Geopolitica
Israele ha un solo re, il suo nome è Donald Trump
Quando ci lamentiamo del fatto che il futuro in Italia non arriva mai, e anzi temiamo l’improbabile ritorno in sella di un ultraottuagenario Berlusconi che credevamo metaforicamente sepolto nel suo infinito Novecento, possiamo consolarci – si fa per dire – guardando a sud est, fino a raggiungere le coste di Tel Aviv. Di lì, neanche un’ora di macchina, saremmo a Gerusalemme, che per celebrare il 70esimo compleanno dello stato di Israele ha deciso di diventare sede dell’ambasciata americana nello stato ebraico. La questione, di per sè meramente simbolica, ha molti pesi, in un paese che vive in maniera nevrotica di simboli e di altri simboli, ad essi contrapposti. Gerusalemme è la capitale dello stato, come tale proclamata da Israele e non riconosciuta dalla maggioranza degli stati “che contano” nel mondo.
Il riconoscimento della capitale, in diritto internazionale, non è però considerato indispensabile all’effettivo svolgimento della funzione di capitale della città stessa. Infatti, a Gerusalemme stanno il parlamento israeliano, il governo, la corte suprema, insomma tutti gli organi che ci sono in una capitale. Le ambasciate però stanno principalmente a Tel Aviv, sancendo una forma di complicato status quo che vede Gerusalemme il luogo in cui si recano i capi di stato e di governo quando vanno in visita ai loro omologhi israeliani mentre, invece, le ambasciate stanno tutte a Tel Aviv. Perché a Tel Aviv? Perché Tel Aviv doveva essere la capitale, così sancivano gli accordi dell’Onu del 1948 mentre Gerusalemme doveva rimanere “città internazionale”, solo che poi i paesi arabi non accettarono l’accordo, Israele non vedeva l’ora che non lo accettassero, e insomma ci fu una guerra, Israele si espanse e si prese la “sua” Gerusalemme. Storia lunga, non perdiamoci.
Insomma, le ambasciate stavano tutte a Tel Aviv, status quo dell’ipocrisia, prima che arrivasse Trump. Il quale decide diverse cose. La prima, più importante, di chiudere unilateralmente l’accordo internazionale siglato con l’Iran, minacciando di sanzioni gli alleati europei che vorranno mantenervi fede. La seconda, in teoria minore, di spostare definitivamente l’ambasciata americana a Gerusalemme. Le due cose però avvengono nello stesso periodo, e il giorno delle celebrazioni della “nuova ambasciata” cade lunedì 14 maggio, lo stesso giorno in cui Israele celebra il suo settantesimo compleanno, da un lato, e i palestinesi celebrano il loro disastro, la naqba, la distruzione, e l’esodo di circa un milione di palestinesi autoctoni, nati nella terra compresa tra il Fiume Giordano e il Meditterraneo durante il protettorato inglese (1918-1948) o sotto il precedente Impero Ottomano. Ora, i territori occupati da Israele sono in realtà due entità separate: la Striscia di Gaza, due milioni di persone stipate in pochi chilometri compresi tra il deserto del Negev e l’Egitto, e la Cisgiordania, che sta a est di Gerusalemme, e anzi inizia a Gerusalemme Est. A Gaza domina Hamas, che è finanziata in maniera decisiva dall’Iran, lo stesso Iran cui Trump ha dichiarato ostilità disdicendo unilateralmente l’accordo.
Oggi, a Gaza, si contano almeno 55 morti, tutti palestineasi, caduti sotto i colpi delle armi da fuoco dell’esercito di Israele. Non sono “scontri”, nel senso che la forza militare sproporzionata tra le due parti evita lo scontro. Lo scontro è favorito, invece, dal cinismo delle due parti in causa, e la mattanza è ovviamente predeterminata. C’è l’antico e risalente interesse delle leadership palestinesi a mandare verso lo scontato massacro decine e decine (centinaia, migliaia, decine di migliaia, facendo la somma lungo i decenni) di persone per poter mostrare al mondo la violenza sionista. E c’è, fortissima e montante, l’indifferenza israeliana – del governo, dell’esercito, e devo dirlo, con la morte nel cuore, di una parte importante della società – per quei morti che “se la sono cercata”. C’è soprattutto, ormai da anni, un solidissima indifferenza rispetto al “parere” dell’opinione pubblica internazionale, tutta, quella moderata, quella progressista, quella critica ma in fondo sostenitrice delle ragioni di Israele. Tutta tutta? No, un’opinione straniera che nell’Israele del potere conta c’è, ed è quella della destra americana, venata di fondamentalismo religioso cristiano e solidamente legata, oggi, alla lobby del presidente Trump.
Basta vedere le fotografie dell’apertura dell’ambasciata di oggi, per avere un’idea. A fare da cerimonieri c’erano i famigli di Trump: la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner, legato a doppio filo alla destra israeliana. A celebrare il grande giorno, poi, c’erano molti esponenti del mondo cristiano messianico che, ormai da decenni, costituisce un trait d’union consolidato tra la destra israeliana e quella americana: cioè, al momento, tra il governo di Gerusalemme e quello di Washington. Sono autostrade fatte di soldi, di affari, di idee, di uomini in comune. Chi ha assistito alla giornata racconta dei sorrisi indiffierenti e solari di tutti, impermeabili alle morti dei palestinesi (ma queste ormai sono trita cronaca), ma anche a ogni ipotesi di giudizio negativo della comunità internazionale. “La comunità internazionela? E chissenefrega”, come recita un antico adagio popolare alla destra della Knesset. Per fugare ogni dubbio, l’elogio più alto di Trump, nel giorno difficile di questa Gerusalemme, lo ha recitato il rabbino capo della comunità ebraica sefardita.
Tanto da spingere l’analista politico Chemi Shalev a una constatazione amara. L’unico Re d’Israele, ha scritto, è Donald Trump. Lo ha fatto su Haaretz, giornale dell’intellighenzia progressista israeliana. Ma, si sa, per le sinistre, nel mondo, i tempi sono duri ovunque. Figuriamoci dove Donald è Re, e può mandare figlia e genero ad amministrare la provincia.
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