Geopolitica

Israele e USA. La Special Relationship alla prova della guerra di Gaza

22 Febbraio 2024

Il rapporto tra Israele e USA va oltre una tradizionale alleanza basata su interessi comuni. L’assertività dello stato ebraico e le difficoltà dell’egemonia americana. L’instabilità del Medio Oriente non conviene a nessuno dei due. Per Gerusalemme Washington resta alleato imprescindibile.

 

La guerra di Gaza, giunta ormai oltre i quattro mesi di durata, non sembra poter arrivare facilmente ad una conclusione a breve termine, continuando a costituire un grave fattore di rischio per una temuta deflagrazione bellica nell’intera regione mediorientale. L’offensiva israeliana sta incontrando, come era prevedibile, sostanziose difficoltà nel conseguimento dell’obiettivo dichiarato, ovvero la liquidazione completa della forza militare di Hamas nella Striscia. Il rischio di finire in un vicolo cieco è ben presente nei piani alti del governo di Gerusalemme, il quale però non può neanche permettersi di cessare le ostilità senza un risultato perlomeno accettabile, determinato dalla combinazione tra i danni inferti ad Hamas e il successo degli sforzi profusi per la liberazione degli ostaggi, con quest’ultima tuttavia non di per sé sufficiente a soddisfare il bisogno di ripristinare un adeguato grado di deterrenza da parte dello stato ebraico. Qui, in estrema sintesi, sta la maggior difficoltà al raggiungimento di un cessate il fuoco duraturo, nonostante il gran lavoro diplomatico teso ad ottenerlo, messo in campo da diversi importanti attori internazionali, statali e non. In particolare, risalta in queste settimane l’insuccesso e, quasi, la frustrazione del governo della massima superpotenza mondiale, nonché primo alleato e protettore di Israele, nel tentativo di spingere il protetto ad accettare di interrompere l’azione militare, o anche solo di limitarne in misura sostanziale l’intensità al fine di ridurre le vittime civili. Contrariamente ad una certa vulgata diffusa nelle opinioni pubbliche occidentali, appare infatti chiaro che gli USA non controllano Israele, ben lontano da essere uno strumento nelle mani di Washington. Il rapporto tra l'(ex?) egemone imperiale con base sul Potomac e la giovane patria del popolo ebraico è, in effetti, tra i più originali e tra i meno riconducibili a schemi pre-cofenzionati che si possano rintracciare nella storia delle relazioni internazionali. Al fine di comprendere le dinamiche della guerra in corso, occorre analizzarlo.

 

Israele mantiene per molti Americani una particolarissima vicinanza al proprio paese, caratterizzata da una salda comunione di interessi, ma, ancor prima, di valori e sentimenti. Una special relationship unisce i due paesi, nelle parole di John F. Kennedy. Non sono pochi i cittadini della nazione indispensabile, a riconoscere loro stessi negli abitanti della villa nella giungla costituita tra il Mediterraneo e il Giordano. Entrambi i paesi sono espressione di un popolo eletto da Dio, allo scopo di testimoniare la Verità teologica, per gli uni, e i valori di libertà e democrazia, per gli altri. Il legame è particolarmente radicato nelle comunità evangeliche e in altre confessioni protestanti presenti negli USA, che non mancano di coltivare con fervore il rapporto con la religione ebraica, antesignana del Cristianesimo. Naturalmente va ricordato poi l’enorme peso detenuto dalla comunità ebraica americana, costituita da circa otto milioni di individui, detenenti però un ruolo ben maggiore nell’economia e nella società americana, più che proporzionale rispetto alla relativa consistenza numerica. Per molti cittadini d’oltre oceano Israele rappresenta una copia in formato minore della propria nazione, unica democrazia in una regione di autocrazie e monarchie assolute, e tale analogia trova una speculare corrispondenza nell’ostilità e nell’odio suscitato nei nemici, i quali, ad esempio gli ayatollah iraniani, hanno non a caso riservato per loro gli epiteti Grande e Piccolo Satana. Alleati indispensabili e protettori di ultima istanza, per Israele gli USA sono stati fin dall’inizio della sua breve storia il principale sostegno, dal punto di vista economico, militare e diplomatico. Il supporto diplomatico americano fu decisivo ai fini della nascita dello stato di Israele, nel 1948, che avrebbe incontrato certamente più difficoltà senza le pressioni esercitate dall’amministrazione Truman su numerosi governi nel corso delle votazioni del piano di spartizione all’ONU, l’anno precedente. Successivamente i rapporti hanno conosciuto anche momenti non positivi, come durante la presidenza Eisenhower, ma nei passaggi storici determinanti Washington non ha mai fatto mancare il suo appoggio, manifestato in fornitura di armamenti, aiuti economici e nella costante politica di apposizione del veto nel Consiglio di Sicurezza ONU, nella quasi totalità delle situazioni in cui Israele è stato oggetto di proposte di risoluzioni ad esso ostili. Lo stato ebraico è il primo beneficiario di aiuti economici e militari americani negli ultimi settant’anni, e tale supporto continua anche oggi, con gli stanziamenti decisi da Joe Biden in corso di approvazione al Congresso, eppure le relazioni tra i rispettivi governi negli ultimi quindici anni non sono state semplici, in particolare durante le presidenze democratiche di Barack Obama e dello stesso Biden, la cui distonia con il premier israeliano Benjamin Netanyahu è stata ben visibile. Sono lontani i tempi in cui Bill Clinton guidava il processo di pace tra Israeliani e Palestinesi e faceva stringere le mani ai nemici storici, Itzhak Rabin e Yasser Arafat, sul prato della Casa Bianca.

 

 

Nel 2015, durante una visita ufficiale a Washington, destò scalpore il discorso pronunciato in Campidoglio da Netanyahu, di fronte alle camere riunite, a seguito di invito dello speaker repubblicano John Boehner. Fu un duro atto di accusa senza precedenti, indirizzato verso Barack Obama e fatto risuonare niente meno che nel tempio della democrazia americana. Il presidente americano era accusato di aver firmato il trattato JPCOA con l’Iran, nemico mortale di Israele, finalizzato ad evitare lo sviluppo della bomba atomica da parte di Teheran, in cambio di un forte allentamento delle sanzioni a suo carico. Tale evento è stato probabilmente la più evidente dimostrazione di assertività e di autonomia dalla Superpotenza, messa in atto da parte di un capo di governo di un paese alleato, almeno dai tempi di De Gaulle, ma ben rappresenta la determinazione con cui i governanti israeliani trattano le questioni inerenti la sicurezza del loro paese, anche nei confronti con chi comanda a Washington. Ne sono stati testimoni anche Carter, Reagan, Clinton, Bush Jr. e naturalmente Biden, i quali hanno dovuto sperimentare quanto sia difficile e frustrante ottenere l’ammorbidimento delle posizioni dei governi di Tel Aviv e poi di Gerusalemme riguardo alle iniziative militari, alle politiche di sicurezza e alle trattative con Palestinesi e altri paesi arabi. La durezza nelle decisioni di interventi militari e l’intransigenza nelle trattative è stata comune a laburisti e nazionalisti, tipica di uno stato, fin dai suoi albori, impegnato nella lotta per la sopravvivenza e circondato da nemici, ma non vi è dubbio che con la seconda ascesa di Netanyahu alla carica di premier, nel 2009, tale tendenza abbia conosciuto un notevole salto di qualità. Con il Likud saldamente al potere in quasi tutto il quindicennio appena trascorso, perno di coalizioni sempre più spostate a destra e includenti ogni tipo di partito nazionalista di stampo religioso, la tradizionale postura israeliana si è combinata con l’estremismo ideologico e, talvolta, messianico di chi detiene il potere politico alla Knesset. Il risultato è stato l’abbandono del processo di pace con i Palestinesi, certificato almeno dal 2014, verso i quali il comportamento tenuto dalle maggioranze governative è stato di aperta ostilità, quando non di aperto disinteresse o addirittura di disprezzo per la loro comunità e le loro vite. La politica attuata in questi anni da Netanyahu è stata, di fatto, il totale congelamento della questione palestinese, come se la situazione di occupazione militare a cui è soggetta quel popolo potesse continuare tranquillamente all’infinito, unita al tentativo di avvicinamento con le monarchie arabe del Golfo Persico, in funzione anti-iraniana, il vero nemico di Israele. Il contrasto di Teheran è stato l’alfa e l’omega della politica estera israeliana, e a tale scopo l’attuale premier era riuscito ad ottenere il pieno appoggio dell’amministrazione Trump, mediatrice degli Accordi di Abramo, e fautrice di una politica di quasi totale assonanza con lo stato ebraico, giunta, sotto gli auspici del potente genero presidenziale, Jared Kushner, di religione israelita, a riconoscere Gerusalemme quale capitale e a spostare in tale città l’ambasciata americana. Di fronte alla traumatica interruzione di tale avvicinamento, causata dalle stragi del 7 ottobre, che hanno gettato improvvisamente la nazione in uno stato di terrore e sgomento, la risposta di Israele è stata, come prevedibile, caratterizzata da una durezza senza precedenti, nonostante le pressioni americane finalizzate alla moderazione nelle azioni militari.

 

Poche settimane dopo i tragici attacchi del 7 ottobre, il presidente Biden ha visitato Israele e si è incontrato con i vertici dello stato ebraico, incluso ovviamente Netanyahu. Non era mai accaduto che un capo di stato americano si recasse in un paese in stato di guerra, a dimostrazione, da una parte del forte e sincero supporto degli USA all’alleato ferito, dall’altra dell’alto grado di attenzione della Casa Bianca per la situazione in Medio Oriente e per i rischi di escalation militare nella regione. Per Washington Israele rappresenta, dal punto di vista strategico, un forte e solido alleato, da difendere e salvaguardare, in un’area ritenuta fino a pochi anni fa vitale per l’economia americana, e ancor oggi fondamentale per gli equilibri geoeconomici globali, in virtù delle esportazioni di gas e petrolio. L’importanza della regione stretta tra Mediterraneo e Golfo Persico è per la Superpotenza ancor più evidente in presenza della guerra in Ucraina, che ha contribuito in gran misura a surriscaldare i mercati energetici mondiali e ha quasi completamente escluso la Russia dall’elenco dei fornitori dell’emisfero occidentale, con grave danno soprattutto per gli alleati europei, almeno nell’immediato. Nonostante i tentativi di disimpegno e la riduzione dei contingenti militari a stelle e strisce impegnati tra i deserti della Mesopotamia e gli altipiani afghani, e le velleità di affrancarsi dal ruolo di poliziotti della regione per concentrarsi sulla minaccia rappresentata dalla Cina, sempre su queste sabbie e in questi mari gli strateghi di Washington sono costretti a volgere lo sguardo. Gli obiettivi strategici da perseguire continuano a essere sostanzialmente quelli ricercati durante la guerra fredda: mantenere la stabilità dell’area, garantire la sopravvivenza di regimi considerati “amici”, impedire l’emergere di un attore egemone ostile e assicurare, conseguentemente, il libero commercio dei prodotti energetici, attraverso il controllo delle vie di comunicazione. Se Israele è un importante alleato, è pur vero che le sue azioni costituiscono un fattore di rischio per la tranquillità della regione, dal momento che, per le opinioni pubbliche arabe, prima ancora che per i rispettivi governi, lo stato ebraico è, prima di tutto, l’oppressore del popolo palestinese, arabo e musulmano. Negli ultimi cinquant’anni, dopo la Guerra del Kippur del 1973, le amministrazioni USA sono riuscite a favorire processi di pace e riavvicinamenti tra Israele e gli stati arabi, a cominciare da quello formalizzato con l’Egitto nel 1978 a Camp David, contribuendo ad evitare conflitti generali in Medio Oriente, estremamente frequenti nei primi venticinque anni della storia della giovane repubblica mediorientale. Nel 1991, durante la Guerra del Golfo, uno dei principali successi diplomatici di George H.W. Bush fu di aver convinto il governo di Gerusalemme a non reagire ai lanci di missili Scud da parte di Saddam Hussein sul suo territorio, finalizzati a coinvolgere nel conflitto lo stato ebraico e trasformarlo in una guerra santa contro di esso, capace di mettere in forte imbarazzo i paesi arabi alleati degli USA. Allo stesso modo, oggi, l’imperativo per Biden è di tenere a freno la rabbia delle piazze arabe e, di riflesso, dei loro regimi, di fronte ai bombardamenti israeliani su Gaza, al fine di non mandare in fumo il lavoro diplomatico portato avanti in chiave anti-persiana con gli Accordi di Abramo, non mettere eccessivamente a rischio le unità militari del proprio esercito stanziate in loco e infine non perdere la collaborazione dei governi dell’area nel quadro del complicato scenario geopolitico globale.

 

 

La determinazione dell’Amministrazione Biden nel mantenere entro un livello di guardia le tensioni mediorientali e nell’attenuare la furia israeliana sulla popolazione di Gaza è, a ben vedere, fuori discussione. Le parole pronunciate di fronte a Netanyahu durante la visita sopra ricordata, in cui l’inquilino della Casa Bianca esorta l’alleato duramente colpito a non ripetere gli errori commessi dagli USA dopo l’11 settembre con la degenerazione della guerra al terrore e l’invasione dell’Iraq, sono a ragione considerate storiche. Ad esse sono seguiti i costanti avvertimenti e le numerose esortazioni messe in campo dal Segretario di Stato Blinken, dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Sullivan e dal Segretario alla Difesa Austin, al fine di convincere i vertici israeliani a concedere corridoi umanitari, limitare l’intensità dei bombardamenti e partecipare a negoziati, se pur indiretti, con Hamas, per stipulare tregue e scambiare ostaggi e prigionieri. Eppure, nonostante i successi parziali nell’opera di moral suasion, la guerra va avanti, più di ogni altro conflitto in cui sia stato coinvolto Israele in passato, e i morti palestinesi sfiorano ormai la cifra di trentamila individui. Gli eventi di Gaza confermano le difficoltà degli USA nell’affermare la propria linea politica e nel fare in modo che altri attori, in questo caso Israele, conformino ad essa le proprie azioni. Una tendenza, questa, non nuova nella Storia recente e già osservata in occasione delle crisi in Afghanistan e Ucraina, che rende palese una volta di più la fase discendente dell’egemonia americana a livello globale. In questa circostanza la relativa debolezza di Washington si manifesta ancor più chiaramente, posta a confronto con la risolutezza del governo israeliano, che mantiene, se pur anch’esso indebolito, il sostegno del proprio popolo per un’azione militare avvenuta in risposta ad un’aggressione realizzata sul proprio territorio con modalità senza precedenti. Alle motivazioni di tipo sistemico alla base della perdita di influenza degli USA in politica internazionale si aggiungono poi le responsabilità da imputare più specificatamente a Biden, giunto a meno di un anno dalle nuove elezioni presidenziali con tanti dubbi riguardo alla sua autorevolezza e, finanche, alla sua lucidità mentale. L’attuale presidente si trova nel mezzo di critiche provenienti da opposte direzioni, tra i Repubblicani che lo accusano di essere troppo morbido con l’Iran e i suoi proxy, e la sinistra del suo partito che gli imputa di aver messo in atto pressioni troppo timide e, di conseguenza, inefficaci, nei confronti di Israele, al fine di indurlo a cessare gli attacchi o almeno a limitarne gli effetti per la popolazione di Gaza. In particolare, alla Casa Bianca viene rimproverato, dall’ala liberal del Partito Democratico, ma anche da funzionari governativi e media, incluse pubblicazioni prestigiose di settore, come Foreign Affairs, di non aver legato la fornitura di armamenti a Gerusalemme al soddisfacimento di precise condizioni sulla gestione del conflitto. Nel novembre dello scorso anno oltre quattrocento diplomatici e funzionari del Dipartimento di Stato hanno protestato contro il Presidente a causa del suo sostegno ad Israele nella guerra di Gaza, e allo stesso modo si sono espressi in massa gli assistenti parlamentari dei Democratici al Congresso. L’ostilità verso le politiche israeliane è sempre più presente nella società americana, in particolar modo tra i giovani e nelle università, come dimostrato anche dalle manifestazioni pro-Palestina in essi tenute negli ultimi mesi. Secondo un sondaggio realizzato dal Chicago Council poco prima del 7 ottobre, come scrive Federico Petroni su Limes, il 60% dei cittadini americani riteneva insostenibile la situazione esistente tra i due popoli, e la stessa percentuale di individui, in caso di conflitto, riteneva che gli USA non si sarebbero dovuti schierare con nessuna delle due parti. Nonostante le numerose voci contrarie, Israele continua però a mantenere una forte influenza sulla politica americana, soprattutto nei riguardi del Partito Repubblicano, che oggi è maggioranza in un ramo del Congresso. Ascendente garantito in gran parte, oltre che per ragioni ideologiche, attraverso i sostanziosi finanziamenti erogati dalla comunità ebraica americana e all’attività di lobbying messa in campo dall’AIPAC, accresciuta oggi grazie all’elevato livello di relazioni detenuto dallo stesso Netanyahu con il mondo politico e finanziario d’oltre oceano.

 

Il rapporto tra Israele e USA si caratterizza pertanto con un regime di influenza biunivoca, in cui il junior partner retroagisce nei confronti della grande potenza egemone, condizionandone a sua volta il comportamento. Se tuttavia, come riscontrato in questi mesi, spingere il governo di Gerusalemme ad interrompere l’offensiva militare, e ancor più a sedersi al tavolo per veri negoziati di pace con i Palestinesi, risulta estremamente faticoso per l’amministrazione americana, è pur sempre vero che Washington è l’unica capitale realmente ascoltata dai vertici israeliani. In particolare, quando è in gioco la sicurezza nazionale, non esistono altri stati in grado di poter influire efficacemente su Netanyahu e soci: non i paesi arabi, pur in presenza di trattati di pace e rapporti di collaborazione; non la Russia, con cui le relazioni sono cordiali e basate sul rispetto dei rispettivi interessi vitali; non la Cina, ancora non sufficientemente coinvolta nella regione. Ancor meno sono capaci di esercitare un qualsiasi ruolo i paesi europei, i cui continui richiami a Israele in materia di diritto internazionale e umanitario, peraltro in assenza di effettive leve diplomatiche da poter far pesare e di una minima coesione interna, generano evidente fastidio a Gerusalemme. La soluzione al conflitto in corso a Gaza non potrà quindi che passare per una mediazione con gli USA in un ruolo da protagonisti, come sempre avvenuto nell’ultimo mezzo secolo. Le interlocuzioni, che stanno procedendo faticosamente al Cairo, con la presenza assidua in particolare del direttore della CIA, William Burns, trovano la principale difficoltà nella ferrea volontà israeliana di proseguire l’offensiva contro Hamas, pur con modi e tempi trattabili, e nel disperato arroccamento dell’organizzazione palestinese, decisa a mantenere i suoi uomini a Gaza, forte della rete di tunnel a sua disposizione. E’ anche facilmente ipotizzabile che svolga un ruolo non trascurabile la convenienza per Netanyahu a prolungare le operazioni militari, in modo da mantenersi in sella nel posto di premier, e ritardare il più possibile il redde rationem che, altrimenti, non tarderebbe ad arrivare, in virtù delle sue responsabilità nella disfatta del 7 ottobre. Ancor più il leader del Likud potrebbe essere incoraggiato a resistere, data la possibile vittoria di Donald Trump alle prossime presidenziali di novembre, che porterebbero alla Casa Bianca una personalità a lui non ostile. Permanendo, in ogni caso, i pesanti interrogativi sulla strategia israeliana, appare chiara anche alla stessa popolazione di quel paese la necessità di chiudere in tempi non troppo lontani le operazioni militari, smobilitare la riserva e tornare alle normali attività economiche, nella consapevolezza che recuperare buoni rapporti con i paesi arabi vicini è imprescindibile, al fine di proteggersi efficacemente da ancor più temibili minacce, a cominciare dall’Iran. In questo senso gli USA rappresentano pur sempre il primo facilitatore di qualsiasi alleanza, nonché un alleato fondamentale in una eventuale guerra con Teheran. Correre il rischio di far perdere loro la pazienza, nonostante ascendenti e influenze varie, potrebbe essere forse troppo. Perfino per un abile giocatore d’azzardo come Netanyahu.

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