Russo, attraverso la creazione delle repubbliche socialiste, tra cui quella ucraina. Per lui sacrilegio storico e finanche metafisico, in quanto sanzione del disfacimento della grande Russia seguito alla rivoluzione di Ottobre. Non si capisce il ragionamento alla base del disegno dell’uomo che siede al Cremlino se non si comprende la mentalità imperiale che lo guida, ben impressa anche nello stesso popolo russo. In tale visione, Russia, Ucraina e Bielorussia sono tre parti di un’unica entità superiore, strettamente legate nella Storia e nel destino, in una prospettiva eterna non modificabile da mano umana, né tantomeno straniera. L’obiettivo di Vladimir Putin, in definitiva, è ristabilire lo status di grande potenza della Russia, sancendone nuovamente la postura imperiale. L’assoggettamento e il controllo dell’Ucraina sono un passaggio imprescindibile in questo processo, insieme al “protettorato” di fatto già instaurato su Minsk. La retorica sulla denazificazione di Kiev e sul presunto accerchiamento di matrice occidentale è il collante con cui saldare il fronte interno di una popolazione orgogliosa e imbevuta del misticismo della Grande Guerra Patriottica. L’attuale fase storica internazionale, con un America introvertita su se stessa e reduce dall’umiliazione di Kabul e un Europa incapace di qualsiasi reazione militare e in preda al panico per i prezzi del gas naturale, è sembrata infine il momento opportuno per realizzare l’offensiva.
Quanto durerà e come finirà la guerra? Quali saranno le conseguenze sullo scenario internazionale e sul nostro paese? Difficile prevederlo, ad oggi. Quel che appare chiara, per il momento, è l’inattesa difficoltà delle forze armate russe ad aver ragione degli ucraini, tra problemi logistici e carenza di preparazione, almeno in due dei quattro fronti dell’avanzata, Kiev e Kharhov. E’ plausibile che a Mosca si contasse su una rapida disfatta del nemico e nell’indisponibilità della popolazione a resistere di fronte alla poderosa macchina da guerra russa, a prezzo di gravi perdite umane e materiali. La combattiva reazione patriottica del popolo ucraino sotto la sorprendente leadership del presidente Zelensky, insieme all’efficace uso da parte del suo esercito delle armi anti-carro e anti-aereo forniti da Usa, Gran Bretagna e Turchia, hanno invece modificato il quadro. Eppure la situazione sul campo, per l’Ucraina, è drammatica. Quasi tutte le principali città sotto assedio con alte perdite di vite umane e distruzione di edifici, non trascurabili porzioni di territorio invase, lo sbocco al mare compromesso, le forniture di energia elettrica e riscaldamento interrotte per vaste zone. Entrambe le parti devono fare i conti con le proprie debolezze e chi tra le due saprà mostrare maggior resistenza e capacità ad ovviare ad esse si presenterà più forte alla fase decisiva di auspicabili negoziati.
A fianco di Kiev, pur con modalità che non contemplano iniziative belliche, sta l’Occidente, identificabile nella Nato, le cui componenti di qua e di là dall’Atlantico stanno dimostrando per una volta una certa unità d’intenti. USA e UE si sono dimostrate decise più che mai a colpire la Russia con quasi tutte le possibili armi delle sanzioni economiche e del soft power, unite dalla violenza della mossa di Mosca, fino all’esclusione di molte sue banche dal sistema Swift e al congelamento delle riserve in valuta estera detenute sui conti della sua Banca Centrale. Carri armati contro mercati, missili e mortai contro Spotify, Netflix e Google. Da Washington e dalle capitali europee si prova a stringere il cappio intorno a Putin, ben sapendo però che il vecchio continente non potrà tagliare l’imponente flusso di denaro verso Mosca necessario all’acquisto del gas naturale, oltre che del petrolio. Non senza gravi rischi per le proprie economie e la tenuta sociale dei rispettivi paesi. L’obiettivo neanche troppo nascosto è provocare una tale crisi del sistema economico russo da convincerne la popolazione a togliere il consenso a Putin e spingere così gli “apparati” del regime a rimuoverlo. Scommessa ambiziosa. Spesso nella Storia le sanzioni non hanno determinato l’effetto sperato, e qualora invece riuscissero nell’intento prefissato, difficilmente avverrebbe nel giro di pochi mesi. Troppo tardi per Kiev. Evidentemente le cancellerie occidentali contano sulla già non semplice situazione dell’economia russa e sulle debolezze del suo sistema industriale, soprattutto nei settori ad alta tecnologia. Tuttavia, considerata la gravità della crisi in corso, con pericolose contiguità di truppe di Mosca e soldati Nato ai confini, in caso di gravi difficoltà delle prime, sarebbe opportuno fare anche attenzione a non spingere il presidente russo in un angolo senza via d’uscita, e privilegiare invece le opportunità di de-escalation e pacificazione, rinunciando alla tentazione di infliggergli colpi mortali. Non si è mai troppo sicuri di riuscire a mantenere limitata una guerra, date le circostanze del caso.
Gli equilibri mondiali nell’anno 2022 sono dunque in movimento. Putin ha lanciato la sfida agli USA e ai loro ancillari europei, deciso a riportare la Russia al posto che le spetta di diritto sullo scenario globale, nella sua visione. Ma la guerra in Ucraina rischia di degenerare con molta probabilità in una sconfitta strategica per Mosca, anche in caso di vittoria più o meno parziale sul campo di battaglia. Il revanchismo di matrice neo-imperiale sta portando con sé il prezzo dell’esclusione dal sistema economico a guida occidentale, l’ostilità di quasi tutti i paesi confinanti e una nuova presa di coscienza da parte degli Europei riguardo alla minaccia proveniente da est e la necessità di farvi fronte, con l’aggravante di una non certo brillante performance delle proprie forze armate mostrata al mondo. Per non parlare dell’incubo di un impantanamento del proprio esercito in territorio ucraino alla mercé della guerriglia di eventuali resistenti, con il flusso costante delle bare dal fronte con i propri ragazzi mandati a morire in una guerra contro un popolo considerato fratello. Un nuovo Afghanistan. Respinto a ovest l’orso eurasiatico si volgerebbe dunque definitivamente ad est, spingendosi nell’abbraccio con il dragone cinese, di cui si dovrebbe però rassegnare a costituirne lo junior partner con il ruolo di fornitore di risorse energetiche ad un costo necessariamente non troppo alto. L’alleanza del secondo e del terzo contro il primo è esattamente quanto per molti analisti americani si sarebbe dovuto evitare, in quel che è stato il principale dibattito strategico degli ultimi anni oltre Oceano, ma nell’ottica imperante a Washington il controllo sull’Europa, l’area più ricca e strategica del globo, vale questo rischio. Tenere ben separate Europa (si legge Germania) e Russia (ma anche Cina) è da vent’anni primario obiettivo geopolitico yankee. Si profila dunque una nuova guerra fredda, la cui caratterizzazione sarà verosimilmente improntata anche dal contrasto tra democrazie e regimi parzialmente o completamente autoritari, come la precedente lo fu tra mondo libero e socialismo reale.
L’Europa è già oggi chiamata a una scelta di campo, che pare aver preso in queste settimane di guerra. Da parte dei governi e delle opinioni pubbliche europee sarà però necessario prendere coscienza del nuovo scenario (sarebbe stato necessario farlo già anni fa) e comportarsi di conseguenza, anche quando l’onda emotiva si affievolirà. Il rapporto con gli USA dovrà essere mantenuto saldo, anche attraverso un congruo scambio tra una nostra maggior partecipazione agli oneri di sicurezza del vecchio continente, ormai non più rinviabile, e un reale supporto americano in tema di forniture di GNL. Sul primo punto i governi europei sembrano aver recepito il messaggio, ma sarà da verificare la tenuta delle odierne aperture all’aumento di spesa militare, soprattutto in paesi come la Germania e l’Italia, per natura restii a tali impegni. Berlino si appresta ad intraprendere i più grandi investimenti nel settore della difesa nella storia della Bundesrepublik, tentando con ciò una complicatissima operazione di modifica della propria postura strategica, dopo settant’anni di minimalismo economicista e introversione strategica. Vaste programme. Quanto a noi, già si odono i mal di pancia di parte delle forze politiche e dell’establishment culturale rispetto alla scelta di dar seguito coi fatti alle tante belle parole delle prime settimane di guerra. La Francia di Macron si trova comprensibilmente più a suo agio in fatto di armamenti e uso della violenza, ma le aspirazioni di guidare una nuova Europa potenza rischiano di rimanere solo velleità di grandeur fuori tempo massimo. Sulle illusioni di chi vagheggia di un esercito europeo in grado di rendere geopoliticamente autonomo il vecchio continente, infine, incombe sempre la realtà di un Unione Europea divisa in differenti e talora confliggenti interessi nazionali, che difficilmente tarderanno a riemergere una volta che fosse ridimensionata la minaccia di Mosca.
La sicurezza energetica e degli approvvigionamenti di materie prime è, insieme agli investimenti nel settore militare, il dossier più delicato in capo ai nostri paesi. Occorrerà diversificare quanto più possibile le importazioni di fonti di energia, incluso il gas naturale, al fine di ridurre o addirittura potenzialmente eliminare la dipendenza da quello russo. Impresa ardua, per un continente che negli ultimi anni tale dipendenza ha aumentato, spingendola fino quasi al 40% delle forniture totali. Il progresso verso l’utilizzo di fonti rinnovabili dovrà essere accelerato, ma sarà altrettanto necessario che l’UE metta mano alle politiche ambientali ed energetiche, comprendendo come sia pericoloso scoraggiare gli investimenti in fonti fossili e nell’energia nucleare, ora improvvisamente fondamentali per la sostituzione dell’import da Mosca. L’implementazione di rigassificatori, giacimenti e nuovi gasdotti dall’area mediterranea non potrà essere elusa, come lo è stata spesso in questi anni, e dovrà essere migliorata anche la rete di interconnessione dei flussi di metano tra i diversi stati, ad esempio ovviando alla scarsa capacità al confine franco-spagnolo. Anche in tema di acquisizione di risorse naturali, prodotti agricoli e industriali come l’acciaio, si prospetta il decoupling, con il delinearsi di un commercio internazionale sempre più caratterizzato da catene di fornitura posizionate in relazione ai rapporti geopolitici, che rischia di far gonfiare ulteriormente l’impennata inflazionistica. Sarà accompagnato dal tentativo di reshoring di molte attività manifatturiere, per quanto sarà possibile attuare. Su tutto, come detto, aleggia lo spettro dell’inflazione galoppante e ancor più, della stagflazione. Parola che fa tremare i polsi solo a pronunciarla. E se la corsa dei prezzi spaventa noi, è facile immaginare l’effetto che potrebbe avere sulle nazioni nordafricane, povere di risorse alimentari e ricche di giovani disoccupati, scontenti e arrabbiati. Le rivolte per il pane in Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco sono già avvenute negli anni ’80 e con le primavere arabe. Una terza ondata aprirebbe ulteriori scenari pericolosi, con ovvie conseguenze in fatto di stabilità di quei paesi e di flussi migratori verso l’Europa. Vera e propria bomba geopolitica pronta a innescarsi.
Viviamo tempi difficili, senz’alcun dubbio. Di fronte ad una tale accelerazione della Storia, è imprescindibile recuperare consapevolezza del tempo in cui viviamo e del nostro ruolo nello scenario mondiale. Come Europa e, ancor più, in quanto Italia, entrambe incardinate nell’ordinamento internazionale guidato dagli USA. Avremmo dovuto comprendere ben prima che la Storia è segnata dai conflitti e dalle guerre, che l’uso della forza non può essere escluso a priori e deve essere messo nel conto delle possibili azioni. Almeno da vent’anni a questa parte. Da quando cioè gli equilibri internazionali si sono messi in movimento, all’inizio di questo secolo. Sarà necessario emanciparci da un post-storicismo che ci fa ritenere al sicuro dentro un ordine mondiale idilliaco, regolato solo dai rapporti economici e dal diritto internazionale.
Sarà altrettanto fondamentale che all’interno delle nostre società europee non prevalgano le spinte disgregatrici, così forti negli ultimi dieci anni caratterizzati da crisi di vario genere a ripetizione. E’ pericoloso quando il dibattito pubblico degenera nella contrapposizione manichea, nell’invettiva moraleggiante, nella artefatta costruzione del nemico interno da additare ai propri seguaci, in quanto traditore della nazione o colpevole di attentare al bene comune. Negli USA una conflittualità di questo tipo ha ormai superato ampiamente i livelli di guardia, per responsabilità non solo di una parte politica, ma di più componenti della società americana. Anche in Europa siamo arrivati a soglie pericolosamente alte, massime durante la pandemia Covid-19. L’elite costituente l’apparato politico-mediatico-culturale porta oggi la grande responsabilità di non soffiare sul fuoco delle tensioni, ma di impostare un discorso pubblico improntato al vincolo di realtà, alla ragionevolezza, al rispetto di chi è portatore di idee diverse. Nonostante le tentazioni costituite dall’audience televisivo e dai sondaggi elettorali. Infine, spetterà anche a noi cittadini non cadere nelle trappole dell’odio contrapposto e delle campagne scientifiche di disinformazione orchestrate spesso a vantaggio di potenze ostili, e infine capire che, nei prossimi difficili decenni, se la concordia nazionale mancherà, sarà un serio rischio per tutti.
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