Geopolitica
La guerra delle élite contro l’inflazione è persa
Il tema della lotta all’inflazione è uno di quelli decisamente caldi in questi giorni in Europa come pure negli Stati Uniti, ma non solo. A tale proposito, con molto acume, Gianclaudio Torlizzi, ben noto founder presso T-Commodity s.r.l., ha scritto : “Perché le élite perderanno la guerra contro l’inflazione? Perché non capiscono/vogliono capire: 1) quanto le politiche climatiche alimentino al rialzo i prezzi energia e materie prime; 2) quanto le commodities siano influenzate da dinamiche geopolitiche. Un concetto basilare infatti è che dal 2020 a oggi le materie prime detengono de facto il controllo dell’outlook inflazionistico. Per questa ragione ritengo ridicola l’aspettativa del mercato sul ‘pivot’ della FED. La bc Usa stasera potrà anche allentare un po’ l’approccio di politica monetaria per fare un piacere alla Casa Bianca e dare un’ulteriore spinta a Wall Street prima delle mid term, ma fintanto che il petrolio continuerà a scambiare sopra i $70 (occhio tra l’altro all’allarme attacchi sulle infrastrutture saudite da parte Iran) le pressioni sui prezzi rimarranno elevate. Da evidenziare poi che negli ultimi 6 mesi abbiamo assistito a un crollo dei prezzi delle commodities come metalli, e acciaio. Crollo che però cederà il passo a un nuovo ciclo rialzista appena Pechino allenterà la Covid Zero Strategy. Ieri ne abbiamo avuto un assaggio: nichel 7% in una sola sessione di Borsa in scia alle indiscrezioni (non confermate per giunta) circa l’allentamento della CZS da parte del Governo cinese. Se a questo aggiungiamo le nuove tensioni che investiranno il comparto dei beni alimentari dopo la sospensione dell’accordo sul grano da parte di Mosca, ben si comprende come la spinta inflazionistica commodity-driven rappresenti un elemento di natura strutturale. Per concludere, è probabile che domattina ci sveglieremo con tassi negli Usa al 4% ma con un’inflazione ancora all’8,2%. Prima o poi il mercato dovrà digerire la verità e arrendersi al fatto che la guerra contro inflazione non si vince con tassi interesse negativi.”
Splendida disamina cui andrebbe, a mio avviso, aggiunta una ulteriore riflessione evidenziante un problema strutturale ed al momento ineliminabile per mancanza di una analisi economica degna di questo nome su di un fatto incontrovertibile: allo stato attuale l’approccio teorico alla base dell’impiego degli strumenti di politica monetaria utilizzati a livello internazionale da tutti i principali attori -in primis la FED e la BCE- sono oltremodo inadeguati in quanto ispirati dalla teoria economica di John Maynard Keynes: splendida teoria ma obsoleta perchè applicabile ad un sistema economico ad economie separate -quindi come tali non rientranti in un sistema globalizzato- rispondenti ognuna ad una moneta sovrana e non certamente fiduciaria come sono tutte le monete attuali a partire dal 1971, anno della fine degli accordi di Bretton Woods.
Il meccanismo introdotto da Keynes rappresenta un sistema che, per certi versi, potrebbe essere definito a “vasi comunicanti” dove un Paese ricco, a moneta forte -e come tale a bassa inflazione-, si vede penalizzato nelle esportazioni, a differenza di quanto accade ad un Paese con moneta debole ed alta inflazione che si vede ben collocato proprio nelle esportazioni per ovvie ragioni di cambio. In un tale contesto il primo Paese, favorito dall’attivo della bilancia commerciale, disporrà per certo di cospicui capitali da investire, capitali a cui le imprese potrebbero agevolmente attingere grazie ai bassi tassi di interesse anche se difficilmente troveranno utile farlo proprio per la penalizzazione derivante dalla moneta forte: un qualcosa che, alla lunga, potrebbe portare in prima battuta ad un rallentamento dell’economia e successivamente perfino ad una recessione.
Situazione diametralmente opposta a questa sarà quella caratterizzante il secondo Paese in quanto la sfavorevole bilancia commerciale lo penalizzerà non poco per la indisponibilità dei capitali necessari ad attuare una politica economica espansiva. Il secondo Paese, per reperire i necessari capitali, sarà evidentemente solitamente costretto (se non in toto, almeno in parte) ad indebitarsi sull’estero pagando generalmente alti tassi di interesse a causa del basso rating che in tali casi caratterizza il proprio debito pubblico: un qualcosa che verosimilmente determinerà un costo del danaro elevato solitamente insostenibile dalle imprese locali che, per questa via si vedranno costrette, prima o poi, a passare la mano innescando una spirale economica negativa dai risvolti talvolta drammatici per l’intero Paese.
In una condizione del genere al primo Paese (come spesso è accaduto in passato) converrebbe, se ve ne sono le opportune condizioni, investire direttamente nel secondo per promuoverne la crescita in prima persona al fine di beneficiare degli utili realizzati dalle imprese partecipate del secondo. In questo modo si realizzerebbe, di fatto, un travaso di ricchezza che alla fine porterebbe nel tempo -è accaduto- ad una inversione dei ruoli come frutto anche di successive svalutazione della prima moneta ed apprezzamento della seconda … e così avanti.
Il sistema non è così virtuoso nella realtà ma lo approssima, o almeno lo potrebbe approssimare abbastanza bene, almeno in linea teorica, in presenza di un primato della politica sull’economia.
Purtroppo il sistema globalizzato in cui ci troviamo ha fatto saltare anche solo la possibilità di porre in essere questo meccanismo e l’Europa ne è un drammatico esempio lampante per il fatto che i Paesi forti e quelli deboli dell’area UE sono caratterizzati da una moneta unica che, alla lunga, non favorisce gli uni e penalizza gli altri senza offrire una reale possibilità di vedere attuato quel travaso altalenante di ricchezza che caratterizza i cicli economici di controtendenza e ciò, in primis, tanto per il mancato primato della politica sui mercati quanto -e soprattutto- per la mancanza di una politica unitaria. In questo caso, infatti, alla moneta unica fa da contraltare un assurdo insieme di politiche locali distinte e fin troppo spesso disarticolate che la presenza dell’Euro rende inefficaci: di fatto l’Unione Europea non è né carne né pesce -non uno Stato coeso e sovrano degno e neppure una struttura macroeconomica di vecchio stampo- e, come tale, è penalizzata da tutti gli svantaggi derivanti da una moneta unica come pure da tutti quelli derivanti, in questo contesto, da un obsoleto sistema ad economie separate.
È una situazione che, a ben guardare, è alla base anche del gap che si osserva negli stessi USA dove gli Stati ricchi restano tali e quelli poveri si impoveriscono sempre più: anche qui per un primato delle logiche di mercato su quelle della politica. Negli States, detto per inciso, la degenerazione si è evidenziata più lentamente che da noi solo per una sorta di pseudo politica interna, sia pure ispirata da un male interpretato liberismo, e per il peso geopolitico degli USA: alla fine, però, il risultato è stato drammaticamente lo stesso ed è sotto gli occhi di tutti.
Da questo punto di vista il problema di cui stiamo parlando evidenzia aspetti di gran lunga più drammatici di quanto l’ottimo pezzo di Torlizzi faccia apparire: il mondo attuale non consente neppure a livello teorico virtuose oscillazioni in controfase delle economie essendo caratterizzato da un drammatico andamento in fase che alla fine porterà al tracollo: da qui il tentativo tutto USA di de-globalizzare il sistema.
Un ulteriore elementi negativo è dato dal fatto che, stando così le cose, le istituzioni finanziarie globalizzate hanno creato, per realizzare i propri profitti, una parallela economia virtuale fittizia caratterizzata da prodotti finanziari ad alto rischio, i derivati, che ha inquinato non poco l’economia reale rendendo la teoria Keynesiana a maggior ragione inapplicabile. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: BCE e FED alzano i tassi per combattere l’inflazione ma questo ha per contraltare una penalizzazione globalizzata di qualsivoglia politica di crescita che, se anche si fosse cercato -o si cercasse- di favorire con un abbattimento dei tassi di riferimento, non avrebbe sortito e non sortirà effetto alcuno se non quello di un più rapido impoverimento generalizzato.
In altri termini, procedendo per questa via, la questione non riguarda il “se” ma solo il “quando” si arriverà al tracollo e la speranza cullata da ‘qualcuno’ di risolvere questa crisi sistemica con una guerra, al pari di quanto avvenne ai tempi del II Conflitto Mondiale per porre termine agli effetti della Crisi del ‘29, appare una cura peggiore della malattia.
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