Geopolitica

La fine dell’Islam

17 Luglio 2016

La maledizione di al-Sisi che nel celebre discorso tenuto alla università al-Azhar affermava esplicitamente che l’Islam doveva trovare un limite alle proprie violenze nei confronti degli altri si sta avverando in primo luogo all’interno dell’Islam stesso. E ci sono elementi precisi che ci dicono in quale profonda crisi sia esso caduto se inteso come religione o anche come dottrina a legittimazione delle élite locali.

La prossima guerra sarà in Yemen, a settembre appena si abbassa la temperatura, tra tribù e al loro interno divise tra tribù sciite e tribù sunnite. Aleppo è la Stalingrado del Medio Oriente, ad ore alterne bombardata da una decina di diversi partecipanti al conflitto, ormai isolata e sotto assedio. Sciiti, Hezbollah e iraniani combattono contro tribù druse e tribù sunnite di volta in volta affiliate (protette) da Al Nusra o dal Califfato.

Qatarini e sauditi rivaleggiano per la egemonia civile e finanziaria (e militare), essendo quella religiosa per ora affidata ai Saud che hanno aumentato il livello di repressione interno letteralmente assoldando nuovi boia con spade più affilate e sono ovviamente combattuti dagli iraniani pressoché ovunque.

I curdi, divisi in tre aree che apparterrebbero a quattro paesi, dei quali almeno uno dissolto e un altro sulla via della dissoluzione, hanno alleati occidentali che sono contemporaneamente avversari del terzo paese e solo forse ancora amici del quarto che però li bombarda quotidianamente. Non metto i nomi così ognuno si esercita a suo piacimento.

Turchia e in Egitto, cioè i due paesi che hanno l’uno da un millennio e l’altro da secoli una tradizione statuale, burocratica e qualche volta democratica, sono in preda alle peggiori convulsioni che dimostrano una cosa molto precisa: che la democrazia sarà anche un metodo accettabile per l’Islam “più avanzato” ma non lo può essere il principio, il valore che rende la democrazia qualcosa di più di un metodo, e cioè la Libertà Individuale.

Questo è stato l’errore di Obama e l’abbaglio occidentale, e cioè l’immaginare che possa esistere un “Islam moderato” dove la moderazione non riguarda la tolleranza, perché questa nel passato è stata una caratteristica forse più del Sultano che nostra e oggi forse residua in Oman, ma un livello accettabile di libertà e rispetto dell’habeas corpus. Questa roba qui è un prodotto Occidentale che nella sua stessa esistenza mina sia il credo religioso islamico che l’uso della religione a giustificazione del potere delle élite,, siano esse rappresentate da capi tribù, re proprietari di un paese come i Saud o i democraticamente eletti Erdogan e al-Sisi.

Questa è la fine dell’Islam: riesce ad essere una guerra civile, una guerra religiosa, una guerra contro il nemico infedele o contro l’eresia, forse anche un elemento identitario ma dilaniato al suo interno e non riesce ad essere da Kabul a Istanbul, da Teheran a Mogadiscio, a Abuja, a Bamako, a Tunisi un sistema statuale o una religione che garantisca libertà, pace, sicurezza, produzione scientifica e convivenza kantiana. Può essere una dittatura, una democrazia moderata mediata da polizia o esercito ma non una democrazia liberale perché non è la Libertà, la sua salvaguardia e la sua difesa, l’elemento che legittima il potere. Si badi, per storie diverse e tortuose è stato così anche per una parte dell’Occidente per secoli e ancora nel Ventesimo ma pare che noi la lezione la si sia assimilata.

Può l’Islam sopravvivere alla pressione della modernità senza riuscire a coniugare la Libertà? È impossibile per la sua stessa esistenza contraddittoria così plasticamente rappresentata dall’Erdogan nemico dei social media costretto a salvarsi tramite Facetime.

Sono convinto che le convulsioni di oggi, disordinate e prive di progetti alternativi (chi c’era dietro il golpe mancato in Turchia?) si prolungheranno nel tempo logorando profondamente la stessa identità religiosa. E l’esito è scontato, l’Islam non ha un futuro: è già oggi finito ma ancora non lo sa o, meglio ancora, è prigioniero di se stesso al punto di non poter trovare una mediazione con la velocità dell’esistenza condannandosi ad una guerra contro se stesso: non c’è un solo ambito dove riesca ad essere egemone rispetto al resto del mondo.

La postilla per noi occidentali è differente: l’Europa è travolta dalla crisi economica e dalla paura sul suo incerto futuro che si sposta dalla rabbia contro le nostre élite all’odio verso il diverso, perfettamente rappresentato dall’immigrato. I problemi veri che però dovremmo affrontare sono due. Primo, una riscoperta del concetto e dei contenuti della cittadinanza nel senso creato dalla Rivoluzione Francese, in primo luogo le pari opportunità per cittadini anche di estrazione diversa (in Francia lo hanno capito, non sanno come fare ma sanno e hanno dichiarato che ci vorranno almeno vent’anni). Secondo, nel difendere la sicurezza di ognuno di noi, il praticare e il comunicare l’idea che non abbiamo nessuna intenzione di tollerare un attacco ai nostri faticosamente conquistati principi di libertà: ciò comporta inevitabilmente un irrigidimento sui valori laici della società occidentale, velo o non velo.

Significa anche che alle frontiere d’Europa, che proprio mentre leggiamo arretrano dall’Anatolia alla Grecia e nel Mediterraneo all’Italia, servono gendarmi europei e non italiani e greci perché quei valori europei e non i confini nazionali stiamo difendendo e il messaggio deve essere chiaro per tutti gli europei.

Con uguale immediatezza serve un “dividendo della pace” come ci fu dopo il ’45, la capacità cioè dei governi europei di comprendere che la contestazione di cui sono bersaglio dipende non dall’invasione islamica o peggio dal populismo, che ne è invece un frutto, ma dalla loro incapacità dopo otto anni di portarci fuori dalla più nera crisi economica della nostra storia dai tempi delle carestie e pestilenze settecentesche.

Una sfida ardua per élite che hanno prodotto cose come Boris Johnson o François Hollande, ma sfida non più eludibile, almeno se si vuole la pace.

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