Geopolitica

L’autonomia differenziata, la sicurezza nazionale e il Mediterraneo in tempesta

23 Gennaio 2024

In Parlamento si sta giocando con il fuoco. Un partito in particolare, nel suo furor regionalista, è così affezionato alle sue antiche passioni da non rendersi conto che gli anni ‘90 sono ormai lontani. L’Europa e il mondo di oggi non sono più quelli in cui si muoveva Bossi, con le sue battaglie (secessioniste prima, ultra-federaliste poi), o certi soloni progressisti che sognavano di sciogliere l’Italia in una grande (e oggi ancora lontana) federazione europea.

Il mondo si sta risvegliando, come ho umilmente ricordato spesso, e a chi ha un briciolo di consapevolezza storica esso ricorda sempre di più il globo policentrico di fine XVII secolo, quando le economie più grandi al mondo erano la Cina dei Qing e l’India dei Moghul.

L’Europa è un continente assediato dalla violenza, e dalla minaccia della violenza. In Ucraina il regime imperialista russo continua la sua guerra di aggressione. Nei Balcani occidentali il governo serbo è sempre più autoritario e alimenta le tensioni locali. La Bielorussia è uno stato satellite di Mosca. Nei paesi baltici e nordici si teme un attacco russo nel giro di pochi anni, e la Polonia è spinta a un riarmo senza precedenti.

La Palestina continua a bruciare, gli innocenti civili palestinesi a morire. La navigazione nel Mar Rossa è rischiosissima, la situazione in Libia è molto fragile, per non parlare di quella nel Sahel, ormai in balia di dittature, milizie e russi. La Siria è ormai la tragica ombra di se stessa. Il Libano, paese dalle potenzialità economiche e sociali straordinarie, sembra essere in preda a una crisi irreversibile. Il regime egiziano è sempre più autoritario. E intanto bambini, donne e uomini da ogni parte dell’Africa e dell’Asia rischiano la vita per arrivare nel nostro continente: più che un giardino lambito dalla giungla, come diceva Josep Borrell, l’Europa è un’oasi di declinante benessere in un deserto di povertà e sopruso (grazie pure a due secoli di colonialismo e neo-colonialismo bianco).

Attenzione però: quel deserto brulica anche di vita, energia, speranza, idee e creatività. È un bene che l’Europa abbia perso la sinistra fascinazione novecentesca per i “popoli giovani”, ma ci tengo a ricordare che i popoli giovani di oggi e di domani non sono italiani, tedeschi e spagnoli, ma etiopi, indiani, afgani, egiziani, somali, nigeriani. Tutti popoli, per la cronaca, che nei due secoli passati hanno conosciuto le asprezze (per usare un eufemismo) del dominio europeo, e che forse un giorno ce ne chiederanno conto (nelle aule dei tribunali internazionali, se ci va bene).

In questo Mediterraneo che sobbolle (anche in senso letterale, a causa del riscaldamento globale), in questo mondo sempre più volatile, si affacciano nuove medie e grandi potenze. La Turchia e l’Egitto, ad esempio, con la loro crescente forza demografica, militare ed economica. E poi l’Arabia Saudita, l’Etiopia, la Nigeria, l’Indonesia, la Corea del Sud, il Brasile. La Repubblica Popolare Cinese e l’India ultra-nazionalista saranno protagoniste decisive del XXI secolo, il Giappone ormai non è più solo una grande potenza regionale ma anche una media potenza globale (e non c’entra solo il soft power), il Pakistan e il Messico (ma anche il Bangladesh, il Kenya, il Canada e le Filippine) avranno maggior peso. L’Iran, prima o poi, si stabilizzerà ed eserciterà un’influenza ancora più vasta di quella odierna.

Ricordo ciò che scrivevo due anni fa sempre su questo giornale. «Nel 1911 l’Italia aveva 34 milioni di abitanti. L’Egitto 11 milioni. Il Messico quasi 14 milioni. La Persia 9 milioni. L’Etiopia 9 milioni. Nel 1911 il nostro paese era uno dei più popolosi del pianeta, la “grande proletaria”, e si poteva lanciare alla conquista della Libia e delle isole del Dodecaneso. […] Oggi l’Italia ha meno di 60 milioni di abitanti. L’Egitto ne ha più di 100. L’Etiopia ha 112 milioni di abitanti. L’Iran (un tempo Persia) ne ha 83 milioni. Il Messico 127 milioni. E nel 2035, secondo autorevoli proiezioni, l’Etiopia ne avrà oltre 160 milioni, il Messico quasi 146, l’Egitto 130, l’Iran 95. Per non parlare di Cina e India: la prima sfiorerà e la seconda invece supererà abbondantemente il miliardo e mezzo di persone».

Nel XXI secolo l’Italia sarà chiamata ad affrontare enormi sfide climatiche, tecnologiche e demografiche, in uno scenario geopoliticamente più avverso, mitigato (se l’Unione Europea non si trasforma realmente in un attore geopolitico) solo dal perdurare, almeno sino al 2060, della probabile primazia degli Stati Uniti.

Ecco: di fronte a un mondo che si risveglia e che bussa alla porta, con un Occidente che non è più il colosso semi-onnipotente che fu nel XIX e nel XX secolo (un Hulk, come ha spiegato di recente il ministro della difesa Crosetto ai suoi colleghi), che cosa fa questa maggioranza, su spinta di un partito sostenuto da meno di un italiano su dieci? Apre la strada a una riforma che rischia di conferire alle regioni competenze in ambiti strategici e palesemente nazionali come la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, il commercio con l’estero e i rapporti internazionali, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione.

Ora, che in qualche regione del nord si sogni le verdi valli della Svizzera o dell’Austria, con i loro ordinamenti federali, è legittimo, ma solo se non si confondono sogni irrealizzabili con la dura realtà contemporanea. Le regioni dell’Italia settentrionale non potranno mai diventare la Carinzia, la Stiria o il Ticino, e chi crede il contrario ha visto troppe volte “Tutti insieme appassionatamente”. L’Austria e la Svizzera non hanno quasi sessanta milioni di abitanti ma meno di dieci a testa. L’Austria e la Svizzera non sono bagnate dal Mediterraneo, non hanno isole a pochi chilometri dalle coste africane, non hanno soldati in missione in Libano o in Africa.

L’Austria e la Svizzera sono paesi civilissimi e magnifici, però anche dei free-rider in materia di sicurezza internazionale; l’Italia, invece, in ragione della sua posizione geografica, dei suoi interessi nazionali e delle alleanze di cui fa parte, contribuisce in modo rilevante alla sicurezza internazionale: dai Balcani all’Iraq, dal Sahel al Baltico. Del resto nella graduatoria dei paesi che contribuiscono a missioni ONU l’Italia è il primo paese europeo, precedendo la Spagna, la Francia e la Germania.

Nessuno può pretendere che un ristoratore di Padova, una tabaccaia di Cantù o un dentista di Bergamo si interroghino su quale potrebbe essere l’impatto dell’autonomia differenziata sulla nostra sicurezza nazionale. Questi concittadini hanno altre competenze, preoccupazioni e priorità, e da anni sono martellati dalla propaganda superficiale di un regionalismo panacea di tutti i mali.

Tuttavia dobbiamo pretendere di più, molto di più, dai nostri parlamentari (anche comaschi, bergamaschi e padovani), anche in termini di realismo (geo)politico e di buon senso. Va bene difendere il proprio campanile, succede ovunque; giusto assegnare alle regioni competenze come la previdenza complementare e integrativa o gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; doveroso ridurre la burocrazia che frena le PMI del nordest. Sbagliato lasciare che politici regionali focalizzati sui loro territori si occupino di commercio estero o distribuzione dell’energia.

Il rischio, peraltro, è quello di dare davvero troppo potere alle regioni (che già oggi, con poche eccezioni, non brillano per efficienza), generando un nuovo “centralismo regionale” a scapito  non solo della crescita ma anche dei comuni, storico pilastro della democrazia italiana, e delle periferie regionali, in primo luogo quelle montane, spesso trascurate o addirittura ingannate dagli amministratori dei capoluoghi.

Serve un grande compromesso patriottico, dopo l’approvazione del ddl Calderoli al Senato. Il PD del Veneto aveva portato avanti, con il senatore Martella, un disegno di legge in grado di coniugare richieste locali e necessità nazionali. Perché la maggioranza non ne ha tenuto conto? E perché continuare a ignorare le preoccupazioni dei comuni, del nord come del sud? E ancora, perché continuare a inseguire fantasie lontane, che erano irrealizzabili già quando Bossi in canottiera tuonava contro il Mezzogiorno?

Mi si dirà che la riforma del titolo V della Costituzione è stata varata dal centrosinistra, oggi sui banchi dell’opposizione. Ma al di là del fatto che Elly Schlein, attuale segretaria del PD, era una ragazzina quando ciò avvenne, nulla costringe l’attuale maggioranza a percorrere la strada (a mio parere molto sbagliata) tracciata da quei progressisti che, alla fine degli anni ’90, avrebbero dovuto leggere meno Giddens e Fukuyama e un po’ di più i rapporti delle Nazioni Unite e i saggi sulla crisi climatica o il revisionismo russo. Gli abbagli del passato non devono accecare i legislatori del 2024.

Non invidio il compito dei deputati di Fratelli d’Italia, partito molto votato al sud che si ritrova a dover mediare con le istanze fuori tempo massimo di un alleato più attento a quanto succede nelle valli padane che alle crisi oltre il Canale di Sicilia o di Otranto. Le clausole di limitazione e supremazia statale caldeggiate da FdI sono un buon inizio, ma quando il testo licenziato al Senato passerà alla Camera dei deputati sarà fondamentale apportare ulteriori migliorie, per impedire che competenze delicatissime per l’Italia come i rapporti internazionali, l’energia, il commercio con l’estero ecc. vengano frammentate, rendendoci vulnerabili e poco credibili a livello internazionale.

Vogliamo ricordare quel presidente di regione (di centrodestra) che, senz’altro in buona fede ma peccando di ingenuità, lasciò che una delegazione regionale visitasse la Crimea occupata dai russi (con annesso sventolamento di vessillo regionale, ça va sans dire)? Se in passato è già accaduto che una regione (governata dal centrosinistra) potesse a lungo tenere in scacco il paese per il suo NO alla realizzazione del punto di approdo di un gasdotto nel suo territorio, cosa potrebbe succedere tra dieci anni?

E siamo consapevoli che gli avversari dell’Europa e dell’Occidente colgono ogni occasione per alimentare e acuire le divisioni politiche e culturali nelle nostre comunità? Vogliamo ricordare che certo secessionismo catalanista è stato oggetto di sostegno da parte di agenti russi? Qualche tempo fa il nuovo ambasciatore statunitense a Roma, Jack Markell, ha lodato l’affidabilità dell’Italia e dell’attuale governo; il suo successore nel 2031 potrà dire la stessa cosa, con (mettiamo) un presidente di regione che firma accordi commerciali con la Cina e un altro che invece ne firma con Taiwan e si spende per rivedere i rapporti tra la UE e Taipei? Ciò che distingue gli statisti dai politici è che i secondi guardano alle prossime elezioni, i primi alle future generazioni. La scelta che hanno di fronte i deputati, a partire da quelli di FdI, è chiara.

 

 

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