Geopolitica

La lezione Ceca

26 Ottobre 2017

In Repubblica Ceca ha vinto le elezioni il miliardario Andrej Babis. Ad uscirne rafforzate sono le ambizioni del gruppo di Visègrad, noto anche come V4, il raggruppamento di Paesi che in questi anni ha fatto da minoranza di blocco sul processo di integrazione europea.

I magnifici quattro dell’Europa centrorientale, Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, possono adesso contare sulla recente vittoria del giovane Kurz in Austria. Il leader del Partito Popolare austriaco (Övp), infatti, pur continuando a professarsi pro Europa ha spostato l’asse della propria forza politica su posizioni che sono molto in sintonia con il V4.

La storia del  V4 è antica. Nel 1991 i tre ex Paesi del Patto di Varsavia (Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia) siglarono nella città Ungherese di Viségrad un trattato allo scopo di rafforzare la loro cooperazione per aumentare la loro integrazione politica, in vista dell’obiettivo di aderire all’Unione Europea e alla Nato.

È solo negli ultimi anni, tuttavia, che quel vecchio Patto ha assunto il ruolo di un vera sinergia tesa ad interdire le politiche d’integrazione Europea. La crisi migratoria del 2012 e 2015 e il primo flusso della rotta balcanica hanno portato alla ribalta le posizioni del V4. Questo turno elettorale, le elezioni austriache, l’influenza del gruppo sui Balcani occidentali, certificano la forza e capacità attrattiva ed espansiva di Viségrad.

È uno dei paradossi dell’Unione Europea. Parliamo dei Paesi che hanno avuto maggiori vantaggi dall’allargamento, beneficiando di miliardi di risorse europee che hanno generato tassi di crescita positivi anche nel corso della grande crisi.

Andrej Babis ha beneficiato anche personalmente di queste risorse. Da Ministro delle Finanze è stato cacciato dal governo per conflitto d’interessi e per scandali sia legati ad abuso di fondi della Ue sia all’accusa di aver lavorato sotto il vecchio regime per la StB, polizia segreta comunista.

Babis, come Trump, come altri leader affermatisi nell’ultimo ventennio (in Italia siamo stati precursori) deve la sua popolarità alla sua fortuna, al suo successo di secondo uomo più ricco del paese.

Uno dei temi cavalcati da Babis, come tutta la nuova destra nazionalista e sovranista, è l’immigrazione. C’è un piccolo dettaglio: Babis vive in un Paese in cui non esiste il fenomeno delle migrazioni. In un mondo ormai in disordine l’evocazione dell’identità è diventato il rifugio per esorcizzare le paure. Questo la nuova destra lo ha capito. Sono forze politiche diverse dalla destra liberista degli anni ’90. Quella egemonia culturale scardinò, a partire dagli anni ’70, le politiche fiscali, facendo pagare di meno ai ricchi. Ha contribuito in Occidente ad ampliare le diseguaglianze, ma era comunque una destra liberale che ha esaltato le società aperte.

Adesso su quelle diseguaglianze una nuova ondata populista fa leva, invoca protezione, barriere, trova il capro espiatorio nei migranti, e conquista consenso. Continua a proporre politiche fiscali che avvantaggiano i ricchi, come la flat tax, spostando l’attenzione (e le ire) dell’opinione pubblica su altri temi. E’ una destra che per stile, contenuti e messaggi è più vicina anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso. Fintamente popolare, al servizio di grandi interessi.

La diseguaglianza, in definitiva, non è colpa di politiche fiscali che avvantaggiano i ricchi, di grandi gruppi economici transnazionali che fanno grandi profitti schiacciando anche i produttori e non pagando le tasse, ma dei migranti. È un messaggio falso, ma forte. E sta vincendo.

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