Geopolitica
Cosa Metternich può insegnare a Trump
Recensione de La grande strategia degli Asburgo, di Aaron Wess Mitchell, LEG – Libreria Editrice Goriziana, 2020, 476 pp., 24 euro
Uno studioso americano analizza in modo ‘non disinteressato’ il modo in cui un impero circondato su quattro lati ha resistito nei secoli affidandosi alla diplomazia e alla strategia piuttosto che alla sola forza delle armi.
Aaron Wess Mitchell, autore di questo volume pubblicato dalla LEG e uscito sfortunatamente proprio nei primo giorni del lockdown, è uno studioso di politica internazionale di orientamento conservatore che per poco più di un anno – dalla fine del 2017 all’inizio del 2019 – ha prestato servizio come sottosegretario di Stato per gli affari europei ed euroasiatici nell’amministrazione Trump. Il 22 gennaio del 2019 ha inviato una lettera all’allora titolare della politica estera americana Mike Pompeo, in cui annunciava la decisione di dimettersi dall’incarico per motivi personali, dichiarando di aver esaurito il compito per cui era stato chiamato al Dipartimento di Stato e di voler dedicare più tempo ai propri figli. Ma appare non del tutto casuale che tale decisione si arrivata proprio nei mesi in cui da una parte la Casa Bianca preparava il ritiro delle truppe americane dall’Iraq e dall’Afghanistan e dall’altra Trump ostentava il suo crescente scetticismo nei confronti dell’Alleanza Atlantica. Negli USA il volume esce nel 2018, proprio quando l’autore è nel bel mezzo del suo mandato e contribuisce a ispirare la grande strategia di Washington sulle orme di quanto aveva teorizzato nel suo precedente volume, The Unquiet Frontier: Rising Rivals, Vulnerable Allies, and the Crisis of the American Power (La frontiera inquieta: rivali in ascesa, alleati vulnerabili e la crisi della potenza americana). Nel saggio del 2017 Wess Mitchell aveva sostenuto che per gli USA ‘Russia e Cina sono pericolosi avversari che stanno accumulando i mezzi materiali e ideologici per mettere in discussione la supremazia e la leadership degli USA nel XXI secolo. Perciò resta tra i prioritari interessi degli USA nel campo della sicurezza nazionale impedire il dominio del continente eurasiatico da parte di potenze ostili’.
Questa lunga premessa era a nostro avviso necessaria perché La grande strategia dell’impero asburgico è allo stesso tempo un’esauriente ricostruzione del modo in cui la casa d’Austria utilizzò tutti i mezzi a sua disposizione, militari e non, per difendere il proprio dominio sul continente europeo, ma anche una più generale disamina della grande strategia di cui una ‘potenza interstiziale’ può avvalersi per conservare la propria supremazia. Per Wess Mitchell una potenza interstiziale è un’entità statuale esposta all’aggressione dei rivali ai propri confini da tutti e quattro i punti cardinali e che, quindi, è soggetta ad alcune limitazioni, prima tra tutte quelle condensate nella massima che ‘non si può essere forti ovunque’.
Ma che c’entrano gli Stati Uniti, separati dal continente eurasiatico a est dall’Atlantico e a ovest dal Pacifico, con a nord l’Artide e il Messico a sud, con l’impero asburgico? L’obiezione, sensata dal punto di vista europeo, dal punto di vista americano invece non regge, perché è chiaro che da quando Washington decise, non senza interni travagli, di diventare protagonista della politica mondiale intervenendo nella seconda guerra mondiale, e dopo la vittoria sulla Germania e sul Giappone, la sensazione degli strateghi USA è che i propri confini non coincidano col limite delle proprie acque territoriali, ma si estendano ben oltre e siano situati sulle sponde opposte dei due oceani. Il concetto che informa The Unquiet Frontier è proprio che Cina e Russia per gli USA costituiscono un pericolo perché minacciano la ’periferia’ della potenza americana.
Nel volume edito dalla LEG l’autore descrive con efficacia e vivacità le insidie che gli Asburgo dovettero affrontare nel corso della secolare storia del loro dominio, i metodi a cui gli artefici della loro politica estera ricorsero per evitare, appunto, di dover essere forti ovunque e come in questo modo l’impero asburgico sia stato per alcuni secoli un fattore di relativa stabilità per l’intero continente europeo, stabilità durata fino a che l’illusione di potersi garantire un futuro soltanto attraverso le armi non affossò il futuro di Vienna, precipitando l’Europa nel baratro di un XX secolo segnato da tre guerre mondiali, due combattute e una fredda, che, osserva l’autore, furono tutte innescate da conflitti localizzati sulla linea di faglia che gli Asburgo avevano contribuito per secoli a raffreddare.
Il volume procede per induzione, dal particolare al generale, dal concreto all’astratto: l’autore ricapitola la grande strategia messa in campo dai membri della dinastia – da Giuseppe I all’arciduca Carlo, da Maria Teresa a Francesco Giuseppe – e dai loro principali consiglieri – spiccano le figure di Kaunitz e Metternich – e nell’epilogo del saggio, ‘Lezioni degli Asburgo’, ne enuncia in sequenza i principi quali regole più generali dell’arte di governo. Oltre all’idea che non si può essere forti ovunque a dominare la strategia dell’impero fu l’attenzione spasmodica a guadagnare tempo per evitare di ritrovarsi impelagati in più conflitti contemporaneamente. Da qui discendono tutti gli altri elementi della geopolitica degli Asburgo analizzati nel saggio: la guerra, se possibile, va evitata come il peggiore dei mali, ma se proprio bisogna combattere è meglio farlo sul territorio nemico o comunque fuori dai propri confini; per questo è opportuno dotarsi di una cintura di Stati-cuscinetto o Stati-Cliente più piccoli collocati tra sé e il nemico, che svolgano il ruolo di avamposto difensivo e che in qualche modo vanno remunerati (di qui l’idea che ‘il confine più pericoloso è quello finanziario’); per questo inoltre è utile sfruttare le barriere naturali e reti di fortificazioni che permettano di ritardare l’arrivo delle truppe nemiche fino a che i difensori non abbiano concentrato le proprie forze nel punto di attrito prescelto. Infine rientra nella medesima visione l’idea che alleanze a geometria variabile e politiche di appeasement consentano di evitare fatali convergenze tra i rivali e conservare l’agio di affrontare un nemico o un gruppo di nemici per volta e nel momento più favorevole.
Per un verso la chiave di lettura che il volume stesso suggerisce è basata sull’identificazione degli USA con l’ìmpero asburgico, che appaiono uniti dalla comune natura interstiziale – reale o percepita che sia – delle due potenze e sulla preoccupazione che Washington percorra la stessa parabola di Vienna, affidandosi a una strategia globale basata sul mero connubio tra forza militare e tecnologia. Scrive l’autore a proposito dello stato d’animo americano al termine della Guerra Fredda che ‘Gli Stati Uniti erano così fiduciosi nel potere della tecnologia offensiva di conquistare lo spazio da immaginare di sconfiggere avversari di stazza continentale in Europa e in Asia e al contempo di poter gestire anche una crisi di portata minore senza mobilitare interamente la propria capacità di combattimento’. Un’osservazione, implicitamente critica, come quella formulata alla fine degli anni ‘90 da due ufficiali dell’aviazione cinese e che l’autore, vista la sua specializzazione, certo non ignora, contenute in un altro volume della LEG (Liang Qiao-Xiangsui Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione, 2001).
Per un altro verso, tuttavia, il saggio evidenzia alcune vulnerabilità dell’impero asburgico che in qualche misura si ripropongono ai giorni nostri in un’Europa impantanata nelle sabbie mobili degli interessi nazionali proprio mentre cerca di realizzare un polo geopolitico in grado di competere con gli imperialismi americano e cinese da una parte e le potenze russa e indiana dall’altra. ‘Attenzione ai nemici che usano le tue divisioni interne contro di te’ è una delle massime che Wess Mitchell desume dalla condotta degli Asburgo e questo ci ricorda che il loro impero fu un grande impero multietnico e che su questo aspetto gli avversari cercarono a più riprese di far leva per accelerarne la decomposizione: si pensi, ad esempio, a come la Francia soffiò sul fuoco del nazionalismo e dell’indipendentismo italiano per staccare da Vienna il dominio lombardo-veneto e spingere i Savoia contro Vienna.
In una fase di risorgenti nazionalismi l’affiorare di questo aspetto nelle riflessioni di un autorevole esponente repubblicano d’oltreoceano suggerisce che in alcuni ambienti a Washington esso sia oggetto di discussione anche come possibile elemento su cui far leva per indebolire l’Europa. Perché, diciamocelo, che esista un conflitto sotto traccia tra Washington e Berlino, certo non paragonabile a quello con Pechino, è argomento che da tempo è patrimonio comune, almeno tra gli addetti ai lavori, ma sempre più evidente da quando Trump è alla Casa Bianca. Lo scontro sul 5G e Huwaei, di recente tornato sulle prime pagine, è solo la punta dell’iceberg di una tensione all’interno della NATO che ovviamente si concentra in particolare sul vero e proprio dominus della politica dell’Unione.
Per concludere, come ho cercato di mostrare, potremmo dire – muovendoci sul filo del paradosso – che a rendere interessante il volume di Wess Mitchell non è soltanto ciò che l’autore vi ha scritto, ma forse ancor più le riflessioni che egli si limita a suggerire nell’introduzione e nell’epilogo. Qui l’autore fa intravvedere un secondo livello di lettura di un libro di storia o se vogliamo di storia delle dottrine strategiche che in realtà è, per molti versi, un piccolo manuale di geopolitica (il cui nocciolo è contenuto appunto nell’ultimo capitolo) da applicarsi profittevolmente anche all’attuale momento storico. Il sottotesto, infine, fa emergere un dibattito in atto nelle élite americane troppo spesso ignorato da un sistema mediatico e politico che preferisce concentrarsi sul variopinto involucro del trumpismo, più adatto a confezionare titoli di richiamo, ma certo meno utile a comprendere il nostro tempo.
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