Geopolitica

La legge illegale che regola l’indipendenza della Catalogna

10 Settembre 2017

Nella tarda sera del 6 settembre 2017 il Parlament della Catalogna ha votato e approvato con 72 voti a favore, nessun contrario e 11 astenuti la legge del referendum di autodeterminazione, primo passo della corte catalana verso la consultazione del primo di ottobre che chiama gli elettori a scegliere se continuare a far parte della Spagna oppure costituirsi Repubblica indipendente. Il 7 settembre 2017, il Tribunal Constitucional spagnolo (la Consulta, per intenderci) ha accolto il ricorso del Governo di Madrid contro questa legge e l’ha sospesa in via cautelare fino a quando non verrà emessa la sentenza [1]. L’8 settembre 2017 la sindaca di Barcellona (che della Catalogna indipendente dovrebbe essere la capitale), Ada Colau, ha dichiarato che il comune (ayuntamiento) non metterà a disposizione nessun locale di sua proprietà per lo svolgimento del referendum.

Questa la cronologia recente di un percorso secessionista le cui tensioni sono ormai note da tempo. Da diversi anni, infatti, una parte della società della Comunità Autonoma spagnola cerca di raggiungere un distacco definitivo da Madrid e dal resto del Paese, per soddisfare la propria autodeterminazione in quanto popolo. Nel 2012 si celebrarono le elezioni regionali (autonómicas) in cui venne eletto un Parlament a maggioranza relativa indipendentista che organizzò la consulta del 9 novembre 2014, meglio conosciuta come il 9-N. Una consulta senza vincoli legali e alla quale partecipò il 33% degli aventi diritto al voto (tra cui anche gli stranieri residenti da più di un anno) e nella quale vinse il sì all’indipendenza con l’81% dei voti. Dal punto di vista del processo secessionista il 9-N non ebbe conseguenze, ma sì le ebbe dal punto di vista politico (tra cui l’inabilitazione dell’ex Presidente, della ex Vicepresidente e dell’ex Assessore all’Istruzione della Generalitat), giacché vennero convocate nuove elezioni autonómicas per il 27 settembre del 2015. Elezioni in cui i partiti indipendentisti si presentarono agli elettori con due punti di programma: la celebrazione di un referendum vincolante e il distacco da Madrid. Vinsero con una risicata maggioranza relativa e, pochi giorni fa, hanno celebrato la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale catalana della legge che regola il referendum del primo ottobre.
Tuttavia, questa legge e la consulta referendaria a cui apre le porte presentano più d’una zona d’ombra, al di là del fatto di essere d’accordo o meno con l’indipendenza catalana.

Innanzitutto bisogna ricordare la struttura dell’ordinamento giuridico e democratico spagnolo. La vita civile in Spagna è regolata dalla Constitución Española confermata attraverso referendum nel 1978 da tutti i cittadini spagnoli maggiorenni a suffragio universale, tra cui i catalani che parteciparono con un dato di affluenza di circa il 67%, in linea con il resto del Paese. Per la stesura della carta costituzionale erano state convocate nel 1977 le prime elezioni politiche libere dal 1936, le prime dopo 41 anni in cui parteciparono tutti i partiti che il Franchismo aveva reso illegali, quindi anche il PSOE (Partido Socialista Obrero Español) e, soprattutto, il PCE (Partido Comunista de España). La Costituzione spagnola è, come in Italia, la Legge suprema all’interno della quale operano tutti gli attori politici, amministrativi, giuridici ed economici dello Stato. Per rispettare le diversità linguistiche, culturali e geografiche del Paese, il titolo VIII della Constitución prevede la creazione di Comunità Autonome che possono dotarsi di uno Statuto di Autonomia, una sorta di costituzione locale che si muove dentro le maglie della Costituzione nazionale.
Le prime Comunità Autonome che nacquero e che si dotarono di Statuto furono la Catalogna, i Paesi Baschi e la Galizia. Si tratta delle tre nazioni dentro la nazione che affiancano al castigliano un idioma locale insegnato nelle scuole pubbliche, rispettivamente il catalano, l’euskera e il galiziano. Sono, anche, le tre autonomie già previste dalla Costituzione Repubblicana del 1931, poi abolita dal regime di Franco. Ad oggi le Comunità Autonome sono 17 e possono unirsi tra loro o scindersi ulteriormente. Hanno ampi margini di manovra in diversi settori (la salute, l’istruzione e in alcuni casi, come la Catalogna, la pubblica sicurezza), pur non valicando i limiti imposti dagli Statuti e dalla Carta del 1978. Inoltre gli Statuti sono tenuti a rispettare il principio di unità del Paese e, in caso di un mancato rispetto della Constitución, il Governo di Madrid, attraverso l’articolo 155 può sospendere l’autonomia di una Comunità. Questo articolo è molto importante perché specifica che “Si una Comunidad Autónoma no cumpliere las obligaciones que la Constitución u otras leyes le impongan, o actuare de forma que atente gravemente al interés general de España, el Gobierno, previo requerimiento al Presidente de la Comunidad Autónoma y, en el caso de no ser atendido, con la aprobación por mayoría absoluta del Senado, podrá adoptar las medidas necesarias para obligar a aquélla al cumplimiento forzoso de dichas obligaciones o para la protección del mencionado interés general”, che si traduce in “el Gobierno podrá dar instrucciones a todas las autoridades de las Comunidades Autónomas”, ovvero potrà sostituirsi al governo locale in tutte le sue funzioni.

Una volta chiariti questi punti fondamentali, è possibile ragionare sulla legge approvata il 6 settembre.
Innanzitutto il referendum è anticostituzionale perché viola la carta del 1978, essendo una questione territoriale spagnola per la quale sarebbe necessaria una modifica della Costituzione. In Spagna, infatti, i referendum costituzionali devono essere votati da tutti i cittadini spagnoli, visto che la Carta prevede che la sovranità appartenga al popolo tutto e non a una sua parte. Queste due obiezioni erano già state avanzate dal Tribunal Constitucional nel 2014 in occasione del 9-N.
In secondo luogo, per approvare questa legge, si sono operate due modifiche sostanziali a colpi di maggioranza:
1) si è introdotto il dibattito express per una legge di natura costituzionale, tipo di dibattito che fino a fine luglio di quest’anno era previsto solo per decreti d’urgenza e leggi ordinarie;
b) si è modificata la maggioranza necessaria all’approvazione di una legge costituzionale, che passa dai due terzi necessari in precedenza (mayoría calificada) al 51% (mayoría simple), quindi da qualificata ad semplice. Bisogna ricordare che questa Legge si sostituisce e contraddice lo Statuto d’Autonomia catalano, in quanto che né questi né la Costituzione permettono una consulta che modifichi i confini della Spagna (a differenza da quanto prevede la Common Law britannica nel caso della Scozia).

Per queste ragioni, il Consell de Garanties, l’organo che vigila sul rispetto della costituzione locale catalana, ha dichiarato questa legge illegittima e con punti di illegalità (elencati sopra). Inoltre i letrados del Parlament (un gruppo di giuristi che vigila l’attività dei parlamenti locali spagnoli) ha fortemente criticato le modifiche effettuate ai regolamenti parlamentari per la discussione di una Legge referendaria come questa.

Il manifesto ossimoro di una legge sostanzialmente illegale ha fatto sì che si producesse una spaccatura nella società catalana che si riflette tra i banchi del Parlament. Dei 136 deputati che lo compongono, infatti, solo 72 hanno votato a favore (Junts pel Sì e CUP), 11 si sono astenuti (Catalunya si que es pot) e ben 53 (PSC, PP e Ciudadans) hanno abbandonato l’aula prima della votazione. L’immagine dell’emiciclo semivuoto al termine dei lavori lascia molte perplessità sulla legittimità anche morale, etica e democratica del procès indipendentista, considerando soprattutto il fatto che il referendume sarebbe svincolato da un quorum. Inoltre, le tre città maggiori della Catalogna, Barcellona Tarragona e Lérida, hanno dichiarato che non forniranno locali pubblici comunali per lo svolgimento delle votazioni, il che sommato agli altri comuni più piccoli che ne seguono l’esempio, lascerebbe circa il 60% della popolazione senza urne (dato dell’8 settembre 2017, ore 23:00, fonte El País; qui è possibile consultare una cartina interattiva aggiornata). Urne che, stando a quanto minacciato dal Governo centrale, potrebbero venire rimosse dalle forze di polizia.

Infine, è presente una violazione di praticamente tutti i trattati internazionali, le direttive ONU (non è il caso del Kossovo perché nei Balcani il processo di indipendenza dalla Serbia fu tutelato e seguito direttamente dalle Nazioni Unite) e il Consiglio di Venezia. Anche l’Unione Europea ha espresso la sua contrarietà al processo indipendentista e chiarito che “qualsiasi azione contro la Costituzione di uno stato membro è un’azione contro l’Unione Europea”. Il diritto di ogni Paese membro di organi internazionali deve, comunque, rispettare i trattati che questi organi firmano e i cui membri sottoscrivono. E la Repubblica di Catalogna, così come la immaginano coloro che la promuovono, vorrebbe far parte di ONU, NATO e Unione Europea. Senza, però, fare i conti con la realtà.

[1] In un primo momento avevo erroneamente affermato che il Tribunal Constitucional aveva dichiarato incostituzionale la legge, quando, invece, ancora non ha emesso la sua sentenza.

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