Geopolitica
Israele e la guerra di Gaza: perché la soluzione militare non basta
Lucio Caracciolo e Vittorio Emanuele Parsi sono agli antipodi in quanto impostazione teorica nell’analisi delle relazioni internazionali: realista il primo, istituzionalista liberale il secondo. Eppure entrambi, in articoli apparsi sulle colonne di Repubblica e del Foglio, in merito alla guerra di Gaza attualmente in corso giungono a simili conclusioni: Israele si trova a dover scegliere tra due soluzioni, entrambe pericolose e insufficienti a raggiungere l’obiettivo di restaurare una valida deterrenza militare, e, conseguentemente, un’adeguata sicurezza al proprio popolo. Gli attacchi del 7 ottobre da parte di Hamas sono azioni di tale violenza, gravità ed efferatezza da non poter essere lasciati senza idonea risposta, che per essere tale dovrebbe giungere verosimilmente alla completa eradicazione e distruzione della stessa milizia terroristica dalla Striscia di Gaza. Una massiccia offensiva terrestre a Gaza finalizzata ad un tale risultato, tuttavia, oltre a rischiare di tramutarsi in un clamoroso insuccesso, comporterebbe un enorme quantità di vittime civili e potrebbe scatenare l’apertura di ulteriori fronti con altri nemici, e finanche provocare un conflitto regionale. Israele rischia di cadere perciò nella trappola dei terroristi e dei loro sostenitori, su tutti l’Iran. Disegnare un sentiero stretto tra queste esigenze non sarà facile, e sarà responsabile dei massimi decisori israeliani, la cui credibilità è stata compromessa dall’incapacità di prevedere e contrastare quanto accaduto dieci giorni fa, ma il cui sostegno alla necessaria risposta proviene da tutta l’opinione pubblica israeliana, concretizzatosi nell’apertura di un governo di unità nazionale all’opposizione.
Come scrive Parsi, “Israele ha pessime carte”, dovute principalmente alla strategia attuata negli ultimi 10-15 anni, ovvero all’aver pensato di rimuovere il problema dei rapporti con i Palestinesi e, con esso, qualsiasi prospettiva di processo di pace con riconoscimento di uno stato palestinese indipendente caratterizzato da contiguità territoriale. Erano sembrati sufficienti i cosiddetti accordi di Abramo, che stavano allargando il numero dei paesi della regione con cui detenere rapporti diplomatici, finanche al più importante, l’Arabia Saudita, in chiave anti-iraniana, ritenendo che i Palestinesi avrebbero ormai accettato la situazione di fatto e, in caso contrario, non fossero in grado di nuocere. Tale strategia oggi è caduta, e il congelamento delle trattative con Riad, primo importante risultato diplomatico conseguito da Hamas, ne è un’ulteriore dimostrazione. Il responsabile primo di questo fallimento è chiaramente uno: Benjamin Netanyahu, ben supportato e incoraggiato dagli Usa negli anni della presidenza Trump, e lasciato fare anche da un Biden impegnato su altri delicati fronti. Le fortissime tensioni provocate dal premier e dai suoi alleati di governo in questo 2023, poi, tra una contestatissima riforma della giustizia e una drammatica escalation di violenze in Cisgiordania da questi spesso giustificate o esaltate, hanno ulteriormente lacerato un fronte interno già profondamente diviso, abbassato la guardia verso Gaza e Hamas, e accresciuto la rabbia e la frustrazione già presenti tra i Palestinesi. L’incredibile fallimento degli organi di sicurezza e intelligence israeliani nel prevedere e contrastare gli attacchi del 7 ottobre, oltre ad assestare un durissimo colpo al mito della loro efficienza, hanno infine provocato un senso generale di vulnerabilità e sgomento nell’opinione pubblica, probabilmente mai così forte dai tempi della Guerra del Kippur del 1973. Non ci poteva essere contesto peggiore di questo per una nazione costantemente in stato di allerta e alle prese con nemici, sia prossimi che più lontani, il cui obiettivo ultimo neanche nascosto è la sua eliminazione come entità politica.
Che fare, dunque? La prima azione, già in corso, non può che essere naturalmente militare, e dovrebbe avere l’obiettivo di massimizzare le perdite per Hamas, pregiudicandone almeno in gran parte la possibilità di colpire in futuro, e minimizzare il più possibile quelle civili, che comunque ci saranno, per effetto dell’altissima densità di popolazione di Gaza. In questo senso sarebbe certamente importante ottenere l’evacuazione del numero più alto possibile di residenti da Gaza Nord e Gaza City, la quale però è ostacolata da Hamas e anche dai paesi arabi vicini, a cominciare dall’Egitto, che non vogliono ritrovarsi con un milione di profughi sul loro territorio. Vale la pena far notare che, per l’organizzazione armata che governa Gaza, la propria popolazione civile è un ostaggio, non diversamente dagli Israeliani rapiti, della quale non importa troppo la sorte. Anzi, nel loro disegno, più saranno i morti tra i residenti, più forte sarà l’appoggio morale e politico che essa riceverà dal mondo arabo e musulmano, e non solo da esso. Anche i governi degli stati arabi confinanti, del resto, sempre pronti a condannare a parole Israele, pur con le loro legittime preoccupazioni interne, non paiono aver particolarmente a cuore la vita dei “fratelli” Palestinesi di Gaza. Bombardamenti aerei mirati a eliminare strutture, comandanti e militanti di Hamas, operazioni di forze speciali e offensiva di terra, senza escludere esecuzioni di dirigenti dell’organizzazione che governa Gaza, comodamente rifugiati in Qatar, Libano e Siria. Queste sono le possibili immediate iniziative, nessuna naturalmente priva di rischi. In particolare, se, come sembra probabile, Gerusalemme opterà per una larga offensiva terrestre, dovrà essere sufficientemente chiaro, almeno nei programmi dei suoi strateghi, quel che sarà il futuro assetto della Striscia, ammesso che la bonifica dalle milizie terroriste che la governano abbia successo. L’occupazione sine die non sembra un’opzione percorribile, mentre il coinvolgimento dell’ANP e di governi arabi “amici” in un’operazione simile a un protettorato temporaneo (in stile Kosovo) non può essere affatto dato per scontato.
Una così importante azione militare però non dovrebbe essere fine a se stessa o alla sola pur legittima necessità di deterrenza o finanche giustizia (o vendetta), ma avrebbe bisogno di un obiettivo politico, per essere davvero capace di generare una svolta nella politica israeliana e del Medio Oriente tutto. La politica e la società israeliana, passata la legittima rabbia e indignazione contro Hamas, avranno nei prossimi mesi l’obbligo di confrontarsi con una realtà che solo ingenui o folli possono negare: il conflitto israelo-palestinese non può essere risolto congelandolo come è avvenuto in questi ultimi anni, pena la perpetrazione a tempo indeterminato dello stato di tensione e violenze reciproche che, prima o poi, coinvolgerà in modo ben più ampio la stessa Cisgiordania. Sarebbe utile ricordare come, nella storia del conflitto, alcuni eventi abbiano contribuito a generare delle svolte, ora in senso positivo, ora negativo, nel processo di pace tra le due parti. Così la prima intifada convinse buona parte della società e delle istituzioni dello stato ebraico dell’impossibilità di continuare un’occupazione militare di territori abitati da Palestinesi ostili, in gran parte ragazzi, che mettevano a rischio la loro vita bersagliando altri giovani soldati con lanci di pietre, mentre la seconda, dopo il fallimento del vertice di Camp David del 2000, ebbe l’effetto di deprimere le speranze della popolazione israeliana di poter convivere pacificamente con uno stato palestinese. Dalle conseguenze della prima rivolta sorgeranno gli accordi di Oslo, dalla seconda la sfiducia nella leadership palestinese e l’ostilità alla creazione di un loro stato indipendente. Nel prossimo futuro il fallimento della strategia del Likud di Netanyahu potrebbe lasciare spazio alla consapevolezza di dover riallacciare i fili di una trattativa diplomatica finalizzata al riconoscimento dello stato di Palestina, in un territorio contiguo, se pur per ora limitato alla West Bank e in una certa misura ridotto rispetto ai tanto agognati confini del 1967, per mantenere almeno gli insediamenti ebraici più vicini al limes con Israele. Non sarebbe un percorso facile, naturalmente, e dovrebbe essere esplorato gradualmente, attraverso la costituzione di una diversa maggioranza politica a Gerusalemme (il governo Netanyahu dovrebbe avere vita breve), la legittimazione di una nuova generazione di dirigenti nell’ANP, e la definizione di una realistica road map, tesa innanzitutto a ristabilire la fiducia reciproca. La tragica sorte della popolazione di Gaza, purtroppo, difficilmente potrà invece migliorare fino a quando sarà al potere un’organizzazione come Hamas, anche in caso di successo della ripresa delle trattative tra Gerusalemme e Ramallah. Non mancherebbero le opposizioni da parte della destra nazionalista e religiosa, né gli attacchi e gli attentati da parte delle fazioni islamiche estremiste, il cui obiettivo è la cancellazione dello stato ebraico, ma il motto dovrebbe essere lo stesso di Itzhak Rabin, quando disse: “Continueremo il processo di pace come se non ci fosse il terrorismo e combatteremo il terrorismo come se non ci fosse il processo di pace”. Una simile prospettiva oggi sembra inimmaginabile, ma nella Storia a volte i cambiamenti sono repentini e nella mente degli uomini di stato non deve mancare un po’ di fantasia.
Il ruolo della comunità internazionale, e in primo luogo di USA e stati arabi confinanti, sarà fondamentale nella gestione della crisi e nell’accompagnamento verso un futuro di trattative e, auspicabilmente, pace. L’amministrazione Biden si trova nella non facile condizione di dover da un lato assicurare sostegno a Israele e scoraggiare qualsiasi tentativo di inserimento nel conflitto da parte di altri attori, statali e non, dall’altra riuscire a contenere la comprensibile rabbia delle istituzioni di Gerusalemme e la conseguente decisione a intraprendere un’intensa campagna militare terrestre nella Striscia di Gaza, cercando al contempo di garantire l’afflusso di aiuti umanitari alla popolazione del territorio assediato. Un ruolo che fino ad ora è stato svolto con equilibrio e prudenza da un egemone preoccupato di non far scoppiare un altro incendio dopo quello ucraino, ma che non sembra sufficiente a scongiurare il divampare di ulteriore odio nelle opinioni pubbliche musulmane contro Israele e gli Usa stessi. La prova si è avuta nel corso delle proteste avvenute in varie città, dal Marocco a Teheran, seguite alla strage avvenuta martedì sera in uno degli ospedali di Gaza, sebbene la ricostruzione dei fatti faccia propendere per un difetto di funzionamento di un razzo partito dall’interno della Striscia, quale causa della tragica esplosione. I governi degli stati confinanti con Israele sono prigionieri della loro debolezza e impotenza, di fronte a rischi di sommosse interne animate dall’odio anti-israeliano, che potrebbe pericolosamente aggiungersi alle recriminazioni per motivi economici e sociali. Egitto e Giordania ne sono esempio e l’Arabia Saudita ne condivide l’incubo, tanto da ritrarsi dall’abbraccio con Israele, che fa seguito al tentativo di raffreddamento delle tensioni con Teheran, mediato da Pechino. Il Libano è, come al solito, una polveriera pronta ad esplodere, con Hezbollah agli ordini dell’Iran e pronto ad aprire un fronte da nord al momento più opportuno. E poi l’Iran stesso, i cui esponenti non hanno mancato di ipotizzare un intervento militare diretto contro Israele, che, se pur rimanesse, come probabile, al livello di minacce verbali, potrebbe preannunciare un coinvolgimento delle sopra citate milizie sciite libanesi, ben più numerose e armate di Hamas. A completare il quadro, Russia e Cina ben liete di vedere USA e alleati alle prese con la pentola a pressione mediorientale e per questo potenzialmente distratti dai quadranti ucraino e pacifico. Quanto all’Europa, non sorprendono la sua inconcludenza e inefficacia nelle relazioni internazionali, presa sia come UE che come singoli stati nazionali. In questo caso tali mancanze sono rese ancor più lampanti dalla storicamente scarsa influenza dei governi del vecchio continente sulla politica di Israele e da una cacofonia di voci diffuse dai vertici dell’UE, diventata finanche imbarazzante, tra la solidarietà a Gerusalemme di Ursula Von der Leyen e le continue dichiarazioni non certo empatiche del Presidente Charles Michel e dell’Alto Rappresentante per la politica estera, Josep Borrell.
Gli avvenimenti delle prossime settimane e mesi potrebbero, come si teme, sconvolgere il Medio Oriente, avere conseguenze negative per la stabilità globale e, non di meno, per la stessa sicurezza dei paesi europei, già colpiti in questi giorni da una recrudescenza del terrorismo islamico, a cui il riacutizzarsi del conflitto arabo-israeliano fornisce il consueto combustibile. Le democrazie occidentali si trovano a dover dar prova di equilibrio e saggezza ma anche della fermezza necessaria a mettere in atto le misure di sicurezza utili a salvaguardare l’ordine pubblico interno. In caso di conflitto di media o lunga durata i governi saranno verosimilmente sottoposti alla pressione di parte delle opinioni pubbliche per disinteressarsi della questione e concentrarsi sui problemi interni, come avvenuto per la guerra in Ucraina. E’ lecito domandarsi quali ripercussioni potrebbero avere la prossima campagna elettorale americana e un eventuale cambio della guardia alla Casa Bianca sulle capacità di leadership e mediazione degli USA, dove già si nota una certa freddezza della popolazione nel sostegno a Israele, particolarmente marcata a sinistra, come dimostrato da varie inquietanti manifestazioni e prese di posizione (in alcuni casi addirittura pro-Hamas) di gruppi studenteschi nei più esclusivi college del paese. In Europa le piazze si sono riempite di manifestanti a favore della causa palestinese, di solito afferenti all’estrema sinistra e alle minoranze musulmane, mentre i dibattiti sui mezzi d’informazione e i sondaggi d’opinione testimoniano una notevole ritrosia dei media e delle cittadinanze a sostenere il diritto di Israele all’autodifesa, anche dopo l’efferato attacco del 7 ottobre. Un tale atteggiamento non sorprende troppo, considerando la storica simpatia presente nel vecchio continente verso la causa palestinese, ma non si può non notare come il dibattito, anche in Italia, abbia visto troppe voci dimenticare molto presto la barbarie perpetrata da Hamas e confonderla in un improbabile calderone di violenze reciproche persistenti da decenni. Paragonare gli efferati assassinii di oltre un migliaio di civili israeliani, programmati e voluti, con tanto di neonati sgozzati nei loro letti, ai morti palestinesi provocati da bombardamenti e azioni militari finalizzate a colpire terroristi ed altri elementi combattenti, non sembra poter essere che frutto di odio ideologico verso lo stato ebraico, quando non di antisemitismo Gli appelli a non farsi trascinare dalla rabbia e a rispettare il diritto umanitario (per quanto questo sia largamente interpretabile), provenienti da istituzioni e società civili occidentali, sono giusti e legittimi, ma è difficile non capire che la continua richiesta di “cessate il fuoco” ha il concreto significato di negare a Gerusalemme il diritto a difendersi, contrattaccare e garantire la sua sicurezza dopo un evento assimilabile a tutti gli effetti all’11 settembre degli USA. La pace si fa con i nemici, ma non con chi ha come obiettivo l’eliminazione fisica e la cancellazione dalla carta geografica dell’avversario. Questo dovrebbe essere chiaro a tutti.
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