Geopolitica
In Germania la vecchia Europa resiste, ma ha il fiato corto. Ha il fiato corto, ma resiste
L’esito del voto tedesco è storico per tutti. Per il futuro cancelliere CDU Merz perchè la destra non ha prevalso. Per Weidel, capa dell’estrema destra di AfD, perché il suo partito ha raddoppiato i consensi. Perfino per Trump, che in Germania avrà un governo a lui avverso
La Germania, la vecchia e stanca locomotiva d’Europa, ha votato. Ha vinto Merz, che riporterà dunque la CDU-CSU alla guida del governo tedesco. Anche questa volta, soprattutto questa volta, come già in Francia molte volte, in un paese cardine per gli equilibri europei e globali, in una nazione custode dei simboli del disastro del Novecento e del suo riscatto democratico, si votava per decidere il governo di domani ma anche, e soprattutto, per dire chi si era oggi: siamo ancora un paese anti-fascista, che rifiuta come aberrante e obbrobrioso il passato nazista, e che considera l’Unione Europea la miglior risposta possibile a quella vergogna, perché mai più succeda niente di simile? La risposta dei tedeschi, è bene dirlo subito, è stata positiva.
La grande maggioranza dei tedeschi non vuole AfD al governo
Lo dicono i dati, al di là di ogni comprensibile enfasi sul “quinto dei voti” presi dalla versione post-moderna dell’ultra destra nostalgica di Alice Weidel, ed è bene partire da quelli. Nelle elezioni politiche che hanno registrata in Germania la più alta affluenza negli ultimi trentacinque anni, cioè la più alta affluenza da quando si vota nella Germania unita, la certezza era che l’Afd avrebbe ottenuto un risultato eccellente, e il timore era che quel risultato sarebbe stato così buono da impedire la nascita di un governo di coalizione senza l’AfD. Addirittura, che a fronte di una vittoria schiacciante dell’estrema destra, sostenuta esplicitamente dall’amministrazione Trump nella persona di Elon Musk, sarebbe stato impossibile non affidare a Weidel la responsabilità di condurre le trattative per un governo che sarebbe stato guidato da lei, in prima persona. La realtà è lontana da questo quadro, come lo erano invero anche i sondaggi, che accreditavano sì l’estrema destra di una forte crescita, ma non abbastanza da ambire al cuore del potere tedesco e di conseguenza europeo.
L’84% dei tedeschi aventi diritto di voto che si sono recati alle urne hanno manifestato, nel complesso, la solida volontà di lasciare Weidel all’opposizione. È vero, il suo discorso xenofobo, a tratti apertamente razzista, e negazionista in materia climatica e ambientale, ha convinto circa un tedesco elettore attivo su cinque. Un numero importante, che sembra enorme solo perché parliamo della Germania, il paese della denazificazione dopo l’abominio, quello in cui fino a pochi anni fa esporre una bandiera nazionale al balcone durante un Mondiale di calcio sembrava già segno di estremo nazionalismo. E però, a fronte di questo dato, ce ne sono altri, anche più importanti: l’affluenza così elevata certifica che il pericolo dell’estrema destra è stato avvertito e sentito, più del suo appeal, per il momento. L’avanzata di chi dice che la Germania deve smetterla di vivere il complesso del passato, e non deve aver paura di rivendicare ha chiamato alle armi democratiche tante più persone rispetto al recente passato. È vero, il richiamo alle urne e ad uscire dall’astensione ha premiato sicuramente l’estrema destra e anche l’estrema sinistra, ma in un sistema veramente proporzionale, come quello tedesco, la fotografia resta chiara se la si guarda nel suo insieme: e dice, appunto, che i tedeschi non sono ancora pronti a riconosersi in Weidel e nel suo mondo.
Il futuro della Germania, il futuro dell’Europa
Il quadro che emerge dice dunque cosa i tedeschi non hanno voluto. Non certo cosa avranno, invece, a governarli, in anni difficili per il loro paese attraversato da una devastante crisi di modello di sviluppo e identità, e con un ruolo di guida sempre meno solida, in un’Unione Europea che si racconta ed è sempre più necessaria come spazio politico davvero autonomo, e però eredita anni, se non decenni, di azioni guidate dalle miopie degli interessi nazionali che l’hanno marginalizzata lasciando campo, spazio e voce a chi – fuori, ma soprattutto dentro – ne parla come di un’entità totalmente superflua.
Così, da domani, partiranno le trattative. Per far nascere il governo, oltre ai vincitori democristiani, serviranno gli sconfitti socialdemocratici che si avvieranno, per forza di cose, a un cambio di leadership e a nuovi tentativi di navigazione. E poi, per raggiungere la maggioranza, serviranno altri voti. Ragionevolmente quelli dei Verdi, coi liberali fuori gioco per non aver superato la soglia di sbarramento del 5%. Alchimie politiche e programamtiche tutte da capire e costruire, in un paese che ha fatto sentire chiare le voci di rabbia e nostalgia. Di certo, il governo che nascerà dovrà barcamenarsi in un mondo e in un’Europa inediti. L’era di Trump promette una sorpresa la settimana, e dietro l’angolo ci sono la “pace” in Ucraina da metabolizzare, e da provare ad accompagnare con una personalità e una linea europea.
Per usare quel contesto, e quella che sarà con ogni probabilità la testimonianza più chiara della subalternità dell’Unione alla linea di Washington, qualunque essa sia, come una palestra per diventare grandi, cioè autonomi. Non proprio una passeggiata. Tutti dicono che bisogna “fare presto”, a fare il governo, rompendo la più recente tradizione di estenuanti discussioni su punti programmatici e politici, che sono un po’ un marchio di fabbrica del sistema tedesco. Sicuramente, sarà importante fare bene, e gettare le basi per un cammino solido e consapevole. Perchè è vero che i tedeschi hanno respinto l’assalto dell’estrema destra, ma altrettanto certamente il paese ha dichiarato una porosità che solo dieci anni fa sarebbe sembrata inimmaginabile. Davanti c’è l’idea di futuro dell’Europa e delle democrazie continentali, la sfida francese del dopo-Macron che, nel 2027, vedrà Marine Le Pen giocarsi la miglior occasione della carriera. Mentre negli USA e nel mondo comanda, a modo suo, Donald Trump. Che all’Europa guarda con meno distacco e indifferenza di quello che crediamo, e che anche lui ostenta. Decidere da che parte stare, questa volta, potrebbe significare decidere se esistere o no. Non è, insomma, una questione da poco. Dopo giorni di ostinato silenzio, fatto salvo qualche fuori onda, anche Giorgia Meloni potrebbe trovarsi obbligata a parlare. Fingersi morti in politica è un’ottima tattica. Alla lunga, però, serve una strategia, soprattutto nei momenti chiave: è quello che si apre adesso, in Europa e nel mondo, è sicuramente uno di questi.
(Immagine di copertina: Friedrich Merz, foto di Olaf Kosinsky, licenza creative commons)
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