Geopolitica

La crisi del Mar Rosso. USA ed Europa di fronte alla minaccia degli Houthi

27 Gennaio 2024

Nel complicato mondo del 2024, non era difficile prevedere che la guerra, perdurante a Gaza da quasi quattro mesi, generasse ulteriori scontri armati e molteplici fonti di rischio per possibili escalation militari di dimensione regionale, tra il Golfo Persico e il Mediterraneo. L’accensione di un nuovo focolaio di tensione e violenza è proprio quel che si è verificato nell’area dove si mescolano Mar Rosso e Oceano Indiano, tra la Penisola Arabica e il Corno d’Africa. Lo stretto di Bab el-Mandeb è quindi diventato uno dei principali scenari decentrati del più ampio conflitto in corso tra Israele, sostenuto dall’Occidente, e Asse della Resistenza a guida iraniana, di cui Hamas è parte, con le milizie del gruppo Ansar Allah, meglio conosciute come Houthi, impegnate a colpire, dalle coste dello Yemen, il traffico navale commerciale diretto verso Suez che abbia una qualche connessione con lo stato ebraico. Gli attacchi, effettuati con missili e sciami di droni, sono iniziati già nel mese di novembre, per poi mostrare un notevole incremento a partire dalla seconda metà di dicembre, che ha causato, in diversi casi, l’abbandono della rotta del Mar Rosso da parte delle compagnie di navigazione. I guerriglieri Houthi sono emanazione di un clan familiare di confessione sciita – zaydita, originario della regione di Sa’da, nell’estremo nord-ovest dello Yemen, che hanno condotto per anni, a più riprese, attività di guerra insurrezionale contro il governo centrale di Sana’a, fin dai primi anni di questo secolo, per poi giungere a prendere il controllo di tutta la parte occidentale del paese e della capitale stessa nel 2015, e infine riuscire a resistere all’offensiva della coalizione internazionale a guida saudita, che mirava a restituirne il territorio al presidente Hadi, precedentemente defenestrato. Una milizia locale è quindi diventata attore in un più ampio gioco regionale e finanche globale, capace di recare gravi danni al commercio internazionale e, conseguentemente, alle economie industrializzate che da esso dipendono.

 

Gli attacchi, portati a segno dagli Houthi a partire dal 19 novembre con il dirottamento della MV Galaxy Leader e arrivati al numero di ventisette alla fine della prima decade di gennaio, dopo la metà di dicembre hanno raggiunto una frequenza tale da far risultare la rotta del Mar Rosso insostenibile per diversi player del trasporto su nave. Diverse tra le principali compagnie di navigazione del mondo, Maersk, CMA-CGM e MSC in testa, hanno così deciso, una dopo l’altra, di ordinare alle proprie unità di percorrere il periplo dell’Africa, per raggiungere l’Europa o per proseguire verso le Americhe, provocando il conseguente enorme aumento dei costi di trasporto. A causa della maggior durata del viaggio o, in alternativa, dell’incremento dei costi di assicurazione dovuto al pericolo di diventare bersaglio della milizia yemenita, tra la fine di novembre e il 18 gennaio il costo di trasporto di un container standard da Shanghai a Genova è cresciuto da 1.400 a 6.300 dollari (+350%), come riportato da Matteo Villa e Filippo Fasulo dell’ISPI. Il traffico di navi portacontainer e petroliere-metaniere da Bab el-Mandeb, sempre secondo i dati elaborati dall’istituto italiano, è significativamente calato a gennaio di quasi il 50% rispetto a novembre, e i porti italiani sono tra i più penalizzati dal tracciamento delle nuove rotte, anche in virtù del rischio che molti mercantili, una volta circumnavigata l’Africa, non oltrepassino Gibilterra per dirigersi verso la nostra penisola ma, piuttosto, proseguano per i porti dell’Europa Occidentale su Oceano Atlantico e Mare del Nord. I traffici attraverso Suez e il Mar Rosso costituiscono il 40% dell’import-export marittimo italiano, secondo dati di SRM, centro studi di Intesa San Paolo, e gli interscambi dei primi sei porti italiani (Genova, Venezia, Trieste, Gioia Tauro, Augusta e Livorno) sono diminuiti a inizio gennaio di oltre il 20% rispetto ai valori dei primi giorni di novembre. Naturalmente la preoccupazione degli operatori e delle istituzioni, oltre che sul calo degli scambi commerciali, non può che andare sull’andamento dell’inflazione, sebbene fino ad ora gli effetti sono stati contenuti, prezzo del petrolio incluso. Tuttavia sono sempre gli analisti dell’ISPI a segnalare che, qualora la crisi continuasse per un periodo di dodici mesi le conseguenze sui prezzi non si farebbero attendere, e, in base a modelli del FMI, potrebbero portare ad un aumento del tasso di inflazione del 1,8% per l’Europa, mentre per il mercato USA gli aumenti si limiterebbero allo 0,6%. Dati non catastrofici, limitati anche dall’alto livello di stoccaggi e dalla buona capacità di sostituzione di fonti energetiche acquisita ormai dall’Europa, come evidenziato dalla Commissaria all’energia Kadri Simson, che però creerebbero molto probabilmente intoppi e rallentamenti alle manovre di riduzione dei tassi d’interesse attese da parte della BCE e di altre banche centrali nel corso di quest’anno.

 

La minaccia degli Houthi alla sicurezza di Bad el-Mandeb ha, come era prevedibile, allarmato i governi dei paesi interessati alla tranquillità del traffico commerciale in tali acque, e gli USA sono stati fin da subito i naturali depositari delle speranze di veder risolto il problema. Le pressioni per un intervento di Washington non si sono fatte attendere, soprattutto da parte di Israele, il cui porto di Eilat sul Mar Rosso è stato particolarmente penalizzato dalla forte riduzione del traffico, oltre ad essere stato esso stesso oggetto di alcuni lanci di missili dallo Yemen. Stretta tra la necessità di sventare la minaccia e l’imperativo di evitare un pericoloso coinvolgimento militare in un nuovo conflitto in Medio Oriente, l’amministrazione Biden ha lanciato il 18 dicembre l’operazione Prosperity Guardian, inizialmente con la collaborazione di altri 19 paesi. L’iniziativa, finalizzata alla scorta e alla difesa delle navi mercantili in viaggio nell’area minacciata dagli Houthi, ha rassicurato per alcuni giorni le compagnie di navigazione, riuscendo a distruggere buona parte dei vettori nemici diretti contro i mercantili, ma non è stata sufficiente a scoraggiare gli attacchi della milizia yemenita, che sono continuati senza sosta. Non sono bastati a portare Ansar Allah a più miti consigli neanche il solenne avvertimento a cessare le aggressioni emesso da Washington e alleati il 3 gennaio e la risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 10, mentre la coalizione manifestava i primi segni di sfilacciamento con la rinuncia a partecipare alla missione delle marine di Italia, Spagna e Francia, quest’ultima pur presente in loco con una fregata FREMM, al di fuori del comando americano. Di fronte al perdurare degli attacchi e al sempre più diffuso abbandono della rotta del Mar Rosso da parte di molte società di shipping, USA e Regno Unito, con il supporto di Canada, Australia, Paesi Bassi e Bahrein, hanno deciso un imponente bombardamento sulle postazioni Houthi all’interno dello Yemen, attuato nella notte tra l’11 e il 12 gennaio, attraverso l’impiego di aerei e missili provenienti da unità navali di superficie e sottomarine, seguito da ulteriori raid nei giorni successivi. Scopo degli strike è stato quello di distruggere siti militari della milizia yemenita, in particolare le postazioni di lancio dei missili, e non bersagliare e uccidere miliziani o i loro leader, come dichiarato esplicitamente dai vertici dell’amministrazione USA. Tale tipologia di intervento testimonia la cautela con la quale si sta muovendo Washington, intenzionata ad evitare un’escalation regionale, temuta ancor più dall’Arabia Saudita, desiderosa di mantenere in vita la fragile tregua con gli Houthi, inaugurata nello Yemen ad aprile 2022. Ancor maggior cautela stanno invece dimostrando i paesi europei, i quali, pur essendo i più colpiti dalla riduzione del traffico a Suez, hanno finora agito con lentezza, apprestandosi ad avviare una propria missione di scorta ai mercantili, tuttora non definita e pronta a livello operativo non prima di marzo. A fronte di iniziative di matrice occidentale mirate e limitate, dallo Yemen i guerriglieri sciiti hanno peraltro risposto con grande sfoggio di retorica, minacciando di estendere gli assalti anche alle navi dei paesi coinvolti nei bombardamenti, e hanno ribadito il carattere di legittima difesa, a loro dire, delle azioni da essi intraprese, in risposta all’offensiva israeliana a Gaza.

 

 

Lungi dal riuscire a far cessare i lanci di missili e droni contro il naviglio mercantile, la linea degli USA nella crisi del Mar Rosso evidenzia le notevoli difficoltà che la superpotenza americana incontra in politica estera in questo particolare momento storico, caratterizzato dalla non facile gestione del conflitto in Ucraina, dalla crescente sfida cinese e, infine, dalla recente esplosione di violenza in Palestina, con i suoi riflessi sull’intero Medio Oriente. Washington, in quanto potenza egemone del sistema internazionale, non può permettersi di rimanere inerte di fronte alla minaccia di interdizione di uno dei pilastri di tale sistema, il libero commercio tramite la libera navigazione sui mari, di cui essa è garante fin dal 1945. Tuttavia gli USA non possono neanche farsi coinvolgere in un nuovo conflitto, alla luce delle tante aree di crisi esistenti nel mondo e del sentiment presente tra i propri cittadini, afflitti da stanchezza imperiale e non particolarmente disponibili a fornire risorse e uomini per difficili campagne militari oltre oceano. L’attuale situazione in Medio Oriente, inoltre, con fiammate di violenza presenti un po’ dappertutto nella regione, raccomanda prudenza, essendo ben presente il rischio di escalation, come la consapevolezza della difficoltà di controllarla, qualora si verificasse. Gli Houthi sono un gruppo armato estremamente abituato a subire bombardamenti aerei, fin dal 2015, quando iniziò l’intervento militare della coalizione a guida saudita nella guerra civile yemenita, capace di nascondere le proprie basi tra le montagne e caratterizzato da una forte volontà di combattere. La disponibilità a sostenere conflitti armati si sta rivelando tanto più forte quanto più emerge il loro ruolo nel cosiddetto Asse della Resistenza a guida iraniana. La milizia al potere a Sana’a si sta dimostrando come il gruppo più attivo e audace tra quelli della galassia di organizzazioni orbitante attorno a Teheran e, grazie alle sue azioni, sta innalzando il suo status internazionale. La retorica e le iniziative anti-americane e anti-israeliane si inseriscono peraltro perfettamente sia nella base ideologica del loro movimento Ansar Allah, che nelle posizioni delle opinioni pubbliche arabe, apertamente solidali con i Palestinesi. Gli stessi paesi arabi moderati che, come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, sono stati protagonisti della guerra contro la milizia yemenita nel decennio appena trascorso, si guardano bene dal partecipare in qualsiasi modo ai raid americani e, anzi, Riyad non ha esitato a dissentire in merito all’uso della forza da parte di Washington. Tale ritrosia è spiegabile sia per la considerazione delle pericolose conseguenze, già sperimentate con gli attacchi di qualche anno fa alle infrastrutture petrolifere, di un duro confronto militare con gli Houthi, sia per il timore di scatenare poco gradevoli reazioni da parte della propria opinione pubblica, intraprendendo iniziative contro chi sta difendendo la causa palestinese. Anche i messaggi, sia pubblici che privati e pure per interposta Cina, inviati da Washington a Teheran per moderare i suoi proxy più intraprendenti, non hanno sortito finora gli effetti sperati, mentre l’Iran continua a fornire ai suoi protetti armi, know-how e informazioni di intelligence sul traffico navale, attraverso proprie navi-spia camuffate da mercantili. E, in fondo, come scrive Jamie Dettmer su Politico, perché l’Iran dovrebbe farlo? Gli Ayatollah possono tranquillamente declinare le proprie responsabilità di fronte ad atti compiuti da altri soggetti, dei quali comunque non si ha il pieno controllo, limitandosi a incolpare di tutto i soliti Israeliani autori dell’invasione a Gaza.

E’ naturalmente la Striscia di Gaza il fulcro determinante di tutte le tensioni che avvampano in Medio Oriente. Un’eventuale cessazione delle ostilità in tale area farebbe verosimilmente cessare anche le azioni offensive degli Houthi, e, secondo alcuni analisti, come Alexandra Stark su Foreign Affairs, a questo obiettivo dovrebbe mirare l’amministrazione Biden, mettendo in atto le necessarie pressioni sul governo israeliano, piuttosto che bombardare lo Yemen. Anche questo si è tuttavia rivelato fino ad ora un compito arduo, nonostante la vitale importanza del supporto americano a Gerusalemme, incluso l’aspetto dei rifornimenti di materiale bellico. Netanyahu, come da tradizione, persegue la sua linea senza troppo curarsi delle richieste di Biden, replicando talvolta in modo sprezzante ai richiami provenienti dall’estero per un’interruzione dei bombardamenti e per l’apertura di un processo di pace con i Palestinesi. Attendendo l’esito delle nuove trattative che in queste ore si stanno sviluppando sotto la regia del capo della CIA William Burns intorno ad un ipotetico definitivo scambio di prigionieri e ad un cessate il fuoco, non si può fare a meno di notare l’enorme fatica da parte americana ad esercitare la necessaria influenza su una media potenza regionale come Israele, tale da indurla ad intraprendere le azioni desiderate. Un simile deficit di leadership si aggiunge peraltro alle già citate difficoltà ad attuare un appropriato grado di dissuasione verso attori locali come le milizie Houthi. Sarebbe ingeneroso incolpare di questa carenza il Presidente Joe Biden e la sua amministrazione, essendo essa il risultato di un processo di medio-lungo periodo, iniziato almeno con la presidenza di George W. Bush, che ha significato l’indebolimento dell’egemonia americana nel mondo, maturato per ragioni che esulano dalle responsabilità di un singolo presidente, che pure naturalmente non sono mancate negli ultimi vent’anni. Tali difficoltà confermano gli evidenti limiti che hanno anche le superpotenze, quali sono gli USA, nell’affermare la propria volontà a migliaia di chilometri di distanza dal proprio territorio e piegare gli altri soggetti alla propria linea politica. Troppe volte si considera questo o quello stato, o altro attore locale, come un soggetto controllato da una grande potenza. Non è questa la realtà delle relazioni internazionali, che, come scriveva Kenneth Waltz in Teoria della politica internazionale, sono da valutare in termini di influenza, peraltro spesso biunivoca, e non di controllo. Una tale dinamica risulta chiaramente riscontrabile nel rapporto tra USA e Israele, con quest’ultimo capace a sua volta di influire sulla politica di Washington, tramite i forti legami culturali e finanziari detenuti con la società americana, ma si può notare anche nella relazione esistente tra l’Iran e i suoi proxy, come sono gli Houthi e Hizbullah. La fatica dell’egemone diventa ancor più evidente quando si ha a che fare con gruppi armati che minacciano punti nevralgici come gli stretti, colli di bottiglia delle comunicazioni globali, e in virtù della cosiddetta “democratizzazione della distruzione”, che permette anche a soggetti relativamente poco potenti di detenere e usare armi efficaci e distruttive ai fini delle strategie anti-access/area denial (A2/AD), vero incubo per i think tank affacciati sul Potomac. Come scrive David Ignatius sul Washington Post, proprio l’enorme potere americano, dipendente in gran parte dai commerci globali, risulta particolarmente vulnerabile ad attacchi di soggetti come gli Houthi.

La scelta delle possibili reazioni alla situazione di crisi a Bab el-Mandeb da parte degli USA e dei suoi alleati non è quindi facile da attuare, essendo presenti rischi e problematiche in tutte le opzioni a disposizione. Fermo restando la prosecuzione dell’attività diplomatica tesa a raggiungere un cessate il fuoco a Gaza, che risolverebbe in gran parte il problema, i governi occidentali non possono permettere l’interruzione dei traffici marittimi nell’area, la quale verrebbe interpretata come una palese dimostrazione di debolezza, oltre a rappresentare, come già detto, un grave danno economico. La soluzione più appropriata alla crisi, secondo molti analisti, sarebbe la messa in atto di un’efficace missione di scorta e difesa dei mercantili, affidata alla U.S. Navy e alle flotte di altri paesi occidentali. Missione già in essere, del resto, che andrebbe indubbiamente potenziata, ma che è in grado di intervenire e sventare la quasi totalità delle minacce, con sistemi d’arma di artiglieria navale a tiro ultrarapido, come il Vulcan Phalanx, o con l’utilizzo di missili anti-missile, se pur più costosi e non posseduti in gran numero da alcune marine, come la nostra, ad esempio. Ad ogni modo, gli attacchi, avvengono spesso tramite droni, facili da abbattere, e causano principalmente danni non gravi, sebbene l’utilizzo di missili, sia balistici che di crociera, da parte dei guerriglieri, costituisca certamente un pericolo più serio, pur non incontrastabile. Non andrebbe sottovalutata neanche un’adeguata opera di rassicurazione dell’opinione pubblica e delle compagnie di navigazione attraverso un’intelligente campagna di comunicazione, finalizzata a tranquillizzare i destinatari riguardo il grado non eccessivo di pericolosità degli attacchi, e la capacità di difesa che possono garantire le navi militari di Prosperity Guardian e di missioni simili, come spiegato recentemente dal Col. Orio Giorgio Stirpe, su Parabellum. Naturalmente anche le campagne di bombardamenti aerei sulle postazioni militari nello Yemen possono essere utili, specialmente nell’imminenza di lanci di missili, ma, come ammesso anche dalle stesse fonti militari americane, difficilmente riusciranno a rendere inoffensiva la milizia sciita. Appare invece fuori questione l’ipotesi di un intervento boots on the ground, sia da parte di Washington, che da eventuali stati del Golfo, come gli Emirati Arabi Uniti, che in questa fase difficilmente si azzarderebbero ad assumere l’onere di un tentativo di occupazione del porto di Al – Hudayda, vitale per gli Houthi. Certamente, ai fini del successo delle missioni di scorta navale, sarebbe necessaria un’adeguata partecipazione dei paesi europei, che dispongono delle capacità richieste, sia di mezzi che di know-how, sebbene in alcuni casi debbano migliorare l’aspetto del munizionamento. Invece nelle stanze di Bruxelles le decisioni, come al solito, faticano ad essere prese e l’iter di autorizzazione della missione UE viaggia lentamente, tra procedure barocche e tatticismo di alcuni governi, Madrid in testa. Eppure questo sarebbe un test importante (l’ennesimo, verrebbe da dire) per la capacità dell’UE di mostrarsi unita, reattiva e adeguata ai difficili tempi che corrono, essendo in questione la libera circolazione di merci necessarie alle nostre economie. Non si può che augurarsi sia affrontato da tutti gli attori nazionali e comunitari con la necessaria consapevolezza, e non venga fallito.

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