Geopolitica

Israele diserta i colloqui e prosegue nel conflitto. La tregua si allontana

4 Marzo 2024

Dopo quasi 150 giorni dall’inizio del conflitto Israele e Hamas non riescono a trovare un punto d’incontro diplomatico. Nell’ultimo mese le parti, grazie alla mediazione di alleati titubanti e negoziatori interessati, hanno indirettamente colloquiato più volte. Durante lo scorso fine settimana a Parigi sì sono svolti incontri tra il direttore della Cia, il primo ministro del Qatar, il capo dell’intelligence egiziana e una delegazione israeliana. Quest’ultima, sulla base dei risultati raggiunti, ha proseguito i colloqui in Qatar durante la settimana appena trascorsa. Domenica le varie delegazioni, compresa quella di Hamas guidata da Khalil Al-Hayya, si sono incontrate al Cairo per trovare un accordo sul rilascio degli ostaggi ed una tregua umanitaria prima dell’inizio del Ramadan. Israele ha disertato i colloqui facendo sapere che “Hamas si rifiuta di fornire risposte chiare e quindi non c’è motivo di inviare la delegazione”. Un funzionario di Hamas ha riferito alla CNN che non verranno rilasciati ostaggi se Israele non accetta un cessate il fuoco permanente. Intanto, mentre sul fronte diplomatico non si vogliono trovare intese, la guerra procede ponendo le grandi potenze e i paesi del Medio Oriente in un pericoloso gioco di schieramenti che sta minacciosamente degenerando in una più ampia contrapposizione tra un’alleanza guidata dagli Stati Uniti contro gruppi militanti sostenuti dall’Iran. La Casa Bianca sta tuttora continuando a sostenere le operazioni militari dello Stato ebraico anche se fino ad oggi il gabinetto di guerra ha pressoché ignorato gli svariati appelli di Washington “nel prendere tutte le precauzioni possibili” per tutelare i civili. In ogni modo, durante la scorsa settimana, l’amministrazione Usa ha inviato armi ad Israele per un importo di decine di milioni di dollari. David Cameron, altro alleato impegnato militarmente, ha incontrato Netanyahu tentando di indurlo a concedere “una pausa umanitaria urgente”. L’Egitto ha chiuso la frontiera con Gaza iniziando a costruire un muro nei pressi del confine nel deserto del Sinai per contenere l’eventuale afflusso di profughi palestinesi. Il Cairo ha definito “una grave minaccia per le relazioni egiziano-israeliane” le intenzioni israeliane di inviare truppe per creare una zona cuscinetto che separa Gaza dal confine egiziano. L’Arabia Saudita ha avvertito di “ripercussioni molto gravi” se Rafah venisse presa d’assalto. Tuttavia Riyad, in dialogo con gli Stati Uniti, starebbe pensando alla possibilità di continuare il processo di normalizzazione che già era in corso con Israele come parte di un accordo che includerebbe la fornitura di munizioni più avanzate ai sauditi e la possibilità di sviluppare un progetto nucleare civile. L’Iran ha approfittato della situazione per combattere una guerra indiretta. Gli Houthi in Yemen, le milizie sciite in Iraq e Hezbollah in Libano sono i tentacoli armati di Teheran. Nei primi giorni del conflitto il Ministro degli esteri iraniano ha dichiarato, menzionero, che “l’Iran non vuole che la guerra si diffonda, ma a causa del comportamento adottato di Stati Uniti e Israele un conflitto più ampio potrebbe rivelarsi inevitabile”. Lontani dal Medio Oriente, gli attori globali hanno esplicitato il loro dissenso nei confronti della politica di Netanyahu. Mosca e Pechino, membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, si sono astenute dal definire l’aggressione di Hamas un atto terroristico e hanno ribadito il loro sostegno alla “creazione di uno Stato palestinese indipendente”. La Cina non vede conforme ai suoi interessi le posizioni statunitensi pro-Israele poiché alimentano l’instabilità nella regione. Situazione non gradita alla Repubblica popolare, in quanto maggior partner commerciale di molti paesi mediorientali e uno dei maggiori acquirenti di petrolio iraniano e saudita. Maggiormente coinvolto Erdogan, oltre a dare ospitalità a vari capi di Hamas, ha garantito l’impegno per “la stabilità in Medio Oriente e la lotta al terrorismo”. Il Sudafrica ha presentato alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia un procedimento contro Israele accusato di genocidio. Lula ha definito il conflitto in corso “un genocidio nei confronti della popolazione della Striscia”. Putin ha ospitato una delegazione di Hamas al Cremlino e dichiarato che Israele non avrebbe il diritto all’autodifesa nella sua lotta in quanto “Stato occupante”. Nel frattempo i caccia dell’IDF e dell’esercito statunitense non cessano di bombardare il sud del Libano. Permane il fuoco di razzi e missili di Hezbollah verso la parte settentrionale di Israele così come i bombardamenti dello Stato ebraico in Siria ed Iraq contro le milizie sostenute da Teheran. I ribelli Houthi continuano ad impedire il traffico di navi commerciali nel Mar Rosso. In Cisgiordania i coloni israeliani espandendo gli insediamenti aprendo un proprio fronte di guerra. l’IDF sta assediando la città di Rafah e di Khan Younis , nel sud della Striscia.

Saltati gli accordi, rimane salda la volontà di Netanyahu di presentare piani per evacuare i civili dall’area di Rafah in vista di una imponente offensiva di terra. Rispondendo ad una giornalista di Cbs ha detto che “la vittoria è a portata di mano, ma non può arrivare finché non elimineremo Hamas. […] Una volta che le forze armate israeliane entreranno a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, ci vorrà ancora qualche settimana e poi si arriverà alla vittoria totale”. Tristemente, nella sua tragica retorica, Netanyahu e lealisti sembrano non voler fare i conti con la realtà. Questi mesi di conflitto mostrano l’impossibilità di perseguire con la violenza militare, al medesimo tempo, gli obiettivi tanto propagandati di “eliminare Hamas“, liberare tutti gli ostaggi e mantenere il controllo militare sulla Striscia. Inoltre, non essendo evidente cosa si possa intendere con sconfitta militare di un organizzazione politica islamista che trova protezione e appoggio presso diversi paesi mediorientali, i cui leader milionari risiedono a Doha, in Libano e in Turchia, Hamas sta avendo successo a livello di considerazione pubblica, trovando appoggio in milioni di cittadini europei, statunitensi e israeliani pronti a manifestare contro le operazioni militari dell’IDF e per la liberazione della Palestina. Inoltre, il gabinetto di guerra sottace che la forza di Hamas si fonda innanzitutto sulla solidità di una struttura politica e organizzativa costruita negli ultimi trent’anni. Oltre a controllare moschee, scuole, ospedali e associazioni d’ogni genere, possiede infrastrutture militari e politiche in Libano, società di investimento in Turchia e Malesia. Hamas riesce a disporre ogni anno di una cifra che si aggira attorno al miliardo di dollari. Larga parte del denaro che accumula proviene da elargizioni di paesi con poche simpatie per Israele e Stati Uniti e da investimenti finanziari che vanno dall’Algeria agli Emirati Arabi. Anche da parte dei governi occidentali il sostegno quasi incondizionato nei confronti di Israele si è trasformato in un atteggiamento sempre più critico seguito da continue quanto inascoltate richieste per un cessate il fuoco umanitario. Sul versante della politica interna il Paese la cui opinione pubblica aveva dimenticato le differenze politiche dopo l’attacco del 7 ottobre non esiste più. Ormai da qualche settimana migliaia di cittadini stanno protestando contro le operazioni militari. Un gruppo di familiari degli ostaggi ha fatto irruzione nella Knesset per chiedere al governo di trovare un accordo. In queste ore in tutto il Paese migliaia di cittadini chiedono elezioni immediate.

L’interesse strategico di Hamas ormai è pienamente raggiunto. Ha impantanato Israele in un irrazionale guerra di vendetta, isolato la sua iniziativa militare da qualsiasi consenso entro la comunità internazionale, riacceso l’attenzione sulla “questione palestinese” e imposto un accordo di tregua che, ponendo come condizione un ampio se non definitivo termine delle ostilità, sancirebbe il fallimento del governo di guerra e, al medesimo tempo, la fine politica di “Bibi”, un uomo di 75 anni che governa Israele da quasi trent’anni e oggi nasconde dietro la propaganda di guerra pesanti responsabilità etiche e politiche. In primo luogo l’assenza, almeno dal 1996, anno del suo primo mandato, di ogni iniziativa diplomatica mirata alla costruzione di un dialogo volto a favorire la nascita di una credibile soluzione a due stati e, all’incontro la perseveranza nell’alimentare una continua contrapposizione ideologica e militare. Altra grave responsabilità consiste nel dover pensare alla ricostruzione di un lembo di terra quasi completamente distrutto, dove la maggior parte della popolazione si trova in tragiche condizioni umanitarie. Chi sarà responsabile della legge e dell’ordine a Gaza? Di ricostruire una società ed una economia funzionante? Le forze di difesa israeliane rimarranno a Gaza in gran numero e per quanto tempo? Ci saranno paesi o istituzioni disposti a finanziare la ricostruzione?

La realtà, infausta, parla chiaro: le persone rapite durante gli attacchi del 7 ottobre sono state oltre 250. Oggi non ci sono informazioni certe su quante di loro siano ancora in vita; si pensa che su circa 130 ostaggi ancora nelle mani di Hamas, almeno 30 siano morti. Sabato la fazione islamica ha mostrato su Telegram le foto di 7 ostaggi israeliani morti “in seguito a un bombardamento sionista”. Hamas ha aggiunto che “il numero dei prigionieri che sono stati uccisi come risultato delle operazioni militari dell’esercito nemico può superare i settanta”. Il salvataggio a Rafah di Fernando Simon Marman e Louis Har, avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 febbraio, ha tristemente confermato la superiore strategia di Hamas: dall’inizio del conflitto solo tre ostaggi sono stati liberati con operazioni militari. Infatti, nonostante i civili palestinesi morti siamo più di 30.000, i successi ottenuti da Israele sono limitati alla distruzione di una parte delle cellule militari di Hamas presenti sul territorio della Striscia e all’uccisione di qualche “capo”. Secondo Reuters il gruppo ha stimato di aver perso 6.000 combattenti durante i primi quattro mesi di conflitto. Un funzionario di Hamas ha dichiarato che Netanyahu “può occupare Gaza, ma Hamas rimarrà in piedi per combattere. Non raggiungerà gli obiettivi di ucciderne la leadership”.Yahya Sinwar, nascosto a Gaza, torna a farsi vivo facendo sapere che: “abbiamo gli israeliani proprio dove li vogliamo”, aggiungendo che un alto numero di vittime civili aumenterà la pressione mondiale su Israele per fermare la guerra.

Oggi la Striscia di Gaza è una prigione a cielo aperto della superficie di 365 km2, cioè grande quanto metà di una piccola città della provincia italiana come Ravenna, dove vivono 2,4 milioni di persone, la maggior parte delle quali con meno di 14 anni, di cui l’80% è oggi ammassata in rifugi di fortuna, vive in condizioni di deprivazione umana ed è impossibilitata a fuggire. Almeno un milione di palestinesi hanno sempre meno cibo e acqua; più di 600.000 bambini sono senza un posto sicuro dove andare. Assumendo una sana dose di realismo dobbiamo arrenderci innanzi ai fatti: sarà impossibile pianificare un dopoguerra senza pensare di avviare iniziative politiche e diplomatiche, concertate entro la comunità internazionale, volte a garantire la fine dell’occupazione israeliana e favorire la nascita di una rappresentanza politica palestinese, legittimata internazionalmente, che possa essere un partner credibile per costruire una soluzione di convivenza con lo Stato ebraico. Oggi esiste una unica certezza: chi non vuole tutto ciò sono Hamas e il gabinetto di guerra israeliano. In quest’ottica Netanyahu si trova intrappolato entro nuove responsabilità : trovare un accordo sul cessate il fuoco per salvare più ostaggi possibile – cedendo alle pressioni della comunità internazionale e alle condizioni di Hamas – o perseverare nella missione tanto propagandata quanto irrealistica, provocando così ulteriore morte e distruzione fine a se stessa senza alcuna certezza per la sorte degli ostaggi ancora in vita? Nel frattempo si avvicina il Ramadan. Netanyahu, nonostante il parere contrario dello Shin Bet, ha deciso di limitare l’ingresso degli arabi israeliani al complesso del Monte del Tempio. Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, ha lanciato un appello ai palestinese invitandoli a marciare verso la Spianata delle Moschee. Il ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir ha dichiarato che bisognerebbe vietare l’accesso alla Spianata delle moschee a tutti i musulmani. Ismail Haniyeh che “l’Asse della resistenza, guidato e sostenuto dall’Iran, deve continuare a sostenere Gaza tramite mezzi politici, finanziari e con l’invio di armi. È dovere delle nazioni arabe e islamiche prendere l’iniziativa per spezzare la cospirazione della carestia a Gaza”. Frattanto, una comunità internazionale per sua natura impotente e disorientata, attende che l’Iran presieda il Forum dell’Onu sui diritti umani organizzato al fine di “promuovere la coesione sociale basata su principi di giustizia sociale, equità e solidarietà”.

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