Geopolitica
Il dibattito su sicurezza e difesa comune europea. L’UE di fronte alla guerra
“L’Europa ha iniziato a comprendere l’urgenza e la portata della sfida che ci attende, ma c’è ancora molto da fare e dobbiamo muoverci in fretta, la minaccia di guerra può non essere imminente ma non è impossibile“. La sveglia di Ursula Von der Leyen all’Europa è risuonata così durante l’apertura del dibattito sulla difesa nella sessione plenaria al Parlamento Europeo del 28 febbraio. A due anni dall’invasione dell’Ucraina la discussione riguardo la necessità di operare una svolta decisa in materia di difesa e politica estera europea è tornata a occupare i discorsi dei politici e le prime pagine dei giornali. Se l’attacco russo a Kiev del 24 Febbraio 2022 aveva destato di soprassalto i governi e le opinioni pubbliche occidentali, nel corso del 2023 l’assuefazione alle notizie sulla guerra e la sostanziale incapacità di Mosca a conseguire risultati di una certa consistenza al fronte avevano fatto calare di qualche grado la soglia di attenzione. Una volta scavallato il 2024, tuttavia, per effetto dell’esaurirsi della debole offensiva ucraina dell’anno precedente, della rinnovata intraprendenza russa in Donbass e delle difficoltà da parte americana nel sostegno a Kiev, nelle capitali europee cresce nuovamente l’allarme. Destano preoccupazione, inoltre, le informative concernenti la capacità industriale russa in ambito militare, giunta a livelli superiori alle previsioni occidentali, in particolare per quanto riguarda il munizionamento, anche integrato da forniture da parte di paesi alleati, soprattutto se paragonato all’incapacità europea di stare al passo e rispettare le promesse pronunciate un anno fa riguardo alle forniture di proiettili di artiglieria a Kiev. Non che già prima della guerra in Ucraina, in realtà, fossero mancati i segnali della necessità per l’Europa di pensare seriamente al suo ruolo nella politica internazionale e al bisogno di dotarsi di strumenti atti a proiettare la propria forza nell’estero vicino. Dal 2011, almeno, dopo il big bang generato dalle primavere arabe, il mondo ha assistito ad un crescendo di guerre civili e terrorismo islamico nell’area mediterranea, all’intensificarsi dell’assertività cinese in estremo oriente, alle tensioni internazionali causate dalla presidenza Trump, all’avvicinamento di Teheran all’acquisizione della capacità nucleare e, infine, alla già citata aggressività di Mosca ai confini orientali dell’UE. Già nell’estate 2021 l’incapacità degli Europei di ricoprire un ruolo autonomo e significativo durante la ritirata della NATO da Kabul, decisa di fatto dai soli USA, fece dichiarare alla Presidente della Commissione Von der Leyen che l’Europa avrebbe dovuto dotarsi di una bussola strategica e di un’adeguata capacità militare. La storia dell’integrazione europea, tuttavia, testimonia come le iniziative comuni in materia di difesa siano caratterizzate da grandi slanci iniziali e successivi affievolimenti delle volontà politiche in fatto di realizzazioni concrete. Soprattutto negli ultimi trent’anni.
Dopo l’iniziale passo falso della CED dei primi anni ’50, che anestetizzò il dibattito in tema di difesa per quasi quarant’anni, i paesi aderenti alle Comunità Europee hanno ripreso a discutere di integrazione delle proprie forze militari e di politica estera comune a partire dai primi anni ’90, una volta terminata la guerra fredda con la dissoluzione dell’URSS. Con il Trattato di Maastricht del 1992 veniva inaugurata la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), secondo pilastro della nascente Unione Europea, mentre con le contemporanee Missioni di Petersberg gli stati costituenti l’Unione Europeo Occidentale (UEO), sorta negli anni ’50, ma di fatto mai operativa, si impegnavano a mettere a disposizione dell’organizzazione, ma anche di Nato e Ue, parte delle proprie forze militari per iniziative di interventi umanitari e stabilizzazioni di conflitti. Nel 1998 gli Accordi di Saint-Malo tra Francia e Regno Unito, seguiti all’inadeguatezza degli sforzi europei di fronte alla tragedia dei Balcani, mettevano le basi per una futura capacità di intervento militare europea, indipendente dalla Nato, se pur in coordinamento con essa. Nel nuovo secolo viene creata la figura dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune, inserito nell’ambito della Commissione, seguita dal Servizio di Azione Esterna, alle sue dipendenze. Vengono creati anche, almeno a livello teorico, i primi Battle Groups, ovvero battaglioni di 1500 uomini ciascuno, con forze provenienti da diversi paesi a rotazione, teoricamente mobilitabili in tempi molto brevi in caso di crisi militari fuori dai confini dell’Unione. Unità militari in realtà mai utilizzate, per l’alto livello di caveat posti a regolarne l’uso, a cominciare dalla necessità di autorizzazione all’unanimità da parte del Consiglio dell’Unione Europea e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e per le difficoltà di finanziamento, come spiega Paolo Mauri su Inside Over. Nel 2017 i governi dell’Unione gettano il loro sguardo finalmente al bisogno di razionalizzazione dell’industria della difesa nel continente, dando avvio, in gran parte su input francese, alla PESCO, una cooperazione rafforzata con lo scopo di realizzare sinergie e collaborazioni tra gli stati interessati su una vasta gamma di progetti in tema di difesa, dalle partnership per la produzione di mezzi e tecnologie a uso militare a quelle per l’integrazione dei sistemi logistici, di comunicazione e di comando tra i rispettivi eserciti. Oggi il tema della capacità e proiezione militare è inquadrato nella Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), regolata dagli articoli dal 42 al 46 del Trattato di Lisbona, e facente parte della più ampia PESC. In essi si afferma, tra le altre cose, l’obbligo di mutua assistenza collettiva tra gli stati dell’Unione in caso di attacco armato subito, similmente a quanto avviene con l’articolo 5 del trattato NATO. In tale contesto i paesi europei hanno partecipato e partecipano, dal 2003 in poi, a diverse missioni internazionali (EUFOR), di tipo sia militare che civile, principalmente indirizzate all’assistenza tecnico-militare, a operazioni di anti-terrorismo, contrasto alla pirateria, peace keeping e peace enforcing. Con un tale stato dell’arte siamo giunti quindi alla vigilia della presentazione delle nuove linee guida della strategia per l’industria della difesa da parte della Commissione Europea, che avverrà il prossimo 5 marzo.
E’ proprio la capacità industriale del Vecchio Continente nel settore militare a rappresentare una delle più immediate criticità riscontrate al termine dei primi due anni di guerra in Ucraina. In particolare, nell’ambito del munizionamento la produzione europea si è dimostrata gravemente insufficiente a tenere il passo con una guerra terrestre su un fronte ampio oltre 1300 km, che non si vedeva in Europa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. L’obiettivo, annunciato nel marzo 2023 da Bruxelles in seguito all’approvazione del regolamento comunitario ASAP, di rifornire Kiev con un milione di proiettili entro i dodici mesi successivi è stato clamorosamente mancato, e solo secondo i più ottimisti analisti si arriverà a inviarne al fronte la metà. Come spiega su “Limes” Gian Andrea Gaiani, negli ultimi trent’anni gli stati europei, ma anche gli USA, hanno ridotto in gran parte la produzione di munizioni, non reputando più possibile una guerra su larga scala, dopo la conclusione della Guerra Fredda. Analogamente, sono state limitate anche le dotazioni di carri armati e artiglieria. Il risultato è stato l’esigenza di svuotare in buona parte i magazzini degli eserciti europei, per far fronte alle richieste dell’Ucraina, sguarnendo parzialmente gli apparati di difesa dei nostri paesi. Secondo lo stesso Gaiani, le forze armate terrestri europee oggi non sarebbero in grado di sostenere per più di una settimana un conflitto come quello scoppiato ai propri confini orientali, dopo la quale esaurirebbero le munizioni. Anche l’obiettivo di sostenere l’Ucraina aggredita, portato avanti tramite l’European Peace Facility (EPF), sta incontrando notevoli difficoltà, essendo stato, come detto, fino ad ora in gran parte perseguito attraverso i trasferimenti di materiale di magazzino, ora in via di esaurimento. L’ultima promessa è stata fatta a Zelenskj lo scorso gennaio dal commissario Therry Breton, che ha nuovamente indicato in un milione di pezzi la quantità di proiettili da inviare a Kiev entro la fine dell’anno, ma, allo stato attuale il gap nei confronti dei ritmi di produzione russa, rinforzata dagli stock acquisiti da Iran e Corea del Nord, è evidente. Tali inadeguatezze rendono oltre modo urgente procedere, da un lato ad aumentare le spese per la difesa, come anche concordato da almeno un decennio in ambito NATO, dall’altro a mettere in atto una razionalizzazione dei relativi investimenti, sfruttando il più possibile le economie di scala, favorendo collaborazioni e fusioni intra-europee ed evitando duplicazioni inutili. Questo sembra essere il principale obiettivo della Commissione, già avviato con la realizzazione della PESCO nella precedente legislatura, che però deve fare i conti con le resistenze ben presenti nei livelli statali, sia per motivi politico-ideologici, sia per ragioni di tutela di occupazione e, non di meno, di controllo nazionale su un settore delicato e strategico quale è l’industria della difesa. Non vi è dubbio che Ursula Von der Leyen stia puntando a fare di tale obiettivo la bandiera degli ultimi mesi del suo esecutivo e, conseguentemente, della campagna elettorale per le elezioni europee di Giugno, dove si presenterà come Spitzenkandidaat del PPE. A tal fine l’attuale Presidente sembra essersi assicurata l’appoggio della Francia di Macron, decisa a far valere la propria esperienza e know how in ambito militare per accrescere il suo peso nell’Europa di domani.
I rapporti di forza tra gli stati dell’Unione e la naturale propensione delle varie capitali a mantenere il controllo delle proprie forze armate caratterizzano anche il dibattito sulla creazione di un esercito comune europeo. Anche in questo caso esigenza individuata da numerosi analisti e politici è quella di dotare l’UE di una capacità di difesa da eventuali aggressioni e di proiezione militare autonoma dall’alleato americano, per lo meno nelle aree del mondo la cui situazione geopolitica impatta sul nostro continente. Un imperativo strategico, si potrebbe dire, dopo l’invasione russa dell’Ucraina e in virtù della crescente instabilità tra Nord Africa e Medio Oriente. Si tratterebbe, nei disegni dei più ottimisti e nei discorsi di qualche politico, di far evolvere l’Unione verso un Europa potenza, capace di far valere le sue posizioni nel sistema internazionale con una forza maggiore di quella garantita da dichiarazioni verbali, sanzioni commerciali o dal soft power di quella che, molto velleitariamente, qualcuno aveva definito potenza civile. Ad identico scopo sono destinati anche gli sforzi della Commissione per stimolare la capacità di acquisizione di materie prime critiche e di produzione sul suolo europeo di chips e batterie, necessari per assicurare all’Unione un certo grado di autosufficienza tecnologica. Tale evoluzione rischia tuttavia di infrangersi con la sostanziale assenza di soggettività internazionale dell’UE, incapace di definire la propria politica estera esprimendosi con una voce unica e in tempi e modi accettabili. Limite strutturale, come noto, della complessa costruzione europea, nella quale gli stati nazionali rimangono i veri soggetti in politica internazionale, sia in quanto decisori e attuatori delle proprie strategie, sia in quanto principali attori nella definizione delle posizioni e azioni comuni risultanti dai faticosi compromessi raggiunti in sede di Consiglio Europeo e Consiglio Affari Esteri. Rimane evidente come, di fronte alla prospettiva di mettere in piedi un esercito comune, l’immediata domanda a cui dare risposta riguarda la titolarità della decisione sul quando, il dove, il come e il perché (sia in termini di causa che di scopo) esso debba essere utilizzato. Ovvero, si dovrebbe definire a chi delegare il comando militare, quali istituzioni debbano avere la direzione della politica estera europea a 360 gradi, e, in sostanza, chi debba detenere il potere di dichiarare guerra. Sembra perfino superfluo osservare la lontananza da questo scenario dell’Europa odierna, in cui gli stati nazionali continuano a essere, e, nonostante le illusioni di alcuni, chissà per quanto tempo, le unità politiche dove per la quasi totalità si sviluppa il dibattito pubblico, si condivide una Storia comune e, in ultima analisi, si esercita la democrazia. Non sfuggono ai più neanche gli effetti sull’assetto generale dell’Unione e sui rapporti tra i paesi membri di una svolta verso una postura strategica più assertiva. La Francia di Macron si propone da anni quale leader di un tal nuovo corso, per via del suo storico ruolo militare, con capacità e volontà di effettuare missioni in autonomia e gli status di membro permanente del Consiglio di Sicurezza ONU e potenza nucleare. La Germania rischierebbe di vedere affievolire la sua leadership sul continente, per quanto debole, ed essa stessa sta tentando di avviare, con un complicato cambio di paradigma e notevoli difficoltà, una politica di ammodernamento e potenziamento delle sue forze armate, dopo il celebre discorso della Zeitenwende del cancelliere Scholz del febbraio 2022. La partnership tra Parigi e Berlino sembra solida, ma pare sempre sporcata da una certa diffidenza reciproca, e prima o poi, nella nuova prospettiva in corso, andrà anche discussa seriamente una qualche forma di condivisione, a fini di dissuasione, del potenziale nucleare, oggi posseduto solo dall’Esagono all’interno dei confini UE. Analogo discorso varrebbe naturalmente per il seggio francese al Palazzo di Vetro a New York, sopra citato. Non va dimenticato, infine, che un eventuale forza militare europea produrrebbe certamente sovrapposizioni, contrasti e rivalità con la NATO, ovvero con gli USA, i quali, se da un lato guarderebbero con favore una maggior condivisione dei costi della difesa dell’Europa, dall’altro non vedono certo di buon occhio il rischio di perdere la loro pluridecennale egemonia sul continente.
Alla luce della necessità di realizzare progressi nell’ambito della sicurezza e difesa comune, e tenendo conto dei caveat gravanti sulle ipotesi di unificazione politica europea, il dibattito attuale nell’Unione verte su quali concrete iniziative si possano mettere in atto in tempi ragionevolmente brevi. La forza di reazione rapida di 5 mila uomini, annunciata dalla Presidente Von der Leyen a settembre 2021 quale prima pietra di un futuro contingente di 50 mila soldati, nei piani di Bruxelles dovrebbe essere operativa entro il 2025. Anche in questo caso sono ancora da definire le modalità di impiego e la cornice politico-giuridica di tale unità, ma è lecito immaginare che il potere di deciderne l’utilizzo rimanga soggetto a decisioni unanimi del Consiglio dei Ministri. Sull’altro delicato versante, costituito dalla razionalizzazione e dal potenziamento dell’industria della difesa, in attesa della presentazione del prossimo 5 marzo ad opera della Commissione, permane per il momento il giudizio di inadeguatezza sulle azioni fin qui messe in atto. Anche nell’ambito dello sforzo di rifornimento all’Ucraina, pur in una situazione al fronte drammatica per Kiev, a causa dell’inferiorità di mezzi e munizioni, i leader europei continuano a non trovare accordi su questioni di natura contabile, legate a divergenze sugli oneri finanziari e sulla modalità di acquisizione e provenienza delle armi. Come scrivono sia Federico Fubini sul Corriere, che Paola Peduzzi e Micol Flammini sul Foglio, la Germania sta condizionando alcune sue forniture all’ottenimento di uno sconto dai contributi già versati all’EPF, mentre la Francia sta bloccando l’acquisto tramite il medesimo strumento finanziario di 800 mila pezzi d’artiglieria, individuati dalla Repubblica Ceca sul mercato internazionale, perché non rispetterebbero il principio del Buy European, che avvantaggia in gran parte l’industria di Parigi, costringendo i partners più generosi ad una colletta volontaria. L’urgenza di imbastire nuove linee di produzione nel continente, già di per sé non tecnicamente semplice, confligge inoltre inevitabilmente con il bisogno di stanziare investimenti ingenti da parte dei gruppi industriali del settore, i quali però, per quanto sensibilizzati a dovere in fatto di supremi interessi nazionali ed europei, non possono evitare di fare i conti sulla effettiva durata di una tale domanda di armamenti. Se si ci si avventura poi ad entrare nel campo dei bilanci economici statali, non è difficile comprendere che, almeno in molti paesi, tra cui l’Italia, gli spazi di spesa sono pochi, mentre i vincoli del Patto di Stabilità europeo torneranno dal prossimo anno ad essere stringenti e le opinioni pubbliche mal sopporteranno politiche fiscali restrittive o destinazioni di fondi alle spese militari piuttosto che a ospedali, pensioni, bonus e sussidi vari. Il dilemma tra burro e cannoni è sempre valido, ma verosimilmente tornerà in auge quanto mai lo è stato negli ultimi settant’anni, sempre che qualche capo di governo abbia il coraggio di porre esplicitamente il tema. L’opera di convincimento dell’opinione pubblica e l’educazione ad una cultura della difesa, in un continente che aveva rimosso per sempre l’idea della possibilità di una guerra sul proprio territorio, e appaltato la propria difesa agli USA, appare oggi di difficoltà immane. Come in molti sostengono, inclusi anche alcuni governi, le ingenti somme da investire presupporrebbero il bisogno di racimolare fondi attraverso un meccanismo analogo a quello utilizzato per il Recovery Fund, ovvero attraverso l’emissione di obbligazioni garantite da tutti i ventisette paesi, ma Berlino si dice fermamente contraria, e la Presidente Von der Leyen non si discosta da tale posizione.
Il 2024 si presenta come (ennesimo) anno cruciale per l’integrazione e la stessa sicurezza dell’Europa. Le elezioni europee di giugno costituirebbero l’occasione per una vivace arena di dibattito continentale in materia di difesa comune, sebbene, come fa notare Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, la Storia insegna che, anche in questo tipo di contesa elettorale, i temi trattati dai partiti vertano maggiormente sull’ambito nazionale. Il forte impegno in materia dimostrato nelle ultime settimane da Ursula Von der Leyen, come già detto, inclusa la sua proposta di nominare un Commissario alla Difesa, testimonia la notevole attenzione dei Popolari sulla materia, condivisa da Liberali e Conservatori, e preannuncia possibili variazioni nel sistema di alleanze all’Europarlamento, come già riscontrato lo scorso anno durante votazioni in tema di transizione ecologica, nelle quali Socialisti e Verdi, a difesa dell’impianto originario del Green Deal, si sono trovati in minoranza, o hanno rischiato di esserlo. Meno Green Deal e più Security Deal, sembra essere lo slogan neanche troppo nascosto dei gruppi politici di centro-destra, ed è facile immaginare che, data la perenne scarsità di fondi a disposizione, i due settori potranno entrare in competizione. Ciò che sembra fuor di dubbio, ad ogni modo, e condiviso da quasi tutte le forze politiche europee, è l’urgente necessità di implementare le capacità di difesa, in un momento storico in cui Vladimir Putin si affaccia minaccioso da est e gli USA a novembre potrebbero di nuovo portare alla Casa Bianca Donald Trump, deciso a mettere in pratica ancor più del precedente mandato le sue idee isolazioniste e la sua politica estera jacksoniana basata su logiche transazionali. Analogamente, la guerra in Ucraina oggi rappresenta per l’Europa una sfida cruciale da non perdere, al fine di ristabilire un sufficiente grado di dissuasione strategica nei confronti di Mosca, le cui aspirazioni a ricostituire almeno in parte l’impero o la passata sfera di influenza russa sono contrastabili solo mostrandosi forti e risoluti. Le classi dirigenti europee hanno oggi la responsabilità di comprendere che gli occhi con cui hanno interpretato il mondo negli ultimi trent’anni (forse anche settanta) non sono più adeguati ai tempi, e che è necessario un cambio di paradigma, per rendere davvero efficaci le politiche europee in tema di sicurezza, oltre gli acronimi e le procedure burocratiche barocche tipiche di Bruxelles. Non diversamente, anche per le opinioni pubbliche sarà necessario intendere sempre più la difesa come un bene comune, come la sanità o l’istruzione, richiedente maggiori investimenti e flussi di spesa. Da quanto e come gli Europei sapranno rispondere a queste sfide dipenderà probabilmente il ruolo del nostro continente nel mondo, il mantenimento dei valori di libertà e democrazia e, infine, la nostra stessa sicurezza.
Le linee strategiche su sicurezza e difesa presentate dalla Commissione Europea il 5 marzo confermano che, sotto le tante parole, i fatti sono sempre pochi e rimandati a tempi non vicini. Lo stanziamento previsto è limitato a 1,5 miliardi per i prossimi 4 anni, da utilizzare come incentivi alla fusione e alla collaborazione su progetti comuni per le imprese europee del settore. Entro il 2030 si prevede poi di arrivare ad acquisti di armi e munizioni in comune, tra i paesi dell’UE. Nulla si dice riguardo a fondi extra bilancio e finanziamenti al settore tramite bond europei.